Dal 28 gennaio è in libreria Decameron Project di NN Editore. Ventinove racconti per ventinove scrittori da tutto il mondo a tema pandemia, selezionati dagli editor del New York Times Magazine.
Si è discusso molto sugli effetti che avrebbero avuto l’isolamento e la reclusione forzata sugli artisti e sul loro lavoro: blocco creativo o occasione fertile? I corti Homemade di Netflix sono stati una prima risposta, dal mondo della videoarte.
La risposta del mondo letterario nasce nel solco del precedente illustre di Boccaccio, dalla peste al coronavirus, dalla novella alla short-story.
Come il corto è un genere poco valorizzato e meno frequentato dal pubblico rispetto al lungometraggio, anche il racconto gode di minor popolarità rispetto al romanzo, ma è in grado di offrire esiti di grandissima qualità.
Dopo Homemade Daily di luglio 2020, Limina vi propone la nostra nuova rubrica social, Decameron Weekly: brevi come i racconti, dal 16 febbraio ogni martedì e giovedì sono uscite sul nostro profilo Instagram due recensioni per due recensori.
Buona lettura!
Fuori di Etgar Keret, traduzione di Alessandra Shomroni
Uscire dalla propria quotidianità, oltre a risultare un’operazione complessa, può trasformarsi in un paradosso, soprattutto se la quotidianità in questione è ciò che un tempo si definiva “anomalia”. Eppure dopo centoventi giorni di isolamento la realtà è quella di una vita domestica lontana da qualsiasi relazione sociale. Lo stesso esercito che obbligava a restare a casa costringe ora a uscire, a riprendere la vita di prima; un’esistenza dimenticata in cui persino una mano che ti sfiora può trasformarsi in un evento da cardiopalma. Nel brevissimo racconto di Keret è l’istinto di sopravvivenza a prevalere o, per meglio dire, lo spirito di adattabilità con cui siamo in grado di plasmare il nostro essere pur di esercitare il nostro diritto a esistere. Non tutto il male vien per nuocere se la forzata clausura ti ricorda di avere un cuore, ma il ritorno al mondo esterno può farcelo scordare di nuovo con estrema facilità. Un racconto tanto vicino al reale da risultare distopico.
Nicola Lucchi, sceneggiatore e autore di libri per adulti e bambini
Nel tempo della morte, la morte del tempo di Julian Fuks, traduzione di Fabio Cremonesi
Percorrendo la via della scrittura per attraversare le ferite del dramma che ci ha investito tutti, Julian Fuks – San Paolo, Brasile 1981 – racconta dell’annientamento della dimensione temporale che accosta all’esperienza della morte. L’esistenza (ex-sistere) non può essere statica, ma per sua natura è un divenire, un «tendere verso». Durante l’esplosione della pandemia tutti abbiamo provato in vita «il carattere estemporaneo della morte». La perdita di senso, che è smarrimento. Fuks risveglia la coscienza della dimensione collettiva di ciò che sta accadendo. Le fattezze dei governanti si sovrappongono a quelle dei regimi dittatoriali del passato. C’è bisogno di andare via, di tornare nella casa dei genitori, dove «abita il tempo». Fuks si accorge che la storia non è dei potenti e nemmeno degli uomini che sono stati i “sovversivi” di prima. Trova, nell’albero cresciuto dietro la casa della sua infanzia, una traccia di durata, l’immagine di uno slancio: «ormai più alta del tetto la chioma dell’albero». Così la perdita del tempo si trasforma nella fiducia in esso. Si tratta solo di aspettare: «prima o poi il tempo cancellerà» anche «i torvi uomini che ci governano»
Edoardo D’Amico, diplomato in animazione digitale e studente di filosofia
Il morningside di Téa Obreht, traduzione di Gaja Cenciarelli
Nel racconto di Téa Obreht c’è un enigma che somiglia al guardare gli accadimenti attraverso un vetro incrinato: le figure, i luoghi, il tempo si scompongono, si deformano pur rimanendo intatti. Con una lingua levigata e micrometrica la scrittrice belgradese naturalizzata statunitense, costruisce una narrazione che vive nella zona francatra il reale e il magico. Il Morningside con i suoi appartamenti, Bezi Duras e i suoi tre cani (o sono uomini?), Ena e un altrove che è sia luogo che lingua, vengono richiamati dalla voce narrante come si richiama quello che di velato c’è nel visibile di ogni giorno. Per quella stessa risoluzione che Cristina Campo chiamava la «professione di incredulità nell’onnipotenza del visibile» il racconto della Obreht assume i tratti di una fiaba, dove alla realtà si sovrappone una vibrazione, che fa tremolare i confini e allarga le maglie. Per permettere una trasmigrazione tra ciò che esiste e ciò che esisterebbe, se solo si credesse nell’abitabilità del sognato.
Isidora Tesic, autrice di narrativa e poesie
Ti ricordi quel gioco? di Dinaw Mengestu, traduzione di Gioia Guerzoni
Washington, marzo 2020. Nipote e zio si organizzano per andare a fare la spesa prima di chiudersi in casa per via del “virus alieno”, al galoppo verso il presente. Guida lo zio, gioviale tassista settantaduenne, che, mentre si mettono in moto verso il supermercato, chiede al nipote se ricorda il gioco che facevano quando era bambino. Il nipote ripensa a quel gioco con dolcezza. Quel gioco in cui l’unica regola era l’immaginazione; sognavano di esplorare luoghi inesplorati, lontani o vicini e, in quanto tali, per forza meravigliosamente avventurosi. Un’evasione totale dal reale che permetteva di desiderare spazi altri e svariate concezioni di casa. Un gioco che, si avverte nell’aria, non sarebbe stato facile ripetere per un po’. Il ricordo limpido del mondo visto dagli occhi di bambino; la mamma innervosita, preoccupata che inculcasse al figlio strane idee di distacco; l’entusiasmo dello zio, il colpetto energico nel far partire il tassametro del taxi; sentori di casa… ma casa dov’è?
Lucrezia Bivona, redattrice e lettrice editoriale
La squadra di Tommy Orange, traduzione di Stefano Bortolussi
Non accarezza, Tommy Orange. Ti mette davanti allo specchio delle paure e dell’angoscia del domani che non sai quando arriverà: oggi è tutto sospeso, e chissà per quanto tempo sarà oggi. Sono pennellate veloci, le sue, i respiri corti di chi si trova a cercare la propria forma all’interno di un mondo che pare imploso, liquefatto dalla pandemia. C’è uno scarto, nelle sue parole, che non illumina solo la differenza tra un sé e il resto, la Squadra, l’umanità tutta, ovvero chi resiste nonostante tutto: è quello che rimane quando, all’osso dei rapporti, si osserva il mondo e chi si è col terrore di imparare ciò che si è diventati. E allora che si fa? Si corre. Si scappa. Si evade. Si cancellano i pensieri, la malattia, le preoccupazioni quotidiane provando a fuggire. Serve a qualcosa? No, naturalmente, solo a perdere altro fiato, altra energia, a ritrovarsi al punto di partenza. E così continui a guardare il muro bianco davanti a te, alla ricerca di nuove crepe.
Martina Carnesciali, editor freelance
Riconoscimento di Victor LaValle, traduzione di Katia Bagnoli
La sensazione di aver già incontrato qualcuno sa di mistero e di illuminazione. Le coordinate del racconto sono poche ed essenziali: New York, un condominio, due donne, la novità del confinamento domestico. Se con la malattia chiunque ha dovuto fare i conti con una solitudine (auto)imposta dalle conseguenze ancora poco chiare, LaValle sceglie invece di concentrarsi su un momento in cui la distanza interpersonale si è assottigliata. In un microcosmo, quello del condominio, reso sempre meno affollato dalle fughe fuori città, la protagonista incrocia per caso Pilar, l’inquilina del numero 31. Lo scambio è breve: si congedano quasi subito, ma nell’istante dell’incontro avviene anche il riconoscimento di cui parla il titolo. In pochissimo spazio Victor LaValle ha dato consistenza a un incontro particolare rendendolo universale in virtù della sua semplicità; il bisogno di socialità è intrinseco nell’essere umano e passa sempre attraverso le stesse strategie, interiorizzate nei secoli.
Eleonora Reggiori, SMM di Limina
La passeggiata di Kamila Shamsie, traduzione di Guido Calza
Due amiche si ritrovano per la prima volta dopo il lockdown e vanno a fare un giro a piedi per la città. Karachi, appoggiata sulla costa del Pakistan, quel giorno brulica di persone che sfidano le convenzioni pur di vedere il mare brillare. Nel racconto c’è tutto lo stupore di un nuovo inizio, accompagnato alla meraviglia che si prova nel guardare le cose di sempre con occhi diversi, o nel notare dettagli che nella normalità passavano inosservati. La risonanza sfonda la barriera della carta e dell’inchiostro e la memoria ci riporta a quando anche noi siamo usciti di casa per la prima volta dopo mesi di confinamento, e abbiamo rivisto il cielo che ci sovrastava, non più ridotto a uno scampolo d’azzurro nell’angolo di una finestra. Come Azra e Zohra abbiamo pensato che «In quel preciso istante, il mondo pareva un posto più bello di quanto non fosse mai stato», e ci siamo ripromessi di non negare quel saluto per strada, di non limitarci più all’abitudine, di ricordare sempre che sapore ha la libertà.
Micol, bookblogger su @under___my__skin
Appunti clinici di Liz Moore, traduzione di Ada Arduini
Se c’è un racconto che spicca per la sua capacità di prendere la minaccia della malattia di petto senza edulcorare alcunché è Appunti clinici. Liz Moore è irruente, non cerca metafore o artifici retorici da impiegare come variazioni sul tema. Non sceglie un’angolatura sofisticata per parlare della pandemia, o di parlare delle sue ricadute sociali. L’autrice riporta soltanto il gelo del seguente scenario: il corpo la cui temperatura supera i quaranta gradi è quello di un bambino. Poche pagine per tratteggiare un classico ritratto familiare, composto da padre, madre, figli. A uno dei due, il neonato, sale la febbre. Con il rigore glaciale del linguaggio medico vengono riportati i primi sintomi. Le ipotesi sulla plausibilità del contagio, le ansie circa il decorso della malattia, il suono della segreteria di una dottoressa non reperibile. L’impatto di Appunti clinici è di restituire a chi legge, con la sua prosa essenziale e senza alcuna mediazione, un’angoscia ormai tristemente familiare.
Valentina Barisano, redattrice di Limina
Un ladro gentile di Mia Couto, traduzione di Fabio Cremonesi
Pirandello definiva il comico come “avvertimento del contrario” (cioè il rinvenimento nella realtà di qualcosa di stonato rispetto alla realtà stessa e contrario alle convenzioni di una specifica epoca) e l’umoristico come “sentimento del contrario” (quello a cui il lettore è condotto attraverso la riflessione su quel primo “avvertimento”). In Mia Couto tutto è “contrario”, persino il nome (è un uomo) e l’aspetto fisico (è biondo e ha gli occhi azzurri in un Paese, il Mozambico, in cui i bianchi costituiscono lo 0,2% della popolazione e per giunta, essendo di origine portoghese, sono verosimilmente bruni e con gli occhi scuri). E all’insegna del “contrario” è anche la sua lingua: spigolosa, meticcia (il suo riferimento letterario più illustre e immediato è Guimarães Rosa, forse il più grande autore brasiliano, nonché uno dei padri nobili della literatura regionalista), ricchissima di invenzioni (celebri i suoi proverbi inventati, gli improvérbios). Ma quello che coglie davvero in contropiede in questo racconto è che ogni singolo elemento della narrazione (fatti, oggetti, persino i personaggi) è ribaltato nel suo esatto contrario, configurandosi come un’autentica, pirandelliana epifania dell’umorismo, tanto più efficace e apprezzabile dato il tema del racconto di Couto e il contesto in cui è nato.
Fabio Cremonesi, traduttore
Esposizione agli schemi di Alejandro Zambra, traduzione di Maria Nicola
È più di un anno che siamo esposti a schermi di ogni sorta. Anche adesso che sto scrivendo queste righe sono davanti a uno schermo. Così come i protagonisti del racconto di Alejandro Zambra, uno dei maggiori narratori moderni sudamericani. Il tema del racconto è come distrarre un bambino piccolo dalla pandemia. Un bambino che ha visto pochissime volte i nonni e non capisce chi siano quelle persone in videochiamata e come mai i genitori stanno sempre o quasi davanti agli schermi. Al bambino mancano le passeggiate al giardino zoologico e, in generale, uscire di casa. In queste poche pagine, Zambra ci ricorda che, come spesso accade, ci dimentichiamo delle conseguenze degli eventi sui bambini. La pandemia avrà conseguenze inevitabili sul modo di socializzare e stabilire rapporti umani. Anche la vita di coppia è stata messa a dura prova da questa situazione. Che cosa ne sarà dei nostri rapporti?
Jaroslav Zanon, traduttore e bookblogger su @adrenalibri
Un cielo così azzurro di Mona Awad, traduzione di Gaja Cenciarelli
In pieno lockdown, una donna decide di regalarsi un trattamento estetico per il suo compleanno. Grazie al dark web aggira le restrizioni e riesce a trovare un centro estetico aperto. Durante il trattamento, l’estetista le chiede quanto sia legata ai suoi ricordi. Non lo è: i suoi ricordi sono pieni di tristezza. Uscita dal centro estetico, la donna si stupisce di vedere le strade vuote, di come le persone cercano di evitarla. Ha appuntamento con il suo ex marito, quando si incontrano lei prova a prenderlo per mano ma lui reagisce al braccio di lei che si avvicina come a un serpente velenoso. La percezione degli altri è alla base di questa storia, che invita a riflettere su come le relazioni interpersonali siano state stravolte nel giro di pochi mesi di pandemia. Mi piace pensare al racconto di Awad come a un esperimento: se d’un tratto avessimo la possibilità di dimenticare i mesi del lockdown, riconosceremmo il mondo che ci circonda? Sapremmo capire che è successo qualcosa di strano attorno a noi?
Cecilia Verde, insegnante e bookblogger su @eccoilibri
Linea 19, da Woodstock a Glisan di Karen Russell, traduzione di Chiara Baffa
Il Tempo durante la pandemia si è fermato. Il suo inesorabile scorrere è lentamente rallentato fino a cessare del tutto nei giorni, settimane, mesi che la popolazione mondiale ha passato in lockdown. Ed è esattamente quanto avviene in questo racconto di Karen Russell: per via di un incidente mancato tra un’ambulanza e il bus della linea 19, i passeggeri dei due mezzi misteriosamente finiscono in un vicolo cieco dello spazio-tempo. Sono praticamente dispersi nel nulla, introvabili e scollegati da ogni cosa. Lo sconforto è totale: a differenza delle varie disgrazie che tutti loro sono abituati ad affrontare quotidianamente, ciò che è avvenuto è prima di tutto incomprensibile. Si trovano faccia a faccia con l’affrontare qualcosa di totalmente sconosciuto; serpeggiano il panico e la paura. Ma poi sopraggiunge una risoluzione, e non è chiaro se vi sia esito positivo grazie allo sforzo di un solo passeggero o a quello collettivo. Ma in fondo non ha importanza, avviene, ed eccoli tutti di nuovo nel mondo, distrutto come lo avevano lasciato. E quanto è confortante leggere di un ritorno alle proprie occupazioni e indifferenze quotidiane?
Antonella D’Agnano, redattrice di Limina
Il sasso di Leïla Slimani, traduzione di Guido Calza
Il sasso, racconto in parte autobiografico, è la trasposizione letteraria di un disagio. Ovvero: cosa succede quando il nostro privato diventa pubblico e la vita pubblica diventa il nostro privato. Robert Broussard è uno scrittore – maschio e bianco – di romanzi rosa, disprezzato dalla critica, ma osannato da un folto pubblico femminile. Scrive storielle d’amore e si tiene oculatamente alla larga da tematiche di razza e genere, evitando argomenti alla moda. Eppure, qualcuno un giorno lo aggredisce, lanciandogli contro un sasso durante una sua conferenza. Chi potrebbe volerne a un personaggio tanto innocuo? Leila Slimani mette sapientemente in scena la ridda di interpretazioni che galvanizzano la stampa e che, in pochissimo tempo, fanno passare Broussard dallo status di eroe a quello di reietto. La violenza che si abbatterà su di lui, ignaro delle ragioni tanto del plauso quanto dell’odio, è la stessa dell’occhio collettivo che, complice la pandemia, si spalanca senza filtri sulla vita di tutti noi. Uno sguardo giudicante che infligge bibliche punizioni a chiunque incappi nel cono d’ombra di una comune e spietata cecità.
Anna D’Elia, traduttrice
Se i desideri fossero cavalli di David Mitchell, traduzione di Katia Bagnoli
L’impressione generalmente condivisa a inizio pandemia era quella di trovarsi in un romanzo fantascientifico. Le strade vuote, le file fuori dai supermercati, l’obbligo di guanti e mascherina erano tutti elementi che rimandano a scenari distopici, incompatibili non solo con la quotidianità a cui eravamo abituati, ma proprio con la dimensione di ciò che si credeva possibile. In Se i desideri fossero cavalli, David Mitchell fa un passo avanti e da una prospettiva nuova riesce a guardare al presente e sbirciare al futuro. Il risultato è un ribilanciamento della complessità dell’esistenza, la pandemia rientra nell’insieme delle cose concepibili, ma è una tra le tante, senza tuttavia perdere la sua tragicità. Con una naturalezza disarmante Mitchell ci ricorda che, per quanto ci possiamo illudere del contrario, la dimensione del reale è indipendente dalla volontà e dal controllo dei singoli. Perché se i desideri fossero cavalli, i poveri sarebbero cavalieri.
Eleonora Savona, reporter e redattrice di Limina
Il compagno di viaggio perfetto di Paolo Giordano
La pandemia – e il lockdown, in particolare – sono state il tempo delle costrizioni. Della stasi. Ma stanno davvero fuori di noi? Si – e ci – chiede questo Paolo Giordano, attraverso la voce narrante che in Il compagno di viaggio perfetto racconta di Michele – il figlio di sua moglie Mavi – che arriva a Roma da Milano a cancellare un’intimità. A occupare uno spazio, coi suoi Houseparty e le sue idiosincrasie. Michele irrompe dal centro del contagio a segnare un ritorno indietro, una crescita abortita, la mancata possibilità di evoluzione di chi stava imparando ad abitarsi libera dagli altri. Ma il vero lampo doloroso è rendersi conto che – forse – stiamo affidando alla tragedia quel che abbiamo paura di dire, che dentro la claustrofobia che le limitazioni ci fanno sentire ci sono i nostri rimossi, c’è quel che abbiamo paura di ammettere. Anche di esserci persi – o di star correndo il rischio – di non avere più la spinta a una forza generativa davanti al disastro. Anche quella del desiderio. Di vivere sospesi, arresi, in un’attesa senza fine. La paura di quello che potremmo dimenticare, o che abbiamo già dimenticato: lo stare insieme, prima di tutto. Ma è la pandemia ad averci svuotato, o le abbiamo attribuito solo la responsabilità di averglielo lasciato fare?
Chiara Palumbo, giornalista
La ragazza col valigione rosso di Rachel Kushner, traduzione di Giovanna Granato
In una residenza per scrittori il tempo del lockdown si passa proprio raccontandosi storie allegre. È il presupposto stesso del Decameron, e tra le voci noiose e bislacche che riempiono questo spazio privilegiato, distaccato dal marasma esterno eppure incerto su quello che sta proteggendo, l’io narrante distingue quella di un autore che non parla inglese e ha bisogno della moglie come interprete. Nel passaggio di lingua la storia scelta per il suo turno non è solo riportata, ma costruita dai due, spostandone centro e origine. È una storia di ricerca, di passaporti che non hanno valore da un giorno all’altro, di idee che non si possono incarnare e di sognatori che rifiutano la realtà, a proprio discapito – come forse stanno facendo anche loro, chiusi in quel castello a rincorrere le personali velleità. Mentre gli obitori fuori dalle mura si riempiono, loro giocano con gli specchi; ma in fondo questi sono gli scrittori: quello che sanno fare di ogni vita è ricavarne un finale a sorpresa.
Anna Maniscalco, redattrice di Limina
Ragazze prudenti di Rivers Solomon, traduzione di Chiara Baffa
Nei giorni in cui, un anno fa, il virus ci spingeva con forza dentro casa e urlava, urlava fortissimo dai televisori di tutto il mondo, Jerusha, la protagonista di questo racconto, si scopre più forte di tutto. Più forte della pandemia, delle restrizioni, della famiglia ingombrante, più forte dei dogmi, dello stesso Dio. Ambientato in Texas, Ragazze Prudenti di Rivers Solomon racconta la storia della protagonista, pronta a tutto – ai ricatti, ai fucili, alle menzogne – per condurre sua madre fuori dal carcere. Nel narrare l’urgenza di un riscatto personale e collettivo, Solomon fotografa la realtà del confinamento da CoVid-19 tra ansie, zie negazioniste e, soprattutto, ferite sociali slabbrate fino al limite massimo. La sua prosa sottolinea con ferocia come l’emergenza pandemica sia, in realtà, antidemocratica, perché capace di acuire ogni disparità sociale (su tutte quelle di classe, genere ed etnia), specialmente in una realtà già lacerata come quella texana.
Federico Colombo, redattore di Limina e bookinfluencer su @microcosmodiparole
Cimeli di Andrew O’Hagan, traduzione di Gaja Cenciarelli
Cosa rimane di chi abbiamo amato male e che ci ha amato ancora peggio? Anticaglie da toccare con mani incredibilmente livorose, da accarezzare con rabbia, forse e poi, da distruggere. In Cimeli c’è l’immediatezza della perdita nella sua manifestazione più scabrosa. C’è la vita nella sua schifezza, con quella donna che era una cuoca sublime e ora va in giro perduta, senza memoria, a dire agli sconosciuti che il suo nome è una canzone. E poi c’è Lofty che è troppo giovane per essere già un rassegnato eppure si rassegna: lavora al mercato del pesce e non richiama mai la madre. Il virus, in questo racconto di Andrew O’Hagan, è solo un argomento nuovo di zecca che aggiorna gli stereotipi e rende complicato sgomberare una casa ormai vuota. Mentre le persone muoiono e non ci sono funerali, O’Hagan ci mostra come degli altri ci restino spesso solo oggetti interrotti, cartoline piene di annotazioni sul clima e tanti «con amore» forse sprecati. Rimpianti che si devono incenerire per permetterci di ricominciare a parlare con chi se ne è andato. E magari, questa volta, farlo con una nuova onestà.
Miryam Scandola, giornalista
Quella volta al matrimonio di mio fratello di Laila Lalami, traduzione di Giuseppina Cavallo
Osservare gli animali in volo richiede pazienza, richiede cautela, richiede disciplina. Richiede una perfetta comunione di intenti con la natura e una forma tutta particolare di annullamento del sé – difficile a farsi, in una società caotica. Difficile a farsi, quando l’io narrante è al tempo stesso osservatore e osservato. Anzi, osservata. In pochissime pagine, la narratrice di Lalami, lei stessa creatura alata migrante, racconta la condizione sospesa dell’identità migrante, l’equilibrio precario tra radici dismesse e ali estranee al corpo. È solo il matrimonio del fratello, dice l’anonima narratrice nell’aeroporto di Casablanca, anche se avrei voluto essere in Texas con il mio gruppo di bird-watching. Ma è difficile librarsi in volo quando il peso delle aspettative della propria ascendenza impedisce di muoversi libera, e d’altro canto, ammette, è difficile vivere ovunque. Ma non è tempo di abbandonarsi alle riflessioni, l’aereo sta per decollare. Chi sta osservando chi, allora?
Giorgia Maurovich, studentessa di lingue e divulgatrice culturale
Racconto delle origini di Matthew Baker, traduzione di Sara Sullam
Spesso da una privazione nasce qualcosa di buono, un espediente che mira a riempire i vuoti e finisce per annullarli. Quella che racconta Matthew Baker è proprio una storia di compensazione, di risposta a un bisogno: dare alla famiglia più gelato. Beverly, vedova novantenne, in piena pandemia riesce nell’intento inventando il «gelato gelato»: una montagna di ghiaccio aggiunta alla solita porzione per fare volume. Tutti i familiari accettano la novità tranne Ellie, giovane universitaria, che non vuole scendere a compromessi e cede solo a fine lockdown prima di tornare a vivere, per imposizione di Beverly ma non più del mondo. Dopo la sua morte il «gelato gelato» diventa un rito in casa, poi la scelta migliore e infine arriva nel bar di quartiere, sulle bancarelle della città e viene eletto patrimonio culturale. Così Baker decide di mostrare come le cose possono avere origine nei momenti più bui, e che ciò che resta dopo il momento di bisogno è un bicchiere mezzo pieno, di ghiaccio ovviamente.
Martina Madia, SMM di Limina
Sistemi di Charles Yu, traduzione di Sara Sullam
È con una scrittura nervosa, semplice, fortemente mimetica che Yu decide di comporre questo piccolo quadro. Un quadro, sì, in cui ogni pennellata, più o meno densa, racconta un piccolo lampo di quotidianità nell’anormalità più assoluta: c’entra il virus, c’entra l’angoscia, c’entra il tentativo di assestarsi in un mondo di cui si fa fatica a riconoscere le coordinate. Ci si rinchiude in scatole, così le definisce lui, e si fanno ricerche continue, ci si interroga con un ritmo frenetico, quasi ossessivo, nel tentativo di procedere, seppur a tentoni. Yu restituisce un racconto semplice, a primo impatto quasi banale, in cui ritrovarsi è tanto immediato quanto naturale; la pandemia ha allontanato, messo in dubbio, decostruito, ma ha affermato con forza l’universalità delle emozioni, negative o positive che siano, e forse è tutto ciò che rimane. Un punto di partenza.
Michela Procaccianti, bookinfluencer su @michelaprocaccianti
Barcellona, città aperta di John Wray, traduzione di Silvia Rota Sperti
Se divertire, da de vertere, vuol dire volgere altrove, deviare; se la gioia cieca e ingenua del divertimento non può venire che da un cambio di prospettiva, allora Xavi si diverte. Xavi è il protagonista di John Wray in Barcellona, città aperta. La vita quotidiana di Barcellona è stata stravolta dal lockdown, le normali dinamiche sociali perdono valore in questi giorni sospesi e pesanti. Ma Xavi in quelle dinamiche non è mai riuscito a inserirsi. Ora, quando l’asticella della normalità è saltata e tutti esternano una sofferenza, il suo disagio si perde in quello di tutti. Ora, nella città aperta, possiede la chiave della libertà: due cani da portare a passeggio, che affitta dietro pagamento. Così conosce Mariona, una donna affascinante e sopra le righe. È una magnifica storia d’amore, potrà sopravvivere alla fine del lockdown? Il racconto è una riflessione scanzonata sul confine fra normalità e stranezza, sulla possibilità di pensare il futuro quando si annullano le aspettative.
Lucia Di Giovanni, insegnante
L’impazienza di Griselda di Margaret Atwood, traduzione di Guido Calza
Da vera fuoriclasse, Atwood sceglie di dilatare fino allo stremo il senso di straniamento che nasce da una novella fra le più inquietanti del Decameron. La strappa alla cornice bucolica dell’idillio originario – i giovanotti fiorenti di salute mentre Firenze è piagata dalla peste, che abbelliscono l’esilio in una villa di campagna raccontandosi storie scollacciate o beffarde o struggenti, secondo l’estro – e l’affida al robotico racconto di un alieno proveniente da un lontano pianeta, inviato a intrattenere un gruppetto di terrestri in quarantena nel quadro di una spedizione di soccorso interstellare. Per lui, dire «ricettacolo per bere liquidi» equivale perfettamente a dire «bicchiere»; ai suoi occhi non hanno nessun senso le sottigliezze di senso in cui ci dibattiamo noi umani. E sceglie di affrontare una novella straordinaria e perturbante, la storia di Griselda che è il racconto della più assoluta, cieca, caparbia devozione; e, grazie all’espediente della vendetta che nella versione robotica sdoppia la protagonista in una coppia di sorelle – una paziente, una impaziente – e redime la crudeltà della sua sorte, ci rivela quanto sia sadico, poetico, onirico il testo originale.
Ilaria Gaspari, filosofa e scrittrice
Una cosa tutta nostra di Edwidge Danticat, traduzione di Velia Februari
Nell’ultimo antro della grotta da cui la protagonista prende il nome, si può sentire l’eco del battito del proprio cuore. Sembra di entrare per un attimo nella testa di Marie Jeanne: di fronte a qualcosa di inaffrontabile, tutto diventa irreale, le reazioni inesistenti, ogni fatto svuotato di senso. Ogni tentativo di comprensione si perde nell’etere e torna indietro colpendoci più forte ma senza farci alcun male, poiché nulla può ferire quando il dolore è inconcepibile. E allora le azioni diventano meccaniche, al pensiero si sostituiscono gesti familiari, intimi o il ricordo di un passato non più esistente, ma confortante. L’atto, tra impeti d’azione e imposta rassegnazione, copre il pensiero fino al momento della necessaria realizzazione e della conseguente lacerazione che ci butta fuori dall’abisso irreale in cui ci si è rintanati, obbligandoci a fare i conti con un’esistenza di cui non si riesce a cogliere il senso.
Alessandra Corsi, traduttrice e professionista nel campo della comunicazione
La cantina di Dina Nayeri, traduzione di Velia Februari
Nella Parigi alle soglie del lockdown di aprile dello scorso anno, così come nella Teheran assediata dai bombardamenti negli anni Ottanta, desiderio e paura sono due concetti che si attraggono sino a sovrapporsi e infine combaciare. Su questa deflagrazione si erge la narrazione del racconto firmato dalla scrittrice americana di origini iraniane Dina Nayeri, che nell’intreccio relazionale di una famiglia di Teheran bloccata nella Parigi pandemica sembra mettere in scena la propria personalissima recherche nella quale la madeleine esplode in frantumi nel ricordo dello scoppio delle bombe, percepite da un rifugio antiaereo che si fa utero rigenerativo per Sheila, riparo dall’orrore e allo stesso tempo palestra di vita per «goffi tentativi di adolescenti autodidatti», nella conoscenza dei corpi e nell’arte del sogno. La memoria corre ai giorni della scoperta del sesso col futuro marito Kamram, la colpa e la vergogna per la verginità perduta, la ricucitura della pelle e dell’anima, la nascita del piccolo Nushin che a soli quattro anni si trova ora a vivere le nuove paure del Covid, nuove chiusure, mentre per le strade i novelli pasdaran di Parigi chiedono i documenti e forse la scoperta di una nuova cantina sarà la speranza per il nuovo mondo.
Stefano Malosso, direttore di Limina
Alla muraglia di Esi Edugyan, traduzione di Alda Arduini
Nel bel mezzo della maestosa e incontaminata solitudine della Muraglia Cinese, resa ancora più ovattata dalla neve che cade sempre più fitta, prende forma la consapevolezza di un allontanamento. La protagonista e l’attuale ex marito Tomas sono stati in Cina quattro anni prima della pandemia: giorni segnati da continue e sfiancanti liti hanno preceduto la visita alla Muraglia che, al contrario, porta con sé un estraniante e insolito silenzio. L’ambiente si fa specchio dell’interiorità di Tomas che, solo successivamente, quasi con effetto ritardato, si manifesta agli occhi della moglie/narratrice. Il contatto con l’altro, con l’estraneo, con l’ignoto risveglia dal torpore i desideri sacrificati e accantonati che hanno ceduto il passo alla monotonia, e repentinamente portano Tomas a fare le sue scelte, proprio come accade alle monache protagoniste di quella leggenda medievale che lo ossessiona. Con uno stile lucido e distaccato Edugyan ripercorre senza incertezze o cedimenti i sordi passi della separazione.
Benedetta Pallavidino, editor, critica cinematografica e redattrice di Limina
Sonno di Uzodinma Iweala, traduzione di Ada Arduini
È difficile uscire da una camera sigillata a pressione ermetica. Ha il passaporto soltanto lui, che si dilegua dal letto prima del sole avvolto da un camice verde e il cui lavoro è indispensabile. La solitudine del mattino viene ingannata dalle tracce conquistate dal sonno: una sagoma tiepida sul lenzuolo, qualche capello in più rubato alla calvizie incipiente. Se mi metto dove dormi tu, posso diventare te?, si chiede lei. Lei che è soltanto bianca, il cui lavoro non è indispensabile e che ogni mattina si trova a fare i conti con la pressione ermetica di una solitudine non apparente.
Uzodinma Iweala inscena gli strascichi privati di convenzioni storiche e culturali: la differenza tra una pelle diafana e una di terra, la persistenza del matrimonio come medicina al sentirsi soli. Il tempo si è fermato, oggi è solo domani e ogni decisione di distacco del prima può essere ricapitolata in un gesto indelebile di amore provvisorio, né libero né dimentico di tutte le colpe tra il bianco e il nero.
Camilla Longo Giordani, vicedirettrice di Limina
Sotto la magnolia di Yiyun Li, traduzione di Laura Noulian
«Le magnolie hanno fiori molto sicuri di sé. I petali, anche quando sono caduti, sembrano vivi.»
Tra le magnolie l’avvocata Chrissy aspetta una coppia per la firma di un atto di testamento, all’aperto, per ridurre il rischio di contagio. La coppia è in ritardo, coerente con il lungo temporeggiamento prima di decidersi a procedere con il testamento. Quest’attesa, questo scampolo di tempo fugace, un piccolo furto a un quotidiano fitto di impegni, si tramuta quasi in uno spazio meditativo, è l’occasione per riflettere sul rapporto che abbiamo con la morte e con il tempo, su come la pandemia li ha cambiati. I convenevoli che seguono l’arrivo della coppia si rivelano meno innocui dei comuni scambi di circostanza, aprono a ulteriori riflessioni sulla perdita dei cari, sull’impossibilità di impedire a chi amiamo di gettare via la propria vita.
Yiyun illumina con scrittura precisa uno spazio interstiziale dell’esistenza, perché, come chiude «anche la banalità, come la procrastinazione, ha il suo perché».
Magda Crepas, redattrice di Limina
Storie del fiume L.A. di Colm Tóibín, traduzione di Fabio Cremonesi
Uno scrittore affronta la quarantena assieme al suo compagno, e la differenza d’età, di gusti e di cultura (H., il compagno, è francese) diventa improvvisamente ingombrante. Lo scrittore — pigra queen inacidita — passa le sue giornate a fare paragoni tra il loro lockdown e quello patinato e perfetto delle altre coppie gay sui social, e si domanda incessantemente come mai lui e H. non abbiano la stessa armonia di Christopher Isherwood e Don Bachardy. Eppure H. è un ragazzo sofisticato, vitale, che riesce a vivere nel presente, e forse è proprio questo che, più di tutto, infastidisce l’altro, così ancorato ai meandri della propria insicurezza. Storie del fiume L.A. è la cronaca senza fronzoli, sincera ai limiti dell’antipatia, di una relazione che, per sopravvivere, deve accettare di essere imperfetta. «Los Angeles diventerà incantevole quando finiranno di costruirla» e anche se non sarà mai davvero conclusa, è questo fragile atto di fede che ci permette di andare avanti.
Leonardo Malaguti, scrittore e studente di sceneggiatura al CSC
Credits immagini
Sophy Hollington per The New York Times
Ritratto di Paolo Giordano di Ilaria Magliocchetti Lombi