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Dare nuove forme al dolore

L’esordio di Michele Ruol per Terra Rossa è il racconto di un lutto attraverso 99 oggetti

«Un oggetto, dopo tutto, è ciò che rende privato l’infinito» scrisse una volta il poeta russo Iosif Brodskij. Un oggetto è capace di racchiudere in sé infiniti significati e memorie, è in grado di raccontare una storia privata, ma dal significato universale. Tanti oggetti assieme costituiscono infatti capitoli di un grande libro quale quello della vita, in quanto le tracce da loro lasciate sono testimonianze del tempo che passa con tutti i cambiamenti che ne conseguono.

Un piccolo, grande libro del dolore l’ha scritto Michele Ruol, al suo esordio narrativo per i tipi di TerraRossa Edizioni con Inventario di quel che resta dopo che la foresta bruciaIn 99 oggetti che si fanno capitoli, Ruol racconta il dolore privato – ma allo stesso tempo universale – di una famiglia, composta da Padre, Madre, e due figli, Maggiore e Minore. Dopo un incidente mortale che coinvolge gli ultimi due, Padre e Madre si ritrovano dentro una casa che diventa per loro un museo della perdita, dove ogni oggetto è intriso di lutto e dolore e allo stesso tempo di ricordi del passato. Starà ai due mettere ordine alla propria personale Wunderkammer del dolore per poter andare avanti nel flusso di una vita che non si è mai fermata.

Oltre a essere autore di racconti brevi per varie riviste, Michele Ruol scrive anche per il teatro. L’influenza della scrittura drammaturgica è evidente in tutto il romanzo. Innanzitutto i personaggi, nominati secondo le categorie Padre, Madre, Maggiore e Minore, delle categorie universali che ricordano quelle dei morality plays tardomedievali come Everyman che rappresentano sì dei tipi, ma che Ruol riesce a far uscire dalla mera categoria per dar loro una certa profondità psicologica. Il romanzo, inoltre, è suddiviso in due parti, denominate Casa e Automobile, a loro volta suddivise in sottosezioni introdotte da degli a parte, didascalie tipiche del teatro che solitamente descrivono gli ambienti in cui si svolgono le scene e le situazioni rappresentate. Come già anticipato, in totale vi sono 99 capitoli brevi introdotti da oggetti che fanno parte della vita dei protagonisti, come borracce, cornici, orologi e piante. Di quest’ultime, quella che assume significato importante è la pianta del corbezzolo, una pianta che sa resistere agli incendi rilasciando spore che, una volta assorbite dal terreno, portano la pianta a ricrescere più forte di prima. Il corbezzolo assurge, dunque, a erede della ginestra di leopardiana memoria, diventando la pianta simbolo della resistenza dal lutto di Padre e Madre e, universalmente, di tutti coloro che come i protagonisti devono confrontarsi con la perdita.

La resistenza di Padre e Madre parte dagli oggetti che fanno parte della loro vita e di quella dei loro figli. Sono oggetti che ogni volta li mettono davanti ai propri ricordi, che chiedono loro di confrontarsi con quello che resta dei loro figli e del vuoto da loro lasciato, in quanto è impossibile sfuggire al dolore: se per esempio da un lato Madre «capiva che ignorare gli articoli non era né sarebbe stato sufficiente a proteggerla» in quanto «non si scappa dal proprio passato e dal proprio dolore», nel momento in cui osserva gli alberi sulla via di ritorno verso casa Padre invece «spera di vedere il dolore ma di non sentirlo. Come quando si toccava la cicatrice che aveva sull’avambraccio; come quando gli avevano rimosso il neo sfrangiato». In entrambi i casi, i protagonisti devono cercare una sintesi fra il ricordo del dolore, che comunque è diventato parte della loro identità e di cui dunque non possono fare a meno, e il tentativo di far sì che il dolore non li possegga del tutto rendendoli fermi e immobili nei confronti di una vita che nonostante tutto non si è mai fermata e che rischia così di distruggerli del tutto come famiglia.

Oggetto fondamentale in questo senso è la clessidra che Madre riceve da un’amica – ma molto probabilmente suo amore adolescenziale – di Minore, «metafora del tempo che scorre inesorabile e che non si può fermare: sopra quello che ancora abbiamo, sotto quello che ormai è passato». Come naufraghi su un’isola straniera, Madre e Padre si ritrovano senza via di fuga in un tempo sospeso, il tempo della perdita che genera un vuoto all’apparenza impossibile da colmare. Tuttavia, durante una delle varie sedute di psicoterapia, Madre arriva alla consapevolezza che non può cancellare il dolore, ma può trasformarlo, in modo da non diventare il proprio dolore e potere ancora una volta immaginare un futuro. Restando nella metafora del naufragio usata poco fa, Madre e Padre devono provare a ricostruire il proprio presente per poter andare avanti nel futuro. In questo senso è significativo quanto emerge nel capitolo Scatola di cartone (IN.):

«Al suo interno lettere, qualche fiore secco e altri oggetti che grondano pietà. Qualcuno è arrivato spontaneamente. Altri su richiesta di Padre. Sarebbe stata una buona idea, gli avevano suggerito gli avvocati, cercare di ricostruire rapporti e amicizie – la rete sociale – dei ragazzi. Ricreare una sorta di memoria collettiva poteva fornire elementi utili quando si sarebbero costituiti parte civile, aveva spiegato. Bisognava anche misurare in qualche modo le potenzialità che il loro futuro conteneva, quantificarle e convertirle in indennizzo».

Padre e Madre riescono a fare a poco a poco ciò che gli è risultato difficile ai fini del processo per l’incidente accaduto ai loro figli: catalogare gli oggetti della propria vita per rimettere assieme i capitoli di un’altra storia collettiva, la loro, quella della loro famiglia fatta delle planimetrie dello studio di architettura, dei libri di botanica usati per l’università, dei figli e dei debiti alla fine dell’anno scolastico, dei viaggi promessi negli Stati Uniti, del rumore di noci spezzate che «era diventato un alfabeto morse che sostituiva le parole non dette». Una storia, dunque, fatta di gioie, silenzi e momenti di crisi che hanno contribuito a imprimere la loro esistenza nel mondo. Questi ricordi sono come le spore dei corbezzoli, che alimentano le loro radici bruciate dall’incendio per farli crescere più forti trasformando il vuoto del lutto in memoria, una memoria che permette loro di riprendere in mano la propria vita e di sopravvivere mettendo assieme le tracce e i pezzi di ciò che non c’è più, ma che è ancora presente nei nostri pensieri e che ci aiuta a comprendere che, nonostante tutto, continuiamo a esistere.

«Io credo che tutto ricominci, che ogni fine è un inizio, come un cerchio». Questa frase, tratta dallo scambio di messaggi fra Minore e la sua amica, racchiude il senso di Inventario di quel che resta dopo che la foresta brucia. Attraverso le tracce di chi non c’è più impresse negli oggetti e nei silenzi fra le parole, Michele Ruol ci mostra come sia possibile trasformare la perdita in vita, come dietro ogni fine ci sia sempre un nuovo inizio che parte dalla consapevolezza di aver perso una parte di sé, che all’apparenza ci impedisce la costruzione di un futuro, ma che in realtà ci invita, invece, a costruirlo partendo dai detriti del lutto, poiché «anche le case possono cadere, ma se le rimetti in piedi è come se non fosse mai successo niente». I protagonisti di Ruol fanno ciò costruendo una memoria collettiva universale e allo stesso tempo intima e personale: la storia di Padre e Madre è la storia di tanti che coltivando la memoria di chi non c’è più riescono a dare corpo e voce al vuoto creando la possibilità di un futuro e di una nuova vita.

Photo credits
Copertina – Foto di Jurga Ka su Unsplash



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