«[…] il dottor Rieux decise allora di redigere il racconto
che si chiude qui […]
Però egli sapeva che questa cronaca non poteva essere
quella della vittoria finale. Non poteva essere che
la testimonianza di quello che si era dovuto compiere e
che, senza dubbio, avrebbero dovuto compiere ancora
[…] tutti gli uomini che, non potendo essere dei santi e
rifiutandosi di accettare i flagelli, si sforzano tuttavia di
essere dei medici.»
(Camus, La peste)
Ci sono eventi che paiono contraddire ogni senso umano, «in modo che le cose presenti ci offendono, le future ci minacciano; et così nella morte si stenta, nella vita si teme». Ci consegnano allo stupore e negano le nostre sicurezze, questi eventi estremi. Ci precipitano sul bordo del mondo facendocene soffrire la finitezza, e da lì ci costringono all’impossibile: guardare oltre, alla ricerca di un altrove fermo e stabile su cui il mondo poggi di nuovo, e di nuovo con esso le nostre sicurezze.
Chiamiamo questi flagelli “pesti”: epidemie e pandemie che d’improvviso si diffondono, rubandoci le vite con la potenza cieca di una tempesta, di un gorgo che si apra nell’oceano.
Loimós, “peste”, è il nome che già fu dato al male sconosciuto che devastò l’Atene di Pericle. E peste la nostra cultura ha poi detto la morte seriale, anonima, invincibile che per secoli è tornata e torna, sempre uguale nel dolore e nel disorientamento.
Di quelle pesti, e di quel dolore e disorientamento, ci restano le notizie di grandi e piccoli osservatori: immagini di poeti e cronache di medici, storici, filosofi e popolani, testimonianze di chi tentò di prendersene cura e fantasmi menzogneri di chi aggiunse peste a peste. E ce ne restano i segni che sempre riaffiorano nelle opere letterarie. Tutte insieme, immagini, cronache, testimonianze e menzogne sono un tesoro di umanità, memoria accumulata di sofferenze che vogliono conforto, di speranze nutrite di autoinganni, di competenze mediche messe a tacere dal pregiudizio, di paure capovolte in odio.
Occorre leggerlo, questo tesoro complesso e contraddittorio. Occorre ritrovare le parole di chi, vissuto prima di noi, ha raccontato il suo – il loro – sguardo sul bordo del mondo, alla ricerca di qualcosa al posto del niente che da lì si intravedeva, o si temeva di intravedere.
Questo faremo, leggeremo quelle parole. Torneremo a dar loro voce, non per metterle in fila, una dopo l’altra, rinnovandone senza scopo il dolore, ma quasi per riviverle, e per ritrovarne un senso che sia – come è – anche il nostro.
Forse scopriremo che pesti sono allo stesso modo altri eventi che ci rubano le vite con la cecità delle pandemie, e che ci paiono fatali e immedicabili più delle pandemie: le smanie omicide del potere, le guerre devastanti, le discriminazioni, le verità che escludono ogni altra verità, le ideologie fanatiche, le fedi negli dèi gelosi e vendicativi, gli egoismi ammantati di ragione che affamano il mondo, le indifferenze che tutto questo vogliono ignorare.
Alla fine, peste è la condizione che grava su tutti noi, esseri effimeri che in un giorno tramontano e che temono di smarrirsi nella profondità senza misura degli universi, ma anche coraggiosi naviganti nella tempesta, in cerca di buone illusioni cui darsi con fiducia. In questa comunanza di destini troveremo le ragioni di un coraggio senza eroismi né santità, necessario, e di una necessaria solidarietà. Sull’uno e sull’altra poggia il mondo, il nostro mondo.
Non c’è per noi un luogo sottratto alla finitezza, ma neppure un niente, se non quello delle nostre paure. E non c’è un altrove, se non quello che, dandoci soccorso scambievole, senza sosta costruiamo e ricostruiamo.
Resta che nulla di tutto ciò è semplice, scrive Camus al termine della sua Esortazione ai medici della peste. Per quanto siate calmi e coraggiosi nel vostro sforzo di cura,
«verrà il giorno in cui non sopporterete più questa città di agonizzanti, questa folla che gira a vuoto per strade roventi e polverose, queste grida, questo allarme senza futuro. Verrà il giorno in cui vorrete gridare il vostro orrore di fronte alla paura e al dolore di tutti. Quel giorno, non ci saranno più rimedi che vi possa dire, se non la compassione che è la sorella dell’ignoranza.»
Osservando gli uomini, e tra gli uomini noi stessi, forse siamo tentati dall’orrore per il vuoto in cui si muovono. A evocarlo valga un piccolo scritto di centocinquant’anni fa.
«In un angolo remoto dell’universo scintillante e diffuso attraverso infiniti sistemi solari c’era una volta un astro, su cui animali intelligenti scoprirono la conoscenza. Fu il minuto più tracotante e più menzognero della storia del mondo, ma tutto ciò durò soltanto un minuto. Dopo pochi respiri della natura, la stella si irrigidì e gli animali intelligenti dovettero morire.»
Questa, prosegue il piccolo scritto, sarebbe la condizione dell’uomo, se fosse solo «un animale conoscente; la verità lo spingerebbe alla disperazione e all’annientamento; la verità di essere condannato eternamente alla non verità. All’uomo per contro si addice solo la fede in una verità raggiungibile, in un’illusione cui ci si avvicina con fiducia».
Più della verità, ad accorti marinai nella tempesta si addicono le buone illusioni: non gli inganni e gli autoinganni, ma le verità raggiungibili, simili a porti via via cercati e sempre di nuovo lasciati.
Se osservando gli uomini siamo presi dall’orrore per le loro paure e il loro dolore, ancora c’è un rimedio per questo ultimo, estremo flagello, per questa peste che ci minaccia il cuore e la mente: patire per il loro patire, gioire per il loro gioire, e sentirli come se davvero fossero anche i nostri.
Viviamo, dice il Plotino di Leopardi all’amico Porfirio. Preso da un tedio «così veemente che si assomiglia a dolore e spasimo», Porfirio sostiene che l’esistenza è vana, che ogni cosa è vana, che solo la noia non è mai inganno. Viviamo, lo esorta dunque Plotino, che come lui non cerca autoinganni, e che più di lui conosce il valore umano, molto umano delle illusioni. Per la nostra amicizia, viviamo. Assumiamo su di noi l’impegno di far fronte ai mali – alle pesti – della condizione comune, «e confortiamoci insieme: […] attendiamo a tenerci compagnia l’un l’altro; e andiamoci incoraggiando, e dando mano e soccorso scambievolmente; per compiere nel miglior modo questa fatica della vita».
È una illusione, un tale confortarci e soccorrerci – un tale patire insieme, e insieme gioire –, ma è una illusione buona, una verità raggiungibile cui possiamo avvicinarci con fiducia, un grande porto che ci compensa degli universi che ignoriamo, noi che siamo sogni fragili in cammino.
Questo brano è estratto dal volume “Far fronte all’ombra. Cosa insegnano le pesti”,
edito da Raffaello Cortina Editore
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