Dopo Comunque vada non importa, Le ferite originali e Tutto chiuso tranne il cielo, Eleonora Caruso torna in libreria per Mondadori con Doveva essere il nostro momento, un romanzo dalla trama potente e originale: due ragazzi che attraversano la penisola diretti verso Nord e decisi ad allontanarsi da Catania e dal “baglio”, dove grazie a una setta si vive la quotidianità esattamente come negli anni Novanta.
Il romanzo colpisce non solo per l’idea ma anche per lo spessore dei personaggi, tridimensionali e indimenticabili, e per il montaggio, che alterna le tappe della “traversata” ai flashback che raccontano la vita nella setta.
Doveva essere il nostro momento mette in contatto non solo due tempi differenti – da un lato l’Italia del lockdown; dall’altra il baglio di Zan, dove nel frattempo, come in una capsula temporale, si rivivono gli anni Novanta con tanto di Tamagotchi, ciucci e primi successi dei Lunapop – ma anche epoche così caratterizzanti e, al contempo, tematiche che non hanno età: il desiderio di non essere lasciati soli, le aspettative disilluse, la nostalgia che sempre si prova verso il tempo perduto. Mostrare come le paure e le ossessioni restino poi sempre le stesse a prescindere dai tempi era tra i tuoi obiettivi?
Devo essere onesta, quando comincio un romanzo non sono tanto mossa da “obiettivi”, quanto dal desiderio di raccontare una storia che abbia in sé più sostanza e diramazioni di pensiero possibili. Sicuramente l’incontro e scontro tra Cloro e Leo, i protagonisti, mette in scena un incontro e scontro tra la Gen Z e i Millennial, ma i due personaggi non sono nati con quell’intento. Al contrario, direi che l’intento è nato dai personaggi. Che poi paure e ossessioni rimangano sempre le stesse è un fatto, ed è il motivo per cui Cloro e Leo passano dal mal tollerarsi al comprendersi l’un l’altro nei soli cinque giorni che trascorrono insieme.
A proposito di paure e ossessioni, mi ha colpito la frase di Neil Gaiman che hai scelto per introdurre il sesto capitolo: «Buffo. È più piccola, fuori dalla tua testa». Mi è parsa una scelta interessante perché, nonostante i tuoi personaggi si muovano di regione in regione percorrendo tutta la penisola, nonostante esista un luogo fisico – il baglio – così fortemente caratterizzato, mi pare che, Cloro in primis, abitino principalmente un luogo da cui non è così facile a uscire: quello della propria mente. Sei d’accordo?
Decisamente sì. È una costante di tutti i miei personaggi, e se volessimo ridurre i miei romanzi al loro nocciolo estremo, sono un po’ tutte storie di tentativi – più o meno disperati – di cercare una via d’uscita fuori dalla propria testa, per riuscire a esistere nel mondo. Sai quando Alice, nel film Disney, canta «io mi son dar ottimi consigli, ma poi seguirli mai non so»? Ecco, descrive perfettamente la mia relazione con questo aspetto dei miei libri… anche se i miei libri, in effetti, sono proprio il modo che ho trovato per esistere nel mondo.
A un certo punto, tra l’altro, interrogata esplicitamente sulle scelte che l’hanno portata a diventare una famosa influencer – «Che cos’è che ti hanno portato via? Che cosa cercavi all’inizio?» –, Cloro risponde: «Solo un modo per non sentirmi sola». È un momento molto toccante del romanzo, perché la risposta è forse il suo nucleo più profondo: che si cerchi l’approvazione – l’ammirazione? l’amore? – dei propri follower o che si metta in piedi un posto dove rivivere tutti insieme il passato comune, forse l’obiettivo non è poi così diverso: sentirsi meno soli.
È una mia impressione che Zan e Cloro siano più simili di quanto possano pensare?
Cloro e Zan sono due diversi sintomi della stessa malattia, che è l’iperconnessione. Per sopravvivere hanno entrambi sviluppato meccanismi di dissociazione anche estremi dalla realtà, creando realtà alternative per loro stessi. È in questo che si manifesta la profondità della loro solitudine. Solo che, in qualche modo, anziché escludere gli altri, quelle “realtà alternative” li hanno attirati. Cloro ha molti follower su internet, Zan molti seguaci nella setta. Sono polarità opposte dello stesso tipo di disperazione, per questo Leo gravita da uno all’altra per tutto il romanzo.
Una cosa che invece divide profondamente il mondo di Zan da quello di Cloro è l’esposizione allo sguardo altrui (scrivi: «Non dovremmo vedere tutto quello che vediamo, con la frequenza con cui lo vediamo»). Così, se l’angosciante voyeurismo che si crea di fronte alla caduta di un personaggio famoso non è in fondo una novità (penso a Britney Spears, a Macaulay Culkin), la differenza, forse, è che in un mondo “esposto” come il nostro non è necessario essere un vip, ma basta essere una Cloro, una ragazzina qualunque, per finire schiacciati.
Il meccanismo della popolarità su internet ha strutturalmente in sé il tasto dell’autodistruzione. In Tutto chiuso tranne il cielo, il romanzo dove Cloro compare come personaggio secondario, lei dice al protagonista «prima si è soltanto amati, poi principalmente odiati; è così per tutti, ma finché non ti ci schianti contro non lo sai, credi di essere il prescelto, l’unico che può ingerire solo amore». Il paragone con la parabola delle celebrità bambine è corretto, anche se sarebbe più corretto citare solo ragazze, che vengono poi puntualmente punite dal pubblico per essere diventate donne. La differenza è che intorno a loro c’è un’industria, per quanto crudele, si tratta di un modello conosciuto che in qualche modo innalza la celebrità a un altro livello, come se non fosse più umana. Al contrario, la fama su internet si ottiene mostrandosi – o convincendo il pubblico di essere – il più veri possibili. Adesso anche questo è un modello rodato, ma nei primi anni ’10, quando Cloro è diventata famosa, era completamente inconsapevole di cosa stesse firmando. Era una ragazzina sola che cercava compagnia, tutto qui.
Questo mi fa venire in mente una frase del tuo romanzo – «alla gente piacciono troppo gli incidenti stradali» – che appare come la metafora perfetta. Mi è tornato in mente anche Rumore bianco di De Lillo, la scena in cui tutta la famiglia protagonista, davanti alla televisione, rimane avvinta di fronte a delle immagini di catastrofi naturali: una scena che mi colpì profondamente e che ancora mi parla, perché pare che la distruzione – di un personaggio, della natura – sia in qualche modo magnetica per un certo tipo di spettatore, che si tratti di televisione o di social network. Tu cosa ne pensi?
È come dici tu. E i social hanno fatto sì che questi incidenti stradali avvenissero a una distanza talmente minima da sembrare inesistente. Io non sono mai stata particolarmente appassionata di youtuber, ma mi affascina il modo in cui l’interazione diretta tra la persona assurta a mito – in questo caso, appunto, lo youtuber – e i suoi follower possa rapidamente scivolare in una forma di codipendenza anche morbosa, in cui – posso dirlo meglio in inglese – il followed follows the followers. E i follower sentono in questo modo di possederlo sempre di più, e quindi di avere il diritto di farlo a pezzi.
Prima di chiudere, vorrei spendere ancora qualche parola sul baglio, questa bolla temporale messa in piedi da Zan: un luogo che pretende di resuscitare il tempo. Ma, come insegna Proust, non c’è modo di rivivere i giorni perduti perché i luoghi, gli oggetti, le cose del passato non hanno a che fare con lo spazio ma con il tempo in cui li viviamo e con la mente che li riveste di una patina nuova. Così, visto che scrivi: «Alla fine cos’è la nostalgia, se non elaborare il trauma di essere invecchiati?», ti chiedo infine cosa è stato per te il baglio; per te che lo hai vissuto attraverso la scrittura e che forse, in qualche modo – dal momento che la scrittura è anche memoria e bolla nel tempo –, sei stata lì più di tutti i tuoi personaggi.
Leo dice che il baglio è un messaggio in bottiglia. Sono abbastanza d’accordo. Ho la sensazione che noi Millennial non siamo riusciti a incidere sul tempo come avremmo dovuto, che siamo invecchiati senza essere cresciuti. Credo anche che la maggior parte della nostra cultura generazionale sia crollata sotto i colpi delle incertezze, delle crisi e delle paranoie, e che la nostra controcultura sia sprofondata insieme ai resti dell’internet pre social network. Quest’ultima cosa mi rende particolarmente malinconica, ma è un sentimento che posso condividere in pochi, perché in pochi eravamo, all’epoca. Credo sinceramente che stessimo creando, o provando a creare, qualcosa di bello, che ci è stato tolto per trasformarlo in profitto. Non nostro, ovviamente. Vorrei esistesse un modo un po’ più efficace della Wayback Machine per conservare qualcosa di quel tempo, visto che non lo potremo più rivivere. Il modo che ho trovato è il baglio.