Quando capisco che la musica di Lucio Dalla giocherà un ruolo fondamentale nella mia formazione sono su un balcone di fronte al mare della riviera adriatica. Sono poco più che adolescente, Dalla è morto da pochissimi mesi e mia nonna dorme a qualche metro da me, mentre io leggo di Crusoe che guarda le onde. Lì, su quel terrazzino esposto al vento, ascolto per una notte intera Anna e Marco e lo faccio con un’immersione tale, con una voracità e una passione, che prima ho sperimentato solo con i libri. Quel brano ha qualcosa in comune con la letteratura, forse è l’incedere visionario di un racconto breve o forse è la cura per la parola. Chiudo il romanzo di Defoe, lo lascio cadere ai miei piedi, guardo la luna inghiottita dal mare e in quel momento, per la prima volta, capisco quante cose possano esserci in una sola canzone. Di ritorno dalle vacanze, decido di esplorare meglio l’immaginario di Dalla: ne vengo inghiottito, mi porta altrove e poi mi risputa sulla terra con occhi nuovi. Così, senza soluzione di continuità.
Poi, all’improvviso, qualche anno dopo, Il Saggiatore esaudisce il sogno di molti ammiratori di Dalla, pubblicando E ricomincia il canto, un testo curato da Jacopo Tomatis, che è un’autobiografia ricomposta, una silloge di interviste del cantautore bolognese. Leggendolo si ha ancora una volta l’impressione di essere di fronte a un musicista letterato, a un “canzonettaro” (così si definisce lui) che è anche e soprattutto cantore del suo spazio-tempo. Dalla – è vero – è prima di tutto un musicista sopraffino: debutta come jazzista e sperimenta con le note, spaziando dal blues alla motown, dal pop al rock, da Sanremo alle tournée con De Gregori. All’inizio della sua carriera canta le parole di altri, di un altro perlopiù; Roberto Roversi, poeta raffinatissimo che ha siglato e caratterizzato la prima stagione della lunga carriera di Dalla. Portano la sua firma, tra le altre, Anidride Solforosa, Nuvolari, Ulisse coperto di sale e Il motore del 2000. È solo sul finire degli anni Settanta – ma questa è storia nota – che Dalla, desideroso di smarcarsi del tono aulico e distaccato di Roversi, inizia a scrivere, a scriversi, a raccontarsi senza raccontarsi mai, a narrare dei destini altrui, di dio e del sesso, di guerre e di lacrime, di piaceri e di dolori, di quello che c’è e, soprattutto, di quello che ci sarà. È per tutti questi motivi che E ricomincia il canto non può essere considerato soltanto una raccolta di interviste. Quello di Tomatis, anzi, è un lavoro preziosissimo, perché coniuga il valore testimoniale a quello biografico, la biografia all’autobiografia. Se volessimo usare (e lo useremo) un termine particolarmente in voga nelle stagioni più recenti dell’editoria italiana, diremmo che questo testo ha il carattere dell’autofiction. Dalla parla con i suoi interlocutori – tra questi: Bocca, Calabresi, Bonaccorti, Dandini e Gabriella Ferri – e mentre parla, mentre racconta di sé, si costruisce e si partorisce, inganna e si inganna, narra e si smentisce. Lucio Dalla è il narratore inaffidabile di un romanzo in cui il protagonista porta il suo stesso nome. L’immagine che ci viene restituita è quella di una figura imprendibile, di un uomo e di un artista in costante evoluzione, di una creatura metamorfica, sempre diversa, sempre ovunque e da nessuna parte.
Le interviste, in questo caso, sono normali interviste solo in apparenza, perché in realtà sono più esercizi di stile, prove di improvvisazione, esperimenti narrativi. Lo scopo di Dalla è quello di stupire il suo pubblico, di mettersi al suo servizio come intrattenitore, come un istrione che sogna di essere una voce tra le tante, di parlare per tutti, a tutti. Ciò che colpisce maggiormente del Dalla di Tomatis è la tempra contraddittoria, incoerente, complessa: se da un lato egli vuole raggiungere un pubblico il più vasto possibile, dall’altro rifugge le semplificazioni, le etichette, l’immobilità. Il lavoro di Lucio Dalla è sempre estroverso, rivolto cioè verso l’esterno, teso a costruire uno spazio di dialogo condiviso, ampio e infinito. Sembra, infatti, che il senso della sua arte possa compiersi soltanto nel rapporto con gli altri, con il suo pubblico. Questo desiderio di condivisione, però, non si è mai tradotto in una cieca obbedienza ai dettami del mercato discografico o in una riverenza muta nei confronti dei sostenitori. Dalla, al contrario, ha sempre continuato a sperimentare, a cercare linguaggi nuovi, a tentare di intercettare le tendenze future, anticipandole («Ho sempre cercato di rendermi diverso, di dire cose nuove, di non essere mai prevedibile»).
Lucio è poeta visionario e popstar incallita. Nelle canzoni e nelle interviste denuncia le guerre e gli sfruttamenti, i pericoli delle macchine e le disuguaglianze di classe, ma, nel farlo, rinuncia all’aura di intoccabilità tipica di un certo cantautorato spesso snob, lontano dal pubblico e arroccato in un intellettualismo certamente proficuo, ma difficilmente raggiungibile. A detta di Dalla, quello del cantautore è «un mestiere come un altro»: non si sente investito di un’eccezionalità distintiva, anzi la rifiuta e ripulisce il suo linguaggio, lo semplifica con lo scopo di nascondere dietro la sua voce le voci degli altri:
«Se non ci fosse la gente, non scriverei una riga. […] Io scrivo esattamente come penso e parlo nella vita, senza nessuna ricerca di poesia. Dico cose che sentono e vedono tutti. Magari arrivo solo un attimo prima che diventino inconscio collettivo».
Al contrario di alcuni colleghi, dunque, Lucio Dalla è davvero lo «zingaro libero» che abita sotto le stelle in Piazza Grande, l’angelo che piscerebbe sulla testa dei potenti, il Gesù Bambino che gioca a carte e beve vino con la gente del porto, il brigante, il gatto nero, «la checca che fa il tifo», il marinaio. Abita tra la gente e con la gente, se ne fa portavoce, cantore e canzonettaro e, facendolo, riscrive il concetto di pop, ridefinisce il profilo del cantautore, inventa e si reinventa.
Quella fiamma che si è accesa nell’estate adriatica di molti anni fa ancora non si è spenta e la passione, la voracità, la dedizione è ancora la stessa per la letteratura e per la musica di Dalla, che, poi, forse, queste due cose hanno più di qualche elemento in comune, perché, come riporta Tomatis, citando Lucio: «Il linguaggio musicale è come quello narrativo: a parte Kafka, a parte Babel, a parte Kerouac, in fondo uno quando vuol parlare parla con un linguaggio che è di tutti».
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