Di riferimento per autrici del calibro di Annie Ernaux, che dal suo romanzo disse di aver tratto ispirazione – «è stata per me un modello» –, ben accolta al suo esordio da scrittrici come Simone De Beauvoir («Una voce di donna di una precisione indimenticabile»), Claire Etcherelli torna nelle librerie italiane, dopo la prima pubblicazione nel 1968, grazie a L’Orma editore, che ristampa Élise o la vera vita nella traduzione di Anna Scalpelli. A ben guardare, un recupero fondamentale, vincitore del Prix Femina, dal momento che a lei si deve uno dei ritratti proletari più degni di nota della letteratura.
Etcherelli, d’altronde, condivide con la sua Élise molte cose: entrambe orfane, entrambe trasferitesi nella capitale francese, entrambe donne operaie. Etcherelli, che aveva perso suo padre all’età di undici anni, fucilato durante la Seconda guerra mondiale, era stata successivamente affidata alla tutela dello Stato. Agli studi interrotti presso un istituto cattolico e al suo matrimonio nel 1951, era seguito il suo trasferimento a Parigi: sono questi gli anni della catena di montaggio in Citroën, che cambieranno in maniera definitiva il suo sguardo. Il lavoro di operaia non è compatibile con qualsivoglia forma di processo creativo: il romanzo d’esordio di Etcherelli dovrà attendere anni prima di essere ultimato e dato alle stampe. Cambiato ormai lavoro – adesso ha trovato occupazione in un’agenzia di viaggio – e terminata la scrittura, Élise viene pubblicato da Denoel.
Se scrittura e lavoro in fabbrica sono incompatibili, la storia della giovane Élise assume tratti ancor più nitidi, non solo come diapositiva di una condizione storica e sociale – è il periodo della guerra in Algeria – ma anche e soprattutto di una condizione umana che, in linea teorica, dovrebbe essere inalienabile.
«Provinciali miserabili. Isolati, goffi, poveri della povertà che si nasconde».
Élise vive a Bordeaux con sua nonna e suo fratello Lucien, di qualche anno più piccolo. Le condizioni economiche sono pressoché disperate, il cibo «difficile da rimediare», gli spazi personali inesistenti da quando la ragazza cede la sua stanzetta a Lucien. Senza convinzioni e ambizioni, senza slanci o stimoli, Élise è parte e causa di un vero e proprio sbilanciamento familiare. Gli equilibri, infatti, pendono tutti per il maschio di casa, nonché il più giovane, nonché il più scostante; ciò che Élise desidera è sacrificarsi per Lucien, nei confronti del quale prova una devozione incrollabile, interrotta, solo talvolta, da sporadici moti di indipendenza, subito respinti. Le frequenti concessioni non fanno che acuire il narcisismo e l’opportunismo di Lucien. È in questo ritmo domestico che, come un’eco lontana, si insinua la realtà, la ‘vera vita’, si intravede il luogo dove «faremo tutto quello che vogliamo fare», con una Parigi immaginata come il luogo dove tutto accada. Sono giorni di una neonata coscienza di classe, fatta di piccole e grandi rivoluzioni, che coinvolgono anche quel piccolo mondo. Probabilmente, però, Parigi non è la terra promessa, ma solo il teatro per il prolificare delle utopie.
Con il cambio di scena, Etcherelli fa fare al suo romanzo il passo verso il capolavoro: Lucien abbandona la famiglia per Parigi, dove si trasferisce e dove, inizialmente solo per una breve visita, lo raggiunge anche Élise. È una svolta senza precedenti: è la prima occasione per lei, tanto sognata, di essere protagonista della propria vita, di deviare il corso della sua storia.
Poiché non si può vivere che soltanto di ideali, Élise segue suo fratello persino dentro la fabbrica. Le porte dello stabile spalanca uno scenario fuor da ogni immaginazione. La condizione di operai e operaie è stata disumanizzata, privata di ogni empatia. Gli esseri umani sono essi stessi attrezzi della catena di montaggio. L’alienazione è tale anche per Élise, che finisce con il sovrapporre la sua persona al suo lavoro; non c’è nessuna vera vita al di fuori della fabbrica, ma solo un disperato tentativo di anestetizzarsi attraverso un sonno senza sogni.
Se l’individualità è morta, Etcherelli non seppellisce tutte le speranze. C’è ancora, forse, la possibilità di un contatto umano, di non perdersi completamente. Nonostante la grande metropoli si trasformi in un grande fratello, sorvegliato in ogni angolo, in cui a un uomo e a una donna non è concesso neppure di passeggiare, sul far della sera, nella solitudine del loro amore. Alla feroce persecuzione razzista si alternano rari momenti di sospensione, quelli di Élise con il suo collega algerino Arezki; il coraggio dei loro sentimenti in venti di guerra e oppressione non offre sufficiente riparo, ma mostra la strada – a chi legge – per non farsi vincere dalla disillusione.
«Ebbi l’impressione che una volta giunti in fondo alla strada, mi avrebbe salutata. Guardavo l’enorme viale, e l’ombra tutto intorno, la gente che rincasata a coppie, gli uomini con il pane e le bottiglie: erano persone che sapevano dove andare, nelle loro case, insieme, e che avrebbero prolungato la gioia di parlarsi per tutto il tempo che desideravano.»
La scrittura di Etcherelli restituisce dignità a cose e persone, restituisce alle parole quella forza necessaria per sopravvivere alle ingiustizie collettive e individuali.
Forse, allora, il significato di tutto è che la vera vita inizia laddove finiscono i desideri.
In copertina, donne nelle fabbriche (credits brumbrum.it)