La parola panico affonda le sue radici etimologiche nel nome della divinità della mitologia greca Pan, il dio dei boschi. Il dio Pan era furbo e burlone: amava scherzare con le persone e far perdere loro l’orientamento. «Farsi cogliere dal panico» scrive Liz Moore «significava farsi nemica la foresta. Restare calmi voleva dire farsela amica». Avviene così nel suo ultimo romanzo, Il dio dei boschi (NNE, 2024, tradotto da Ada Arduini): è sorprendente, ammaliante e intricato come i rami dei suoi alberi, in grado di ospitare una moltitudine di ecosistemi differenti e disorientare chiunque si addentri nel folto della sua foresta narrativa.

La bussola della storia punta dritto verso la Riserva Van Laar, un pezzo di terra nei monti Adirondack, nello stato di New York. Inizialmente comprata da una famiglia olandese di boscaioli a inizio Ottocento, la Riserva fu poi venduta a Peter Van Laar I, capostipite della famiglia che battezzò quel bosco con il proprio nome. Fu successivamente edificata una villa, chiamata “Fiducia-in-se-stessi“, e creato un campo estivo, Camp Emerson, per valorizzare la salvaguardia dell’ambiente e indottrinare i più giovani ad una cura consapevole. La Riserva divenne ben presto non solo un luogo dove le famiglie più ricche mandavano i loro figli durante l’estate, ma anche una buona occasione di impiego per le cittadine confinanti lungo tutto l’anno. Fuori dalle grandi città costruite da imprenditori e banchieri, nei sobborghi il lavoro era spesso scarso, se non assente, perciò la Riserva divenne da subito un luogo magnetico per chi cercava un impiego. Liz Moore ritrae la situazione economica e lavorativa statunitense degli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso: comunità rurali in difficoltà (costrette a lavorare per le famiglie più abbienti, ostentatrici delle loro ricchezze) e famiglie sulla soglia della povertà, senza mezzi sociali per prevenire la nascita di situazioni domestiche difficili, sottolineate dalla penuria di cibo e mancanza di sussidi per l’istruzione superiore.
La famiglia Van Laar, banchieri da diverse generazioni e interessata solamente a preservare il proprio primato nella scala sociale, ben presto affida la gestione del campo estivo alla famiglia Hewitt, guide naturalistiche da altrettante generazioni. Le due famiglie crescono in binari paralleli, con uno squilibrio di potere che diventa ben evidente quando gli Hewitt saranno costretti a sottomettersi ai Van Laar con la speranza di offrire un futuro migliore per i propri figli, anche a costo di voltare le spalle alla strada giusta da imboccare. Gli squilibri sociali si ripetono costantemente all’interno del romanzo in diverse relazioni, sebbene sul piatto della bilancia ci siano sempre le stesse variabili: da una parte la ricchezza, da cui deriva il potere; dall’altra la semplicità, l’umiltà, il lavorare sodo, l’onestà. L’ostentata ricchezza, il conformismo dilagante e l’egocentrismo superficiale che ben caratterizzano il ceto abbiente del romanzo finiscono per far marcire tutto ciò con cui entrano a contatto. Ne risultano matrimoni privi di sentimento, eredità da preservare e immagini sociali da consolidare, in un gioco di specchi dove nulla è più reale di ciò che si vuole sfoggiare. Questo è il ritratto delle famiglie e degli ospiti dei Van Laar per la consueta settimana di celebrazioni a Fiducia-in-se-stessi, a fine estate. Anche se mai messo in discussione apertamente, lo status quo in cui l’élite sopravvive viene percepito come sbagliato anche da coloro che ne sono nati all’interno: «Ho l’impressione che ci sia mancato il desiderio, l’impulso verso le cose. Verso la ricerca» afferma Delphine, anticonformista e vagamente cosciente del proprio privilegio. Viene quindi facile pensare ai Van Laar, e con loro tutto quel cerchio sociale di benestanti senza riguardo verso i settori sottostanti della scala sociale che agognano di salire, come a delle mere vittime del dio Pan: si sono perse tra i rami della loro stessa ricchezza, inimicandosi la foresta e perdendo l’orientamento verso ciò che è buono e giusto. La bussola dei Van Laar si smagnetizza, l’ago del bene non punta più in alcuna direzione chiara, smettendo di funzionare un giorno d’estate del 1961, quando scompare un bambino di otto anni, Bear Van Laar.
Bear è figlio di Peter Van Laar III, erede più giovane della banca di famiglia così come della Riserva, e della moglie Alice. Il matrimonio di Peter e Alice, sebbene iniziato per affetto reciproco, diviene presto un’unione solamente di facciata, senza profondità di sentimento. Così, quando nove mesi dopo il matrimonio viene al mondo Bear, Alice lega la propria esistenza all’essere madre e alla cura del figlio, mentre Peter lo guarda come un trofeo, un’eredità da salvaguardare. Quando il figlio scompare, la salute mentale di Alice, già compromessa dall’alcool, si usura al tal punto da necessitare cure professionali. È una mente compromessa quella che accoglie, tempo dopo, l’arrivo di un secondo figlio: Barbara viene al mondo in una famiglia ormai senza amore, senza cura, senza calore. Quattordici anni dopo la scomparsa di Bear – all’apparenza risolta dal punto di vista giudiziario, senza aver mai trovato il cadavere – la notte che segna la fine di Camp Emerson nel 1975 vede scomparire anche Barbara Van Laar, sorella di Bear.
Da qui parte una duplice ricerca e numerosi interrogativi, segnando il nucleo narrativo del romanzo: trovare Barbara significa cercare di capire anche cos’è successo veramente al fratello Bear, più di un decennio prima. Le due scomparse scavano nei segreti di tutti i personaggi coinvolti: la comunità rurale attorno alla Riserva, coordinatori e personale di Camp Emerson, la famiglia Van Laar stessa e la famiglia che gestisce i boschi, gli Hewitt. Il dio dei boschi non è solo un giallo da risolvere ma anche un grande romanzo corale, dove ogni voce trova il suo spazio in diversi salti temporali e ogni strada si ramifica in altri sentieri offrendo punti di vista differenti, ma complementari, per risolvere i puzzle che l’autrice dissemina nel corso delle pagine. Tutto ruota attorno alla scomparsa dei fratelli Van Laar, diventando il centro da cui si dipanano ramificazioni che la scrittura sicura e confortante di Liz Moore esalta, sottolinea, empatizza: essere giovani; trovare la propria strada, talvolta lontano da chi ci ha cresciuto; lavorare in un mondo fatto di uomini, come quello della polizia; rinunciare a ciò che è giusto per salvare ciò che abbiamo di più caro. «Essere umani è complesso e spesso doloroso», afferma Moore, mentre costruisce microcosmi di vite ed ecosistemi familiari dove la ricerca di contatto umano, l’essere compresi e avere il coraggio di mettere in discussione lo status quo è un’esperienza comune, qualsiasi sia lo scalino della società in cui vi troviate.