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Essere “burrnesh”, vergine giurata

L’ultimo romanzo di Valentina D’Urbano è una storia di cambiamento e lacerazioni, del cuore e dello spirito

Nella parte settentrionale dell’Albania si estendono le cosiddette Montagne Maledette, Bjeshkët e Nemuna in albanese. Disperso tra sentieri a malapena tracciati e circondato da foreste e boschi, si erge il piccolo villaggio di Senjë. L’esigua popolazione trascorre una vita tranquilla e senza grosse pretese, come portare il gregge al pascolo, occuparsi delle faccende di casa e bere rakì a fine giornata. Contemporaneamente a Tirana, la capitale, Hira è una ragazzina che viene richiamata urgentemente da scuola dopo che uno scossone ha fatto tremare la terra. È già orfana di padre, ma presto lo sarà anche di madre. Senza nessun altro che possa prendersi cura di lei, la giovane dovrà recarsi lontano da casa e imparare a vivere ad un’altra altitudine.

Valentina D’Urbano sa scrivere storie, ma soprattutto le sa narrare. Con la scrittura piena di sentimento e umanità che ha sempre contraddistinto i suoi romanzi, la scrittrice romana ci trascina fuori dai confini nazionali e ci catapulta nel raggio d’azione del Partito del Lavoro, in un paese dove la dittatura comunista durò fino agli anni Novanta: l’Albania. Nella sua ultima opera Figlia del temporale, pubblicata quest’anno per Mondadori, D’Urbano ci fa toccare con mano il potere esercitato dalla politica autoritaria imposta dall’ideologia comunista, assieme agli effetti che questa ha avuto nella popolazione. Hira se ne renderà presto conto, una volta lontana dalle comodità della capitale – gli occhi della giovane narratrice della storia vedono Tirana come una capitale moderna, incarnazione dell’unico legame familiare con il mondo che si estende fuori dalle strade che ha percorso fin da bambina. I genitori sono stati individui importanti nel lavoro del Partito: hanno lavorato per il governo comunista e contribuito alla fondazione dell’università. Solo in seguito il mito dei suoi genitori – e in particolare il mito su cui si fondava l’immagine di suo padre Lirjon – verrà decostruito fino a lasciare attorno al suo nome solo la cruda verità: il padre era un informatore che, attraverso il suo incarico all’università, spiava docenti e studenti per poi riferire alla polizia del Partito, la Sigurimi. Hira non ha mai patito la fame, a Tirana, ma imparerà presto che i lunghi inverni pieni di neve e gelo nelle montagne possono essere aspri e crudeli. Durante i mesi più gelidi e le nevicate più massicce il cibo scarseggia, a Senjë: la cooperativa che gestisce la vita nelle montagne raziona il cibo e mettere le mani su alimenti nutrienti diventa impossibile. Andare a letto con la fame che si fa strada dentro lo stomaco e svegliarsi sapendo che l’unica zuppa della giornata sarà annacquata diventa la quotidianità durante i lunghi inverni. 

Ma non solo di mesi invernali è composta la vita in montagna, a cui Hira si dovrà suo malgrado abituare. Dopo un breve soggiorno in orfanotrofio, dove l’unica promessa futura che la sostiene è l’arrivo del fratello Luan, emigrato in Bulgaria con l’intercessione del padre anni prima, Hira viene mandata al nord, dallo zio Ben, nelle Montagne Maledette. La casa dove Ben vive con la moglie Leda e i due figli Danja e Astrit è una kulla: una costruzione in pietra organizzata in più piani, con l’ingresso situato al primo piano, a cui si arrivava con una scala esterna; il bagno è collocato all’esterno. Impara ben presto che lo zio Ben crede nella vita libera ed essenziale della montagna ben più di quanto creda nel Partito e nel suo ateismo imposto dal Presidente Hoxha e dal suo autoritarismo feroce. Davanti agli ufficiali comunisti Ben si mostra docile e sottomesso, risponde con le parole scritte che vanno rivolte per non passare guai, «lunga vita al Padre della nostra Patria, viva il Presidente Hoxha», per poi buttar fuori quello che pensava veramente, «bestemmiare quel Dio che il Partito ci vietava di pregare».

È il 1974 e Hira, come il cugino minore Astrit, ha tredici anni. La vita nella kulla, e nel raggio d’azione del villaggio in generale, è una vita pressoché dominata dallo spirito maschile. I mariti vengono scelti per le figlie già in tenera età, per poi incontrare lo sposo imposto solo quando il momento sarà opportuno. Il giorno del matrimonio il padre consegna al marito della figlia un proiettile, simbolo della sottomissione della moglie al volere del marito e monito di essergli sempre fedele. È il marito ad accordare la concessione alla moglie di uscire: Leda, di fronte ad una richiesta di assistenza ad un parto difficile in una casa vicina, si volta verso il marito per un tacito permesso, accordato senza nemmeno alzare gli occhi dal tavolo, ma solo alzando appena le dita. Gli indumenti intimi femminili vengono lavati sempre al fiume, assieme alle altre donne del villaggio, mai in casa, come invece avviene per il resto del bucato. Alla nascita del figlio maschio, l’unico membro della famiglia capace di portare avanti la casa e l’onore del clan, il padre prende il fucile e spara in aria per annunciare al resto del villaggio l’arrivo dell’atteso futuro. 

Si sentirà lo stesso sparo nella notte il giorno in cui Hira diventerà Mael. È un’antica, e quasi in disuso, usanza delle montagne, quella che Hira apprende ascoltando la storia di Hilmi: la tradizione delle burrnesha, le vergini giurate. Tempo addietro, nel villaggio di Sulaj, erano rimaste ormai solo donne, tutte vedove – tutte tranne un abitante, nata donna e diventata uomo. Ad Hilmi era stato combinato un matrimonio che non voleva portare a termine, perciò lo rifiutò. Per evitare di portare disonore al clan e iniziare una gjakmarrie, una faida di sangue come le tante che si sono sempre viste in quei luoghi, Hilmi segue le parole contenute nel codice che governa la vita nelle montagne: il Kanun. Caduto oramai pressoché in disuso, soprattutto tra i ranghi del Partito, il Kanun è un libro dove sono riportate tutte le regole che una volta organizzavano la vita ad alta quota – soprattutto sono riportati i comportamenti che deve avere la donna e quelli che devono essere seguiti dall’uomo. Tra queste righe è riportato anche il giuramento che deve pronunciare la donna per diventare una vergine giurata, diventando così a tutti gli effetti un uomo, con tutti gli onori e gli oneri che il sesso maschile porta con sé. La figura della vergine giurata, ai tempi di Hira, era già diventata un’usanza in decadimento, considerata antica. Non aveva, tuttavia, perso il rispetto che il giuramento portava con sé: «Giuro di restare vergine, di indossare abiti da uomo, di comportarmi come un uomo, di usare parole e azioni da uomo»

Benvenuto, uomo: «Mirë se vjen burre». Così Hira diventa Mael all’età di ventitré anni per rifiutare una parte del suo essere donna che non ha mai sentito completamente suo: sposarsi con uno sconosciuto, condividere la notte con lui, avere dei figli. Così Mael inizia a bere rakì, a riunirsi con gli altri uomini, a tornare a casa ubriaco, a fare lavori da uomo, ad indossare pantaloni, ad avere una casa tutta sua. La natura umana rimane, però, inarrestabile – così la parte di Hira che Mael ancora si porta dentro fa la comparsa ogni mese sotto forma di vestiti lavati in una tinozza per rimuovere le macchie cremisi e un petto fasciato stretto da bende che tolgono il fiato. Mael porterà con sé questa dualità – quest’essere non del tutto uomo e non del tutto, non più, nemmeno donna – per diversi anni, finendo per lacerare il suo spirito, non riuscendo più a riconoscere il suo riflesso nello specchio. Quello stesso riflesso che riesce, tuttavia, a scavalcare le barriere sociali e raggiungere inalterato – com’è sempre stato, da ormai dieci anni – un cuore che batte assieme al suo, quello del cugino Astrit. 

Quando si incontrano per la prima volta, Astrit è muto. Quand’era bambino ebbe un incidente, una pallottola lo oltrepassò lasciandolo tra la vita e la morte per diversi giorni; una volta sveglio, le parole gli rimasero incastrate da qualche parte in gola, non riuscendo a proferire parola fino all’arrivo di HIra. Hira si avvicina a quel ragazzo silenzioso, che sembra capire il suo silenzio e il suo spaesamento meglio di quanto ci riesca lei stessa, condividendo una forza d’animo e un cuore indomito. Astrit si nasconde nei boschi, sa orientarsi nella foresta ed è in simbiosi con la fauna di quei luoghi. Sarà proprio il cugino ad insegnarle la via selvaggia della montagna e ad orientarsi nel buio di una natura incontaminata. Condividono il segreto di escursioni in luoghi proibiti, la montagna di Maja i Narreth, temuta dal governo poiché oltre la discesa della sua parete rocciosa c’è il confine con la Jugoslavia. Nessuno può lasciare il paese senza che il governo lo autorizzi.

Hira e Astrit sentono un sentimento che nasce pian piano e che non sanno identificare, non sanno controllare, non sanno confinare dentro loro stessi, non vogliono sottometterlo alle imposizioni degli altri. È quest’impeto irrazionale, pieno di tenerezza e calore umano, che rende Figlia del temporale un romanzo dolce nonostante l’asprezza della vita sotto la dittatura comunista del presidente Hoxha e del Partito, nonostante la durezza della vita in montagna, nonostante le perdite e i sacrifici. Hira e Mael raccontano un’antica tradizione, trasportando tutto il villaggio dentro la vita di una vergine giurata, testimoniando le lacerazioni di un cuore che non sa più in cosa è costretto ad identificarsi per vivere una vita libera. 

Immagine di copertina di «National Geographic»
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