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Fitzgerald autore universale. Cent’anni di Al di qua del paradiso

Succede a volte che alcuni romanzi riescano a trascendere i limiti, seppur estesi, dell’universo letterario a cui per naturale filiazione appartengono, per arrivare a lambire le coste spugnose e frastagliate della realtà, caricandosi di un plus ultra che fiorisce dal terreno del mondo per poi imporre al mondo stesso coloriture, stilemi, caratterizzazioni sublimate, capaci di favorire e influenzare, in virtù di un impatto formale e tematico destinato a scuotere alla radice il senso comune e l’immaginario collettivo, nuove e precise modalità di approccio alla società e alle esperienze che la vivificano. È il caso di Al di qua del paradiso, primo romanzo di Francis Scott Fitzgerald (oggi edito da Feltrinelli), pubblicato nel 1920, agli albori radiosi dell’età del jazz.

Libro dal successo travolgente, Al di qua del paradiso definisce l’estetica, dalle sue declinazioni più effimere alle propaggini dominanti e basilari, di un’intera generazione, la cui parabola umana s’incurverà fatalmente alla fine del decennio, segnato dal dramma economico del crollo della borsa di Wall Street, facendo del ventiquattrenne Fitzgerald il cantore più acclamato e brillante dei cosiddetti “ruggenti anni Venti”. Questo perché, sin dall’esordio, i romanzi di Fitzgerald tracimano di vita, immergendosi nel reale sino a succhiarne la linfa più pura, per poi rigettarla fuori, oltre ogni specificazione finzionale e autobiografica, potenziata e impreziosita e dunque più vera ed esposta.
Nondimeno, sotto la patina luminosa e spumeggiante, Al di qua del paradiso cova nel profondo la consapevolezza, che si rafforza di pagina in pagina, della caducità e della vuotezza delle divinità – il successo, l’apparenza, l’amore – su cui fonda la sua stessa mitologia, accogliendo in sé una dialettica antitetica e aporetica, d’altronde centrale nell’intero percorso letterario ed esistenziale di Fitzgerald, che irretisce e però ne potenzia la quidditas, il portato intrinseco, permettendo di irradiarne il valore oltre i confini della sua epoca.

Ecco perché Al di qua del paradiso, canto propiziatorio e al contempo epitaffio conclusivo, si configura come un romanzo altamente tragico, un bildungsroman (rovesciato) al negativo, di cui sembra inizialmente condividere le premesse per poi invece rinnegarle tutte nella seconda sezione dello sviluppo narrativo, che costituisce la pars destruens del testo, dove la formazione intellettuale e sentimentale del protagonista, Amory Blaine, alter-ego dell’autore, subisce una brusca interruzione, sfuggendo al linearismo trionfante e abituale delle classiche storie edificanti per abbracciare al contrario un dedalo continuo di ripensamenti disperati, contraddizioni insopprimibili, crisi identitarie.

Al di qua del paradiso

Opera composita ed eterogenea, Al di qua del paradiso è un romanzo anticipatore e modernista, (checché ne dica Hemingway, che lo definì malignamente un college novel) che applica una destrutturazione costante dell’impianto narrativo, costituito da capitoletti variamente strutturati, mescolando generi e forme, prosa, poesia, dialoghi teatrali, scambi epistolari, senza però appesantire mai la scrittura sinuosa ed elegante. In Fitzgerald infatti la facilità (e felicità) di prosa, grazie ad un talento naturale e pienamente metabolizzato, procede a braccetto con l’impulso scrittorio, appianando qualsiasi possibile scarto tra tecnica e intreccio, tra stile e contenuto, che incedono entro un fluido e integrato processo osmotico per cui ciascun elemento si sostanzia e arricchisce per mezzo dell’altro. Fitzgerald non si limita a rispecchiare romanzescamente la superficie del reale circostante, ma lo re-incanta, tracciando con pennellate vivide e puntuali l’atmosfera di una stagione di transizione, con i suoi riti, i suoi pregiudizi, le sue mode, sempre in bilico tra l’idealismo romantico tipico della giovinezza e il moralismo scettico e cattolico di derivazione materna, da cui non riuscirà mai a liberarsi.

Pervaso da una forte connotazione autobiografica, altra peculiarità nodale dei romanzi fitzgeraldiani, Al di qua del paradiso denuncia con ilarità drammatica le ombre di un sistema sociale e consumistico già votato alla spersonalizzazione e al depauperamento dell’inventiva personale, dando voce a una generazione perduta, irrequieta, al contempo prebellica e postbellica e perciò intimamente scissa, dilaniata alla base, che, vittima dell’imbellettata idolatria per il self-made man, oscilla costantemente tra speranza e disincanto, tra sogno e cinismo, tra vanità e isteria.
Nel tessuto narrativo, venato da una mascherata propensione antropologica, vengono allora a crearsi crepe e screziature che tendono a lacerare i gangli cruciali della storia narrata, lasciando adocchiare in profondità i lineamenti della sofferenza incombente, del disastro immanente. In tal modo il romanzo assume un’andatura tragica, il cui moto sussultorio si annida pulsante al di sotto dei dialoghi brillanti e delle conversazioni divertite, ispessendone il carattere e lo scheletro.

Scrittore abitato da un fuoco pervasivo e micidiale, Fitzgerald ha tentato, non solo in Al di qua del paradiso ma anche nei lavori successivi, di fissare per sempre l’incanto primogenito della giovinezza, età di illusioni incorrotte e vitalità dionisiaca, perduta irrimediabilmente (e precocemente) al di fuori del perimetro della letteratura, soccombendo però proprio alle veementi sferzate di quella vita di cui s’era fatto sommo aruspice.
Lo stesso Fitzgerald è infatti una figura che sintetizza esemplarmente gli eccessi, le manie, le ossessioni vacue e mortali dell’epoca di cui ha saputo meglio di ogni altro captare e restituire gli umori mutevoli, i desideri infranti e le fugaci dannazioni. Nonostante la dissipazione crescente, l’alcool, i debiti, le malattie, per Fitzgerald, novello Icaro, nulla è stato mai così urgente come assecondare la brama tirannica del processo creativo, a cui è necessario sacrificare, in virtù di un patto col proprio demone interiore, ogni brandello di felicità superstite, ogni scampolo di umanità ancora spendibile.

A prescindere dal destino esistenziale fatalmente segnato, divenuto poi leggenda, Fitzgerald è un autore globale, intenso e viscerale, abile a declinare nelle sue pagine una certa determinata visione dell’essere umano e del farsi delle cose, e come tutti gli scrittori globali, intensi e viscerali, qualcosa sacrifica sull’altare della posterità, nel momento in cui la sua storicità contingente non combacia più con la storicità futura di coloro che ne leggono le opere.
Eppure, la grande scommessa dei libri che restano e vincono sulla dimenticanza e l’oblio – e Al di qua del paradiso appartiene di certo a questa striminzita categoria – si nasconde e si qualifica proprio in questo paradosso, ossia nella capacità di mantenere intatto, nonostante l’inevitabile asimmetria con l’avvenire, un seme di verità universale (umana-emozionale-sociale) che continua a propagarsi e a brillare negli antri profondi dei decenni successivi, non smettendo mai di interrogare e affascinare chi ne intravede il bagliore intermittente.



Immagine copertina: Dancing the Charleston during the ‘Roaring Twenties’ cover of LIFE magazine, 18th February, 1928 (colour litho) by American School, (20th century); Private Collection; (add.info.: ‘teaching old dogs new tricks’;); Peter Newark American Pictures

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