L’antica maledizione si è avverata e, ahinoi, viviamo tempi davvero interessanti. Nel pieno della catastrofe climatica, di fronte all’aumento delle dittature, alla fine di un anno costellato di guerre ed eccidi, all’alba della terrific rivoluzione digitale promessa dall’intelligenza artificiale, in balìa delle strategie geoeconomiche dei nuovi imperialismi, la più grande preoccupazione delle democrazie sembra essere il dibattito sul corpo delle donne. Più precisamente: sulla maternità. Una parola così usata e abusata da non avere rivali. Lontana dall’essere una cosiddetta buzzword, una parola di moda (come lo è da tempo “resilienza” e prima ancora “sinergia” o “smart”) dunque destinata a essere presto superata, maternità sembra un dogma destinato a dominare incontrastato il dibattito politico, civile, culturale. Non passa giorno senza un nuovo slogan sulla maternità. Il podio del trash al momento rimane saldamente occupato dalla senatrice di Fratelli d’Italia Lavinia Mennuni che in diretta TV a La7, tra il panettone e le lenticchie, ha buttato lì l’ideona del millennio: la maternità deve essere di nuovo “cool” come massima aspirazione per le ragazze di 18 anni. Ed è un peccato che sia passato in secondo piano l’intervento di Meloni al convegno La maternità (non) è un’impresa, promosso dalla Ministra Roccella, dove la presidente ha tuonato che «senza figli (…) verrà meno quella staffetta generazionale sulla quale si fonda la capacità di portare nel futuro la nostra identità di popolo». Mi fermo qui, per decenza e perché bastano questi due esempi a indicare come c’era un disperato bisogno di fermare tutto e chiedersi: di cosa parliamo quando parliamo di maternità? È questo il punto di partenza del libro di Ilaria Maria Dondi, Libere di scegliere se e come avere figli, appena pubblicato da Einaudi, in cui l’autrice unisce la sua esperienza personale della maternità, la sua professionalità da giornalista oltre gli stereotipi e il suo impegno femminista per la costruzione di un dibattito costruttivo intorno a temi realmente attuali. Il saggio firmato da Dondi è un compendio di maternità realistiche, ricostruite nelle loro precondizioni, nella loro fisiologia, nel contesto di aspettative e di pressioni, nelle conseguenze umane e normative. Ne risulta un debunking quasi doloroso, come se per troppo tempo la parola “maternità” fosse stata una spessa benda con cui è stato impedito di nominare e legittimare la trasformazione della genitorialità che vediamo compiersi ogni giorno intorno a noi, in mille modi, ognuno unico e autentico.
«Del resto, una su cinque non lo fa, ovvero non figlia, per usare il titolo del saggio di Eleonora Cirant: a conti fatti, cioè, le donne childless o childfree non sono anomalie. Considerare un quinto della popolazione femminile mondiale qualcosa di raro è, per usare un eufemismo, poco lungimirante, soprattutto perché si tratta di una minoranza in crescita. Nel nostro paese, uno di quelli con gli indici di natalità più bassi, l’Istat stima – secondo l’Ocse (Oedc) in difetto – che le donne nate nel 1976 senza figli, “a fine storia riproduttiva”, saranno il 22,5 per cento (il doppio delle donne senza figli nate nel 1950). Il rinoceronte di Giava è raro, non le donne senza figli.»
I dati sono precisi, le fonti sono dichiarate, i testi sono indicizzati, le citazioni sono quotate: il lavoro di documentazione è irreprensibile. Ma dentro c’è soprattutto tanta vita e tanta urgenza. Il femminismo ha affrontato con determinazione il prima e il dopo, il sesso e le figlie, da Carla Lonzi a Elena Gianini Belotti. Ma la maternità in sé è un tema insidioso con il quale interfacciarsi; non ultimo perché, in un mondo dominato dalla potenza tecnologica, è tutto ciò che ci rimane di presuntivamente “naturale”, una predestinazione a cui le donne non è permesso sottrarsi.
«Quanto al cosiddetto orologio biologico che dovrebbe avvertire le donne distratte, gli studi hanno mostrato che, se esiste un impulso che va sotto il nome di baby fever, questo riguarda le donne ma anche gli uomini.»
Ho intervistato Ilaria Dondi all’uscita del suo saggio Libere di scegliere se e come avere figli durante la prima presentazione del libro che ha tenuto a Brescia, la città dove vive e lavora. Quella che segue è un resoconto della nostra chiacchierata.
Il titolo del tuo saggio (Libere) è già di per sé un manifesto politico, che richiama alla mente “donna vita libertà”. Volevi scrivere un libro “politico”? A quale tipologia di lettori e lettrici pensavi?
Parto col dirti quello che non volevo fare: un manifesto. Un manifesto è un documento progettuale che si costruisce in una più pluralità di voci e, se è vero che io questa pluralità di voce ho cercato di restituirla e ho cercato di conciliarla, questa non è stata un’operazione diciamo collettiva, quindi non lo ritengo un manifesto. Rispetto alla tua domanda, non è che io volessi scrivere un saggio politico in termini di volontà iniziale, ma so che è un saggio politico, come è inevitabile sia un saggio che parla di diritti riproduttivi soprattutto in un momento storico in cui questi diritti sono universalmente messi in discussione, anche laddove apparivano già conquistati ma, come sappiamo, i diritti, e soprattutto quelli delle donne, non lo sono mai davvero.
Al centro di questo saggio non c’è la maternità, ma la libertà. Un concetto che, come la felicità, è difficile da definire, percepire, trasmettere. Quale libertà hai in mente per le donne che rappresenti e che rendi visibile in questo lavoro?
Il mio non è un saggio sulla maternità e neppure sulla non maternità, o meglio: ci sono entrambe, ed entrambe nelle loro molteplici forme, perché non esiste un solo modo di essere madre, né un solo modo di essere una donna senza figli. Non esiste, a dirla tutta, neppure la dicotomia madre e non, se non come inganno usato dal sistema patriarcale per controllare i corpi delle donne e, quindi, anche l’unico potere che sarebbe altrimenti stato appannaggio femminile: la riproduzione e, quindi, anche la sua assenza. Maternità e non maternità non sono due concetti monolitici ma, per utilizzare due termini contemporanei, sono uno spettro con infiniti gradienti o termini ombrello, sotto i quali ci sono infiniti modi di essere e di dirsi madri o senza figli per scelta o per convenzione sociale, secondo desiderio o per condizione subita, per casualità anche, perché no. È nel riconoscimento (sociale e giuridico) di questa pluralità di esperienze che già esistono, a me pare, il senso della nostra libertà riproduttiva. In questo senso, non ho in mente una libertà o una felicità per le donne, ne ho in mente molte, che possono coesistere e dirsi insieme, senza opporsi le une alle altre, e liberarsi a vicenda. Che non esista un unico inviolabile modello femminile mi sembra un bel sollievo, per tutte.
Nel saggio racconti il tuo percorso personale: una maternità vissuta in prima persona da femminista, in cui destrutturi diversi miti partendo spesso da dati di realtà. Uno tra tutti: una donna su cinque non ha figli. Il fatto che di maternità si parli così tanto, secondo te, rientra ancora nel controllo delle donne attraverso mitologie come quella dell’angelo del focolare o la nostra ossessione culturale e mediatica per la maternità porta con sé dinamiche complesse, come il biopotere, il neocolonialismo e il risveglio del suprematismo bianco?
È tutto questo e molto altro. Ma farei attenzione a mettere al centro il vero motivo per cui oggi è tornata così prepotente e vivida l’ossessione culturale e mediatica per la maternità. Che, a me pare, va rintracciato nel fatto che la riproduzione umana oggi è un tema che la politica intende togliere neppure troppo velatamente al desiderio e al diritto, e costringere nelle maglie eteronormative da cui però gran parte della società (e oserei dire della stessa classe politica dedita a quest’oppressione) è già evasa da tempo, anche se non viene riconosciuta. Insomma, quando Veronica Raimo su Lucy scrive, recentemente, che «il grande dilemma sulla maternità» la annoia, io la capisco. Eppure, finché maternità e non maternità saranno territori di oppressione, non dico per tutte ma per molte, mi auspico che nuove voci si liberino a rifiutare il dilemma della maternità, perché possa davvero essere un diritto di tutte e non solo un privilegio. Poi c’è l’altro aspetto centrale che sottolinei giustamente tu quando parli di biopotere, neocolonialismo e risveglio del suprematismo bianco. La denatalità che affligge soprattutto i Paesi occidentali è, a bene vedere, un allarme nazionalista e razzista. Nel mondo siamo troppi, non troppo pochi: chiaro che il sistema capitalista ha bisogno di un tasso di ricambio generazionale atto a mantenere il sistema di welfare pensionistico e, quindi, di una forza lavoro attiva maggiore di quella inattiva. Ma al di fuori dell’incubo razzista della miscegenazione, è un non problema che trova una soluzione efficiente nei flussi migratori. Il problema è che il suprematismo bianco è ossessionato dall’evidenza che il colonialismo culturale, economico, politico si stia sgretolando sotto i colpi dell’insostenibilità del sistema produttivo capitalista, classista, disumanizzate e discriminatorio. È il potere occidentale che distrugge se stesso e che, invece di cercare di decolonizzare il proprio pensiero e le proprie strutture sociali in nome di un modello più equo, cerca di resistere strenuamente. In questo contesto internazionale apparentemente così lontano dalle nostre scelte riproduttive, il controllo riproduttivo è un’arma.
Il lavoro che presenti è una catalogazione molto articolata della maternità, compilata attraverso tre ottiche integrate: quella normativa/legale, quella capitalista e quella storica. È normale che una dimensione complessa come la riproduzione sia soggetta a evoluzioni storiche, eppure non mi viene in mente un altro tema così ammantato di immutabilità. Non c’è nulla di “naturale” nelle maternità contemporanee ‒ come ben dimostri ‒ se non la maternità in sé: come te lo spieghi?
Ai fatti della maternità, dal presupposto dell’esistenza di un istinto materno al parto e alla cura, sono attribuiti di continuo i termini della naturalità: cosa può esserci del resto di più naturale della gravidanza e del parto se, dalla notte dei tempi, è così che i mammiferi hanno garantito con successo la continuità della specie? Nulla di più vero in effetti, a patto di accettare le conseguenze dell’onnipotenza della natura. Idealizzare la naturalità della maternità è possibile solo ignorando, per esempio, i grafici della mortalità materna e neonatale nel corso della Storia (in Italia, per esempio, dai trecentoquarantasette decessi per mille nati vivi del 1887 si è passati ai quattro per mille del 2011). O il fatto che i modelli di maternità intensivi, che prevedono la costante presenza materna con il ricatto del benessere del figlio, non trovano corrispondenza in un passato dove esistevano balie o fratelli di latte; dove la nascita di un figlio era un evento, anche quando non più ‘sociale’, comunque contestualizzato in grandi famiglie con una fitta rete mutualistica. Come si spiega questo inganno: di nuovo nella necessità del sistema patriarcale di mantenere il controllo sull’unico “superpotere femminile”, di modo che diventi potere patriarcale. Ogni volta che scienza, tecnologia o lotte sociali hanno dotato le donne di strumenti e consapevolezze funzionali a liberarsi o alleggerirsi dai compiti di cura (pensiamo alla pillola anticoncezionale, al latte in formula, al biberon, ecc.), l’ideologia natural-maternalistica è riuscita a scovare nuovi doveri materni. Lo spiega bene la scrittrice e filosofa Élisabeth Badinter quando dice che si è passati «dal latte al tempo»: oggi alle madri si chiede di donare tutte se stesse e annientarsi nel ruolo di datrici di vita, facendo finta che non sia così.
Con le tre ottiche di cui accennavo prima, analizzi dettagliatamente l’industria della fertilità. Come ti spieghi questa industrializzazione della riproduzione “naturale” e, al contempo, la sempre maggiore difficoltà per i processi di adozione?
Il discorso dell’industria della fertilità, che è nei fatti anche un’industria del figlio, è molto delicato ma anche necessario. Credo sia imprescindibile anche una critica, che ho ritrovato nello stesso libri postumo di Murgia, ad alcune ingenuità del femminismo liberale che ha romanticizzato l’industrializzazione della riproduzione biologica invece di concentrarsi, a mio avviso, sulla necessità di liberarci dall’ossessione di un ventre rigonfio per dirsi madri e, quindi, di rivendicare altre forme di genitorialità sociali, tra cui l’adozione che, per motivi burocratici ed economici, ma anche per l’hype dato alle pratiche di fertilità, sta subendo un’enorme crisi. Il problema principale sta nel presunto diritto al figlio usato come bandiera dall’industria della fertilità, ma che nei fatti è o rischia di essere, soprattutto al di fuori di una famiglia eteronormata, un privilegio del figlio.
Un privilegio per pochi e poche è, per esempio, l’industria della fertilità estera per chi si colloca al di fuori della famiglia eteropatriarcale e non può accedere ai percorsi riproduttivi tramite SSNN. Anche il tema della gestazione per altri, fermo restando il diritto dei figli di essere riconosciuti e tutelati e della follia anche solo dell’idea di poter proporre un reato universale, va affrontato con una lente anticlassista. Esistono soluzioni concrete, che passano per l’accesso libero, equo e gratuito ai percorsi di fecondazione assistita, di genitorialità sociale o di gestazione solidale per altri, che in Italia sono al centro del dibattito pubblico iniziato dall’Associazione Luca Coscioni nel 2015 e sfociato in una proposta di legge al Parlamento italiano (l’ultima versione è del 2019). Come scrivo nel libro: «Al di fuori di questa griglia, quando cioè il diritto al figlio è un privilegio, bisogna avere l’onestà di parlare di neocapitalismo riproduttivo e, va da sé, poiché il capitalismo è l’espressione socio-economica del patriarcato, non può darsi un femminismo capitalista, che si serva di logiche discriminatorie per realizzare i diritti e i desideri di poche persone, escludendo od opprimendone molte altre».
Medicina e maternità sono strettamente legate nel tuo saggio. Il XIX secolo è stato segnato dall’eugenetica, per la quale abbiamo condannato in tribunale i nazisti e che oggi pratichiamo normalmente chiamandola “diagnostica prenatale”. Nel 2023 è stato finanziato per la prima volta dall’UE un progetto di ricerca sull’ectogenesi, ossia una gestazione completamente artificiale, che unendosi alla riproduzione artificiale completerebbe il sogno di quella maternità cyborg profetizzata da Donna Haraway. Credi come lei che la tecnologia possa davvero essere l’agente che abilita la piena “libertà” per le donne?
Medicina e maternità sono legate nel mio saggio nella misura in cui rifiuto la retorica della maternità naturale che è, abbiamo visto, anacronistica ma soprattutto falsa e pericolosa (pensiamo per esempio a quando sfocia nella romanticizzazione del parto in casa). D’altra parte, è senz’altro importante vigilare su un’eccessiva ipermedializzazione della gravidanza. Uno perché, se è vero che una delle forme più ricorsive di violenza ostetrica comprende la negazione o il ritardo deliberato nella somministrazione dell’epidurale, è pure vero che si ricorre invece con una frequenza incomprensibile a episiotomia, spesso senza consenso. Soprattutto bisogna denunciare l’ipermedicalizzazione coercitiva come forma di violenza ostetrica diffusissima sulle gestanti con disabilità, cosa di cui per esempio non si parla quasi mai. Per quanto riguarda la maternità cyborg profetizzata da Donna Haraway, personalmente io sono affascinata dalla portata utopica e dalla teorizzazione di una genitorialità, più che da una maternità, strappata alla logica del ventre rigonfio e volta a liberare i corpi delle persone con utero, ma anche il desiderio generatore di qualunque persona: maschio, femmina, altro. Detto questo, non credo che la libertà ce la darà un utero artificiale, così come non credo che un nuovo umanesimo e un nuovo pensiero si possa delegare a un’intelligenza artificiale. Temo semmai che, se non presidiata, la riproduzione artificiale sarà ‒ e in parte è già ‒ un nuovo spazio di capitalizzazione dei desideri riproduttivi. Di nuovo: non il diritto al figlio, ma il privilegio del figlio.
Donna Haraway è un’autrice citata anche da Michela Murgia, di cui esce postumo insieme al tuo un libro in cui è ripreso l’invito a «fare parentele, non bambini»: non un rifiuto della maternità in sé, ma un invito a esplorare altre forme di cura e parentela, forme che non escludono la possibilità di essere madre, di generare, di dare la vita in modi diversi da quelli previsti dalla norma. Anche nel tuo lavoro colgo l’urgenza di vivere l’esperienza della vita oltre gli stereotipi, i limiti e le tappe obbligate. Ti riconosci in questa lettura?
Dipende da quale lettura intendiamo. Sono perfettamente d’accordo con Murgia sulla necessità di «fare parentele» e sperimentare nuove forme di cura, spingendo il discorso anche oltre, con uno sguardo all’eco e al cyborg femminismo (consiglio a questo proposito Angela Balzano, Per farla finita con la famiglia. Dall’aborto alle parentele postumane, Meltemi. 2021). Questo, attenzione, non significa né delegittimare la maternità biologica, né la famiglia, ma semmai legittimare e tutelare maternità, genitorialità e famiglie che già ci sono ‒ e che quindi non serve neppure immaginare ma semmai smettere di invisibilizzare ‒ e quelle che verranno. Personalmente, poi, rispetto a Murgia, sono più reticente rispetto all’utilizzo del linguaggio della maternità simbolica (per esempio la madre d’anima, il/la figlio/a d’anima) perché condivido in questo il pensiero di Rossana Rossanda quando dice: «Non mi piace la madre simbolica. È l’enfasi sulla funzione materna che l’ha inventata. È in genere una donna su cui si scatenano le proiezioni di altre – cosa che non incoraggio. Anche la madre simbolica infatti vuole autorità, propone trasmissione, una genealogia eccetera. […] Ma se ci liberassimo dalla parentalità? Dall’ossessione dell’origine? Saremmo meno esigenti verso chi ci ha messo al mondo, più autonome, meno in attesa, meno deluse, più attente a chi è venuto prima e, penso, a chi verrà dopo, figli inclusi?» (da Paola Leonardi, Ferdinanda Vigliani, Perché non abbiamo avuto figli, Franco Angeli, Milano 2009).
Inevitabilmente, un saggio è fatto di linguaggio specifico, catalogazioni, etichette. Leggendo il tuo testo, così ricco di acronimi e neologismi, non posso non pensare a Foucault e alla sua lezione sull’ordre du discours in cui illustra come ogni discorso costruito all’interno del potere produce rigide ripartizioni che, a loro volta, generano procedure d’esclusione. Per Foucault, i sistemi controllati hanno due livelli di presidio: dall’esterno vigono la parola interdetta, la follia e la volontà di verità; mentre il controllo interno si esercita attraverso le logiche della classificazione, dell’ordinamento e della distribuzione, che permettono di padroneggiare il caso e l’evento.
Concordo con la lezione di Foucault ma, come hai premesso tu, credo che sia inevitabile cercare una sintesi tra nominare e quindi definire, limitare e non nominare e quindi non riconoscere, omettere, invisibilizzare. Ho usato l’inventario come forma per dire, mostrare e riconoscere le maternità e le non maternità interdette, omesse, silenziate o considerate sbagliate, quando non mostruose. Dall’altra parte, consapevole del potenziale controllo insito nel nominare come atto che delimita, ho cercato di attenermi a un linguaggio capace di restituire la natura prismatica di queste esperienze. Del resto, maternità e non maternità sono territori di ambivalenza: restituire l’ambivalenza significa muoversi in un linguaggio ambivalente.
Oggi i dibattiti sulla maternità, specie per le femministe più giovani, sembrano poco produttivi o interessanti, sicuramente anche a causa della pressione sociale legata a diventare madri. C’è un’ossessione politica sulla maternità, giustificata con modelli sociali ed economici che sarebbe proprio il compito della politica rivedere. In altre parole: alle giovani donne non interessa diventare mamme, non è per niente cool, con buona pace delle parlamentari della destra. Possiamo considerarlo una vittoria del femminismo?
Non sono così sicura che alle giovani donne non interessi a prescindere diventare madre, o che la maternità per loro sia poco cool. Credo semmai che, in maniera similare a quello che è successo durante il femminismo della seconda ondata, le ragazze oggi abbiano ben chiaro il prezzo pagato dalle loro nonne e madri in termini di sacrificio e castrazione di desideri, aspirazioni e progetti in una società che si professa maternalista, ma che è interessata solo a garantire la nascita e il benessere dei bambini in utero salvo poi abbandonare le madri e i figli una volta che questi ultimi sono nati. I giovani, e in particolare le giovani, hanno semmai una domanda legittima, come ha detto in una diretta Instagram del 2019 Alexandria Ocasio-Cortez : «è ancora giusto voler avere dei figli?». Giusto, intendono, rispetto alla situazione ambientale, alla politica internazionale, ai conflitti, alle pandemie, alla precarietà economica ed emotiva. Non credo che per i giovani la maternità non sia cool, credo non abbiano strumenti per riuscire a immaginare un futuro per se stessi, figuriamoci per un figlio. E questa non la vedo come una vittoria femminista: lo sarà quando i diritti riproduttivi, che sono anche diritti a non riprodursi, saranno territorio di scelta, desiderio e, appunto, diritto.
Chiudo questa intervista con una domanda secca: come possiamo inserire i temi che poni nel tuo saggio in un dibattito pubblico e mediatico (non solo italiano) che, complice il digitale, poggia sempre più saldamente su stereotipi che non rappresentano la realtà dei singoli e dei gruppi sociali?
La risposta se vogliamo è banale, ma di non banale attuazione: è sempre e ancora educazione, fare cultura. Del resto, anche la politica più miope nel giro di pochi decenni sarà costretta a fare i conti con la realtà che oggi cerca di negare o mistificare. Proibire o negare diritti o alcune pratiche – pensiamo alle grandi rivoluzioni della storia, ma anche alla prostituzione o all’aborto – non ha mai impedito all’essere umano di organizzarsi e creare realtà alternative. Le istanze e le pratiche di autodeterminazione, così come le famiglie che la politica oggi continua a negare, esistono, abitano già la nostra realtà e continueranno ad abitarla anche nel momento in cui dovessero, per assurdo, diventare reati universali, organizzandosi in reti di mutualismo e clandestinità, con tutto ciò che questo comporta. Quindi, per rispondere alla tua domanda, se questo dibattito non lo si inserisce con il pensiero, la cultura, l’educazione e le leggi, verrà comunque a inserirsi da sé, in maniera meno pacifica, dal basso.