Gaia lavora per una fondazione culturale di Roma e, durante una settimana di team building in Sud Tirolo, subisce una molestia. Tempo dopo incontra uno scrittore, Francesco, che è la voce narrante, e gli racconta in dettaglio quanto le è capitato. Leggendo Il Capo (Mondadori, 2023), l’ultimo romanzo di Francesco Pacifico, assistiamo a una ricostruzione che, con grande maestria, trasmette sensazioni spesso in contrasto fra loro, dal disgusto al divertimento, dalla curiosità voyeuristica alla commozione e alla rabbia; all’immedesimazione. Quest’alternanza, così ben equilibrata nel ritmo, è sorretta da due elementi: una scrittura talmente onesta, solida e consapevole che, persino quando include il linguaggio delle chat e delle emoticon, non dà mai l’impressione del superfluo, del gioco fine a se stesso. Ma soprattutto è sorretta da un’intelligenza – rara nel panorama italiano – che analizza il complicatissimo rapporto fra uomo, donna, lavoro e potere senza scadere mai nel banale o nel pietismo. O, peggio ancora, nella provocazione gratuita.
Ecco, da qui, e cioè da come Pacifico è riuscito a gestire (in poco più di 150 pagine) tale complessità psicologica, politica e letteraria, abbiamo iniziato la nostra intervista.
Questione spinosissima: esiste un modo per empatizzare con i capi?
Purtroppo sì. Sarebbe meglio se non ci fosse.
Durante le tue ricerche, non soltanto in occasione di questo libro, qual è la forma di prevaricazione che più ti ha impressionato?
Non c’è un picco. La risposta naturale è dire «quella sessuale». Quella sensazione che i capi hanno di avere a disposizione il corpo delle persone sottoposte, diciamo delle donne. Ma quella cosa è incredibilmente affine al resto: le prevaricazioni mi danno l’idea che ci sia una persona grande e vuota che ha bisogno di infilare dentro di sé altre persone. Vedi il capo che sta lì e giochicchia, fa domande, fa le pause mentre parla: «Allora, per lunedì prossimo avrei pensato…» Pausa. E chi pende dalle sue labbra vede cambiare il suo futuro, il suo fine settimana, le sue serate. Queste ellissi con cui il capo si mangia chi gli sta sotto.
Quando e come hai trovato il punto di vista per raccontare una storia così delicata e complessa?
Stavo già scrivendo questa storia quando mi sono accorto che dovevo rendere conto del fatto che ero proprio io, un uomo con l’età da capo, a raccontare la storia degli abusi subiti da una donna. Perché mi interessava proprio dialogare col tipo di persona che io, uomo di quarant’anni che lavora e ha una casa, potrei trovare facile dominare, manipolare, soggiogare, torturare. L’idea di scrivere di questo tema è nata quando ho visto miei coetanei acquisire potere e ho iniziato a capire il potere dal punto di vista del potere.
Quali sono i tuoi riferimenti visivi, teorici e musicali?
Ti rispondo un po’ a caso con gente a cui voglio bene. Oren Ambarchi, Midori Takada, Walter Siti, Monique Wittig, Thomas Pynchon, Bachtin, Montessori, Bifo, Brigitte Vasallo, Superstudio. Ne ho messi di antichi e recenti. Per questo libro ho tenuto sempre con me racconti di Dürrenmatt e Gombrowicz ma pure Hitchcock.
Mi ha colpito la vivisezione che fai delle istituzioni culturali, nello specifico della famigerata “Fondazione”. Che rapporti hanno queste istituzioni con la politica e l’economia?
Bella domanda. Le Fondazioni sono l’aspetto più flemmatico della borghesia. Sono sorelle e cugine delle società di consulenza, delle direzioni dei partiti o dei giornali. È sempre la stessa gente, siamo noi, i ragazzi puliti con le orecchie piene di sapone (non pensavo che avrei mai citato De Gregori in un’intervista). Quel potere carino (qui sto citando il libro Gentrificazione carina, mi sa).
Ho apprezzato la continua corrispondenza tra l’artificialità del paesaggio e quella dei rapporti umani. Come la spieghi?
Ho un’idea gnostica del mondo. Il mondo non l’ha fatto esattamente dio, ma un suo angelo che si è spacciato da dio. È un mondo fatto male, taroccato. Illuminazioni di vario tipo ci fanno intravedere il mondo vero. Non so nemmeno se è la mia visione del mondo, ma quando descrivo i posti mi pare sempre che tutto ciò che tocca l’uomo/l’umanità sia costruito in malafede e pasticciando. I luoghi del turismo sono una delle grandi manifestazioni di questo homo faber artistoide che costruisce mondi che non funzionano. Il lavoro è un altro. Il paesaggio è tutto attraversato da idee di merda venute a noi. I rapporti umani a volte si salvano da questo cosmo fatto male, a volte invece ne sono componenti fondamentali. Cioè, se lavori con un amico, e ti chiama tutto gasato dicendo «ue dai combiniamo», facciamo, il tuo amico diventa un pezzo di questo paesaggio antropizzato molto ridicolo.
Perché hai deciso di incorporare GIF, emoticon e messaggistica dentro una lingua letteraria?
Perché il romanzo è sempre stato la cloaca maxima dei registri del mondo. Non può permettersi di fare solo la parte lirica o elegante, deve combinare aneliti e scoregge, santini e scontrini.
Seppur maturi, dietro molti personaggi si intravede l’ombra dei genitori. È dal rapporto con loro che scaturiscono fragilità e prepotenze, o sono soltanto gli effetti provocati da un luogo di lavoro malsano?
L’ombra dei genitori è l’ombra della Democrazia Cristiana, la grande allattatrice che oggi senza saperlo rimpiangiamo perché la nostra matrigna è la precarietà col mindset. Credo anche che negli anni del grande sviluppo cani e porci siano diventati genitori perché c’erano i soldi per farlo. Troppi genitori in circolazione. Troppi genitori che non si sono mai detti sinceramente che avrebbero voluto fare altro ma erano troppo medi per inventarsi altre forme di vita.
Quanto di Lupini c’è in ognuno di noi?
Lupini (dico per chi origlia questa conversazione) è un raccomandato che intrallazza e gestisce equilibri di potere. Ora. Io non credo nel “noi”, nella grande umanità jovanottesca. Io credo che c’è un Lupini in ogni bravo ragazzo che intrallazza, quindi c’è sicuramente in me e in chiunque abbia fatto le scuole con me. Sono per un esistenzialismo del C.A.P. Sono contro Giacomo De Benedetti che disse che era finalmente nato il Personaggio Uomo. No, è una scappatoia facile per far nascondere tutti i Maglioncini alla Marchionne indossati da “noi” (e da noi scrittori).
Riesci a descrivere in poche parole uno dei migliori personaggi del libro, il Ragioniere?
Un signorino quasi alcolizzato rimasto sedicenne nel corpo di un quarantacinquenne. Capace sia di navigare i corridoi del potere con una bottiglia di vodka ben nascosta sotto la scrivania, sia di far implodere la sua vita dietro a velleitari progetti vitalisti tipo aprire un bar. Un uomo tenero incapace di sentimenti teneri. Ma soprattutto: un grande scambista.
Perché il sesso è così intrecciato al lavoro e al potere?
Ti do una risposta pre-2017: Gabriella, se resti un po’ oltre l’orario di lavoro e vieni nella mia stanza dopo che i tuoi colleghi giovani se ne sono andati, ti racconto un po’ come funziona davvero questo lavoro. Intuitivo, no?
La storia di Gaia ti è servita per capire qualcosa in più di te?
Mi è servita a capire che sono un uomo di mezza età. Che sono un uomo di potere anche se ne ho poco e anche se nessuno dice mai di esserlo tranne forse Andreotti. Che scrivo di cose che mi interessano. Che credo nella ricerca letteraria aperta e senza secondi fini anche se l’editore (uso il maschile perché il potere è sempre maschile) mi chiede quando posso fare un romanzo che parla a più persone, più accessibile. Secondo me accessibile vuol dire solo poco ambivalente, più spiegato, più spiegabile, cosa che mi fa vomitare.
In copertina: Samantha French, Night Waters, 2017