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Di erbari e bestiari poetici. Terra, gli emblemi vegetali di Luc Dietrich

La riscoperta dell’opera poetica dell’autore francese legato alla natura e alla sua forza simbolica

«Strada facendo, berrà aria fresca e aspirerà benefici profumi.
Lascia le armi a casa, e si accontenta di aprire gli occhi.
Gli occhi sono la rete in cui le immagini cadranno da sole.»
Jules Renard, Storie naturali


Luc Dietrich desiderava diventare uno scrittore, senza però avere accortezza dei classici della letteratura. In una delle sue lettere si chiedeva come potesse mai diventare un autore affermato senza aver mai letto, ad esempio, Omero. Dietrich era dunque consapevole dei suoi limiti letterari, ma nonostante questo perseguiva il suo scopo, la sua vocazione. Conscio di sacrificare la forma, dedicò tutte le proprie energie a trasporre in romanzo prima l’infanzia turbolenta e poi l’adolescenza scapestrata. La sua è una prosa, per utilizzare le parole del Grand Ami Lanza del Vasto, «eccessiva e maldestra».
Lanza del Vasto, conosciuto casualmente al Parc Monceau, donò compostezza alla sua scrittura e gli permise di elaborare in maniera eterogenea i pensieri che si rincorrevano nella sua mente tanto duttile quanto fragile. Il primo lavoro di questa collaborazione fu La felicità dei tristi, edito da Denoël et Steele nel 1935, quando Dietrich aveva appena ventidue anni. Prima aveva pubblicato solo una plaquette, Huttes à la lisière, incoraggiato dal medico e scrittore Luc Durtain che l’aveva dissuaso anche dal suicidio a seguito di una delusione amorosa. Nonostante l’interesse di altri, tra cui Blaise Cendrars, questi primi originali ma acerbi componimenti non ottennero l’effetto sperato.

Con La felicità dei tristi, invece, arrivò il successo: già in lizza per il Premio Goncourt, il romanzo attirò a sé i pareri positivi del pubblico e della critica. Qui Dietrich racconta la propria infanzia difficile che, a seguito della morte del padre, lo porta ad essere affidato prima ad alcuni istituti e poi a parenti, in attesa di una madre psichicamente fragile e dedita all’uso di oppiacei. Difficilmente inquadrabile in un genere letterario, la prosa di Dietrich assume un andamento più confacente alla poesia. Per atmosfere e tematiche quasi una sceneggiatura sui generis di un’ipotetica pellicola del realismo poetico, nasconde in sé un naturalismo piegato ad esigenze romantiche, incentrato su riflessioni semi-autobiografiche. I paragrafi assumono andamenti quasi diaristici diventando, a volte più esplicativi, altre ermetici. Questo modello ibrido verrà adottato dall’autore anche per il secondo e ultimo romanzo, L’apprendistato della città, edito nel 1942, dove racconta per la prima volta la complicata adolescenza parigina e i suoi rapporti con la malavita.

Luc Dietrich
Luc Dietrich, anni Trenta

Conoscitore e lettore delle avanguardie della prima metà del Novecento, Dietrich si rifà più direttamente alle prose poetiche di Baudelaire e Rimbaud ma, a suo stesso dire, non si riconosce in nessun genere o autore. Molti cercheranno, anche per via dell’interesse confessionale, di paragonarlo a Céline: un accostamento che lo lusingava, ma con cui non trova effettive affinità. La soluzione di questo percorso artistico trovò un eccezionale esempio in Terra, raccolta di prose poetiche di tema naturalistico commissionata proprio da Denoël et Steele. Per l’occasione Dietrich, da scrittore di un romanzo di successo e da fotografo provetto, decise di fissare nella pagina la campagna che l’aveva accompagnato lungo parte della sua infanzia e adolescenza. Una ventina di componimenti, accompagnati da altrettante fotografie, descrivono la natura in quanto specchio di un io lirico sensibile e turbato.

A differenza di Jacques Prévert in Alberi, plaquette con le incisioni di Georges Ribemont-Dessaignes, non si ha – per usare le parole di Bruno Cagli – l’idea di una «natura ilare e svagata, contro la quale l’uomo civilizzato non cessa di appuntare le sue armi distruttrici». Piuttosto in Dietrich la natura intesse un continuo dialogo con l’uomo tra speranza e rassegnazione. Le fotografie esplicano le prose optando per soluzioni più figurative con un brillante e affascinante uso dei contrasti, quasi come a rendere omaggio al Bestiario di Apollinaire con illustrazioni di Raoul Dufy. Non rinuncia però all’aspetto comico, parodistico, soprattutto nella descrizione degli animali, come già era accaduto in Storie naturali di Jules Renard. Dietrich è innanzitutto un poeta e cerca di esserlo tramite l’evocazione, mostrando al pubblico il suo mondo interiore, trasponendo a parole le immagini che catturava sia con la macchina fotografica che con quella da scrivere. Nella sua poesia tutto è divenire, come il procedere delle giornate, delle stagioni, oppure, più semplicemente, come la nascita di una pianta o di un pulcino. Un pulcino che, in accostamento al mondo vegetale, diventa «un seme avvolto di piume e che gironzola prima di germogliare».
Ancora una volta la visione sentita e incredibilmente reale della campagna che non è solo nemesi della città e occasionale via di fuga, ma anche motivo di lavoro, soddisfazione. È certamente presente una visione utilitaristica della terra, ma in funzione di una realizzazione che assume il significato di sacrificio e presa di coscienza. Dietrich riporta spesso le occasioni che l’hanno visto in prima fila nell’aratura dei campi, alla raccolta dei frutti, nella cura degli animali. Di conseguenza la sua diventa anche una voce estremamente tecnica che costringe il traduttore a studiare tanto la conformazione dei fiori quanto la composizione di un aratro. Tutto questo, ad esempio, è condensato nella prima parte de La mano dell’uomo:

«Le mani hanno forgiato il coltro, il vomere e il versoio, hanno intagliato le stegole di noce, regolato la bure al ceppo, riunito il tutto e creato l’aratro. L’aratro nella terra diventerà lustro come le rotaie, come il coltello del macellaio. La terra diventa tenera al seme dopo l’aratura. Il seme penetra e attecchisce, i cereali diventano lussureggianti dalle pianure alle valli, diventano rigogliosi riempiendosi di grani. E l’uomo pianta dopo l’aratura perché la terra non è buona se non quando è ferita.»

Per prendere in prestito le parole di Alberto Savinio sull’opera di Thoreau: «Ogni immagine, ogni metafora sono “esperienze” e anche certe apparenti divagazioni risultano non evasioni ma inerenti alla sensazione che sulla pagina via via è da lui smembrata e subito ricostruita». Thoreau, un autore influente già dopo pochi decenni dalla morte, tanto da essere conosciuto e acclamato tra gli altri da Gandhi, Tolstoj e Proust. Non abbiamo accortezza del fatto che Dietrich conoscesse o meno il Walden, ma sicuramente l’echeggiare della sua filosofia arriva fino a lui.

Luc Dietrich

Per far conoscere il Luc Dietrich poeta è stata editata recentemente la silloge Terra – Emblemi vegetali (Edizioni Grenelle) che per la prima volta in Italia ripropone le due omonime raccolte di prose poetiche. Senza la presenza delle fotografie, sul modello delle Éditions du Rocher, viene riproposto il solo testo enfatizzando così il dato letterale.
Dopo l’uscita di Terra, Dietrich organizzò una serie di mostre fotografiche che attirarono un bacino sempre più ampio di spettatori, tra cui Paul Éluard che dedicò all’opera dell’amico parole entusiaste. Tuttavia, dopo la partenza di Lanza del Vasto, recatosi in India per incontrare Gandhi, il poeta si trovò a lavorare su diversi testi e senza più le revisioni dell’amico compose in maniera più frammentaria. Riflessioni, sensazioni oppure stralci di trama che, come tasselli, andarono a comporre un mosaico di un progetto ben più ampio. Negli anni immediatamente successivi compose una serie di prose brevi, recentemente raccolte e selezionate nel volumetto Sapin Ou la Chambre Haute per le Éditions Eoliennes. In Sapin vi sono alcune idee abbozzate di quello che sarà poi L’apprendistato della città, ma con significative differenze: infatti, l’alter-ego di Dietrich, dopo alcune pessime esperienze, decide di abbandonare la città e nascondersi su un abete à la Cosimo Piovasco di Rondò. Contestualmente riprese la propria macchina fotografica e si dedicò alla prosecuzione ideale di Terra. È in questo contesto che nasce Emblemi vegetali.

In questa nuova silloge le fotografie enfatizzano maggiormente il ruolo delle ombre, abbandonando quasi del tutto l’aspetto animale e focalizzandosi su quello vegetale. Influenzati dallo spiritualismo di Gurdjeff, anche i componimenti di Dietrich echeggiano richiami mistici. Purtroppo le prose poetiche, ultimate nel 1943, andarono perse durante il conflitto mondiale e furono abbandonate per decenni con la morte dell’autore. Solo nel 1993 vennero proposte per la prima volta al pubblico francese, seguite a breve distanza dalla raccolta completa di tutte le poesie. Nonostante, rispetto alla prima raccolta, si riscontri un elemento di provvisorietà, Emblemi vegetali cerca di ancorarsi meno al dato esperienziale, aneddotico, per riscoprire l’ispirazione poetica e la ricerca dell’assoluto. Come in Mattino sul lago, il tono si fa più profetico, ammonitore:

«L’uomo, quando si distaccherà da questo mondo di menzogna, vedrà l’illusione capovolgersi nello specchio del risveglio, e ciò che costituiva la sua schiavitù cadrà a testa in giù nella chiarezza: un’erba viva indica la via della liberazione.»

Luc Dietrich
Luc Dietrich, anni Trenta

In altri versi, invece, c’è la capacità di tramutare le immagini in una commistione di impressioni tanto grande da far sfigurare e ricondurre l’uomo alla natura. In Dietrich si verifica tutto il fascino della metamorfosi, senza mai sfociare né nel manierismo né tantomeno nel barocco. Nella parte finale de La mano e la foglia leggiamo:

«Tutto è inciso sul palmo della mano: le sconfitte che ci sono cadute addosso come la pioggia e gli inevitabili successi che da fuori hanno soffiato su di noi. Il nostro destino misero e segreto è inciso persino nelle stelle. La nostra mano è una stella di carne, questa foglia è un palmo celeste che si apre seguendo le direzioni da cui lo spazio è irrigato.»

Come in Thoreau, sempre citando Savinio: «Gli uomini fanno parte della natura al punto di assorbirne i caratteri e i significati, pur senza confondersi mai in essa; per converso, animali e piante hanno alla fine caratteri umani pur restando animali, cose».

Dietrich è un autore che, con l’avanzare della sua breve vita, assunse sempre più consapevolezza e in lui si tratteggia il ritratto di un genio sì «eccessivo e maldestro», ma anche profondamente talentuoso e originale. Morto nel 1944 a seguito di un bombardamento, a poco più di trent’anni, sfugge ancora oggi ad ogni tipo di catalogazione, nonostante i critici cerchino di accostarlo a nomi più o meno altisonanti. Ma la letteratura serve per comprenderlo, non per arginarlo. Sicuramente un plauso va a Frédéric Richaud, biografo di Dietrich, che ha permesso una riscoperta scevra da pregiudizi sulla sua figura. Poter leggere e apprezzare raccolte come Emblemi vegetali consente di entrare nell’atelier di un artista ancora troppo poco conosciuto. Il suo non è stato solo un percorso folgorante, ma anche un esempio di letteratura. Una scrittura sempre in fiore, accudita con numerose cure, che dovrebbe essere presa ad esempio. In Dietrich potrebbe risiedere la poesia di domani.



In copertina: Luc Dietrich con Lanza del Vasto, anni Trenta

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