A volte l’attacco di un pezzo resta in mente. L’8 giugno del 2012, in un articolo intitolato Ipotesi per un omicidio. Il fantasma di Pasolini si presenta allo Strega, Piero Melati scrive sul Venerdì di Repubblica: «Pasolini ritorna al premio Strega. Anzi, il suo spettro. Come uno spirito che cavalchi un brujo, nei riti antichi del candomblè haitiano. PPP “cavalcherà” Emanuele Trevi (Roma, 1964), lo scrittore che con il suo Qualcosa di scritto (Ponte alle Grazie) concorre, il 13 giugno, per la cinquina dei finalisti».
L’idea di Melati – in questi giorni in cui Emanuele Trevi concorre di nuovo al Premio Strega con Due vite (Neri Pozza), un altro libro abitato da fantasmi, stavolta degli scrittori e amici Pia Pera e Rocco Carbone – mi torna in mente a distanza di tanto tempo e mi sembra che si addica bene anche ad Anne Sexton, di cui per La nave di Teseo esce ora per la prima volta in edizione integrale Il libro della follia, The Book of Folly, a cura di Rosaria Lo Russo: che avvolge la sua traduzione intorno al testo come un gelsomino rampicante a un muro – immagini di questo inizio estate che filtrano dalla finestra – , senza rinunciare a nulla pur di rendere le parole della poetessa o poeta confessional (mettiamo il corsivo) americana. Anne Sexton, vincitrice del Pulitzer Prize nel 1967, morta suicida, in un alone di abuso e incesto, di gloria e appunto folly, follia, nel 1974.
L’idea della bruciante, furiosa, dolorosa Sexton, che torna come loa – come Baron Samedi, «Signore dei Cimiteri, il loa il cui regno era la morte» in Giù nel Cyberspazio di William Gibson, altra frase rimasta in mente per anni – cavalcando nuovi corpi capaci di scrivere mi sembra reggere. E a una voce così avida di vita si addice anche che le avatar umane non siano una sola ma due, Rosaria Lo Russo, poetrice come ama definirsi, che di Sexton ha tradotto anche le Poesie d’amore, qualche anno fa, per Le Lettere (1996), e la doppiatrice e scrittrice Irene Di Caccamo, che a Sexton ha dedicato un bellissimo romanzo, Dio nella macchina da scrivere (La nave di Teseo 2018) in cui, letteralmente, diventa Anne, prende la sua voce.
A entrambe le avatar, la traduttrice e la doppiatrice, ho così chiesto, come sei diventata Anne Sexton? Hanno risposto.
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Rosaria Lo Russo: «Quando ho incontrato la poesia di Anne Sexton – che è la sua (dramatis) persona, la sua maschera, anzi le sue mille maschere, tutte vere – non sapevo ancora di essere Anne Sexton, e, come me, molte persone (non solo donne) che parlano la nostra lingua non sapevano ancora di essere “una come lei”. Sapevo che gli anni tardi Sessanta inizi Settanta erano il mio brodo di cultura, sapevo che i modelli femminili patriarcali non solo non potevano essere un rispecchiamento ma anzi dovevano essere infranti, sapevo che la poesia e la letteratura in genere erano un modo efficace per raggiungere un sé affrancato da questi modelli invivibili, impensabili, ma non sapevo ancora come passare dal dire al fare, dal pensare all’azione – all’azione linguistica, l’unica, da poeta, che sentissi appropriata. È successo, circa trent’anni fa, in una libreria di Oklahoma City, dove ero andata a cercare qualcosa sulla ricerca del Padre, dovendo collaborare alla cura di un numero della rivista di poesia comparata Semicerchio che sarebbe stato su questo tema. Cercavo autrici, cercavo un punto di vista femminile sulla questione cruciale. Pescai a caso i Selected Poems di Anne Sexton (che non avevo mai sentito neanche nominare), e, dall’indice, andai subito alla sezione Morte dei Padri, che fa parte de Il libro della follia, che oggi, dopo così tanto tempo, ho finito di tradurre e pubblicato. La lettura di una poesia in particolare, Come ballavamo, fu letteralmente un trauma, uno shock, il ritorno del rimosso. Passata la classica notte insonne, con tanto di sconvolgimento emotivo, il giorno dopo decisi che mi sarei dedicata alla traduzione di questa autrice, anteponendo questo lavoro agli altri che avevo in corso (che infatti hanno aspettato molto a lungo per essere portati a termine). Perché diventare Anne Sexton era il modo più diretto per andare dove con le mie sole forze, di allora ma poi chissà, ormai non distinguo più se nasce prima l’uovo o la gallina, non riuscivo ad andare. Tradurre poesia credo sia uno dei modi più profondi e inesauribili del dialogo fra esseri umani, fra esseri linguistici. E soprattutto aiuta a capire, nel fatto concreto del linguaggio, che la scrittura, e in particolare la poesia, supera concretamente la barriera fra l’io e gli altri. Chi scrive, quando scrive, è di fatto un noi. Nel passaggio e nell’osmosi fra una lingua e l’altra, fra uno stile di scrittura e l’altro, si diventa in sé l’altro da sé, che è una forma di conoscenza amorosa. Anne Sexton è stata una grande autrice di versi e anche un’icona effettivamente rivoluzionaria perché mai stereotipata, un’icona piena di contraddizioni – che sembrerebbe una contraddizione in termini ma evidentemente non lo è se, col passare degli anni, la sua poesia non trova ancora la pacificazione dei classici e continua a parlare al presente».
Irene di Caccamo: «Anne, la cura. Anne, le parole. La tenerezza. La ferita, il suo Dio, l’estrosa abbondanza. Poi la fine. Anne si riconsegna nuda al mondo. Stretta nella pelliccia di sua madre si abbraccia e muore. In un abbraccio originario, innocente, quella via ultima così necessaria. Tanti i suicidi falliti con manciate di pillole e latte, spaventarsi di morte per sentirsi. Il suicidio è parte anche della mia vita. Due giovani donne a due anni di distanza, passate dal cielo al buio. È per questo che la storia di Anne mi interessa? Perché scriverne? La scrittura cura? Lei muore in un autunno folgorante, in un pomeriggio che impazza di vento e sole. Non si sa perché si scrive, di certo non si può saperlo fino in fondo. (Duras). Rileggere Anne ad un certo punto però è comprensione nuova, quasi verticale, vertiginosa. L’ossessione delle parole e lo strazio della dimenticanza (si registra per non perdersi). E la fame dei corpi, i suoi pasti sessuali, quel modo ossessivo di amare, respingere gli addii. E il materno contraddittorio e pieno di inadeguatezze, e la scrittura, scavo spasmodico, claustrofobico, ossessivo, sulla parola. Rimandi continui. L’ammettere di non reggere la vita e darsi la morte a corpo nudo ostinatamente, quindi la possibilità di dargli parola. L’elemento ferito e incandescente, e quindi entrare nell’autentico e uscire dall’autentico. Ma scrivere non è mettere ordine al caos? Non giudicare, sentire che chi sceglie di andarsene lo fa quando la sofferenza è troppa. Senza schierarsi né per la vita, né per la morte, solo farne esperienza. P., un poeta che mi è caro, un giorno scrive. Sul foglio ci sei tu, oltre i quattro lati del foglio c’è solo Dio. Anne, la cura».
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Con movimento diegetico, dalle finestre incendiate dall’estate entra lo stridio delle rondini, che sembrano volare dentro e fuori, con i loro simili spiriti, dall’imboccatura del Regno dei Morti alle pagine del Libro della Follia, a cominciare dall’Uccello ambizione che lo apre – «Tutta la notte ali cupe/sbattono nel mio cuore/ognuna un uccello ambizione» – che per Sexton è «la mia scatola dell’immortalità/il mio piano rateale,/la mia bara». Uccelli che stridono e affogano «ricoperti di petrolio» o si trasformano in «attrezzi da idraulico», mentre come per una maledizione si scrive in una stanza «più bianca di ossa di pollo/sbiadite alla luce lunare», uccelli in fiamme rosso sangue che sono Figlia e Padre. Né tramonto né alba né autunno né primavera sono silenziosi in questa poesia, non la poesia causa la morte ma lo stridere e lo sbattere della vita contro le pareti della sua scatola.