Forse è così che succede per artisti con vent’anni di carriera alle spalle. Si vive in uno stato di continuo rinnovamento e esplorazione di sé, perché semplicemente se ne avverte il bisogno. Nel recente passato di Silvia Calderoni c’è Frankenstein (A Love Story), la nuova creazione di Motus (compagnia con cui collabora da dieci anni), andato in scena all’Arena del Sole di Bologna. E c’è Denti di latte (Fandango Libri, 2023), suo esordio alla scrittura. Forse è così che succede per un’artista che si avventura (costantemente, consapevolmente) nell’andare oltre ogni sorta di confine. Oltre quelli del corpo, interrogandosi attivamente sulle modalità attraverso le quali possa nascere un nuovo linguaggio, concentrato sull’indagine e mai sulla definizione. Impegnandosi a studiare posture nuove, perché quelle attuali non sono abbastanza. Denti di latte adotta la stessa strategia. Passato e futuro (sia umano che artistico) si incontrano, facendosi forza l’uno con (e sul) l’altro. Tutto si tiene insieme, il «pre» rimodella il «post», senza cancellarne le tracce. I residui di infanzia sono e non sono più quello che erano. Forse è così che succede con un’artista come Silvia Calderoni. Siamo invogliati a chiedere «una piena falcata d’amore / una giusta battaglia, / aculei nella voce / narcisi e rose / essere radiosonda / del niente che trasforma il trascendente in cose». Versi, questi, di Mariangela Gualtieri (Senza polvere senza peso, Giulio Einaudi Editore, 2006) – su cui, a breve, torneremo – che sembrano aprirci la strada per un’analisi di Denti di latte.
«La mia memoria è piena di spazio vuoto». La tua scrittura si misura con delle immagini nitide e con altre dai contorni più sfumati. C’è qualcosa che resta sempre segreto –«quel segreto sono io», scrivi e ribadisci – e vengono forniti solo degli indizi. Nonostante questo, è tutto estremamente vero. Guardare indietro, allora, non è per forza fare la strada al contrario. È rimodulare (manipolare?) le disposizioni e le proporzioni di un qualcosa che continua a farsi nuovo. In che modo nella memoria coesistono questi due aspetti, devono conciliarsi o restare slegati l’uno dall’altro? Li immagini come antitetici (spazio vuoto vs spazio pieno) e antagonisti, o complementari?
Mi piace immaginare il ricordo (e, quindi, anche la pratica del ricordare) come se fosse un luogo, un «magazzino», con all’interno dei pezzi da ricollegare attraverso l’immaginazione. In sé convivono entrambe le cose. Utilizzo (come se fossero dei reagenti, senza riscrittura) tutto quello che ha a che fare con un tempo-spazio che è il passato per far sì che reagisca – appunto – con le chimiche dell’immaginazione. Tutto questo, però, non viene trattato in modo nostalgico. Questo materiale viene preso e trasformato in sguardo e metro degli occhi di una bambina. Non si tratta di un adulto che – malinconicamente – riesuma ricordi, quanto piuttosto della creazione di un sistema di misurazione del reale che è attorno alla bambina. L’oggetto-ricordo diventa unità di misura come è unità di misura – in qualche modo – anche il braccino della bimba.
Il tempo dei denti da latte – quelli che sono fragili, “ballano” – è un tempo che andrebbe dilatato? Convivere con la loro «asimmetria» (se così possiamo definirla) ed esaltarne il valore, può aiutare a vivere diversamente anche il tempo presente, quello che (per citarti) hai definito «non abbastanza»?
Quello dei denti da latte è un tempo che finisce più o meno per tutti/e. Per ognuno/a di noi è diverso. Ma è anche un tempo che è legato al corpo, è una temporalità corporea; perdiamo, infatti, un piccolo «pezzo» di noi e per me è come se perdessimo un segreto. E quelli dei bambini e delle bambine sono segreti grandi, seri, che contengono giochi. Che danno modo di comprendere come si guarda il mondo. Il tempo dei denti da latte è quel tempo lì, quello in cui bambini e bambine cavalcano quei segreti. Pensare ai denti che cadono uno alla volta – senza ricostituirsi più, lasciando spazio a quelli permanenti – per me è molto forte: la loro «scadenza» si riferisce anche ad un periodo che non ritornerà più.
Il tuo libro è un’avventura della voce e del corpo. Descrivi un corpo che fluttua, si rilassa, si appesantisce tanto da non riuscire più a spostarsi. Un corpo che trova costantemente una nuova collocazione, che diventa troppo piccolo in una stanza troppo grande. Tu riesci a dare corpo alla voce e voce al corpo. All’interno del tuo progetto artistico (legandoci, ancora, al tuo spettacolo The present Is Not Enough) è tangibile l’impegno a dimostrare di non voler mai utilizzare il corpo, non facendolo mai diventare uno strumento. Come – e se – è cambiato questo discorso passando attraverso un nuovo mezzo, la scrittura?
In Denti di latte c’è tantissimo corpo. Come ho detto, infatti, è il braccino della bimba (insieme ai ricordi), a descrivere e tracciare le linee del libro. Per me il corpo è così importante principalmente per due motivi. Per prima cosa, lavorare con il corpo è quello per cui mi sono impegnata negli ultimi venticinque anni della mia vita. È quello su cui riesco a lavorare meglio: la mia scrittura nasce come scrittura del corpo, perché quella della scena è scrittura corporea. È così che ho fatto con il romanzo. Ho preso quella lingua che conosco così bene e ho provato a metterla tra le pagine. È l’emozione del corpo ad essere descritta, non l’emozione di per sé. È il modo che ho trovato (e anche quello che mi interessava di più) per affrontare quest’avventura della scrittura.
Denti di latte non cerca «soluzioni a fondo pagina». È più concepito come un diario. Nelle tue parole è come se si notasse l’intento di preservare uno sguardo, una misura del mondo. Ci hai tenuto a ribadire che non si tratta di un romanzo autobiografico, ma la sua realizzazione ti ha messo nella condizione di ritrovare la tua prospettiva infantile?
Ho attinto dai miei ricordi, come molto spesso faccio quando lavoro. Quel «magazzino» che raccontavo all’inizio con i vari pezzi di ricordi in cui si può frugare ogni tanto senza neppure ricordarne più il contenuto, è materia creativa anche per tutta un’altra serie di aspetti per cui non necessariamente si nota la relazione. Molto spesso mi aggancio a quel tempo nell’atto creativo. Non in modo nostalgico, ripeto, è più un tentativo di recuperare un certo tipo di sguardo. Uno sguardo diverso, ma non per forza «infantile», perché questa parola – per me – è come se venisse detta dagli adulti sui bambini. Ha sempre un connotato diminutivo. Mi piace chiamarlo lo sguardo dei bambini e delle bambine sul mondo. Non per questo sono un’esperta di infanzia, non lavoro con bambini e bambine. È veramente un percorso di ricostruzione e immaginazione rispetto a delle «scaglie» che mi arrivano dal passato e che tratto come se mi arrivassero dal futuro.
In Vista dalla luna Chandra Livia Candiani parla di infanzia e le attribuisce un aggettivo: «sterminata». Lo definisce come «un aggettivo a doppio taglio» che «significa sia smisurata che annientata». Ho trovato qualcosa di te in queste parole. C’è stato qualcosa o qualcuno che ti ha ispirata nella scrittura di Denti di latte?
I miei riferimenti sono persone che frequento e che incontro, con cui ho la possibilità di parlare e confrontarmi. È una cosa molto bizzarra che anche in questo caso si ritorni ai corpi, e al fatto che io mi rifaccia a persone con cui entro in contatto. Una è Mariangela Gualtieri, che ho avuto la fortuna di incontrare quando ero molto giovane e che in qualche modo mi ha accompagnato in tutto il mio percorso artistico, come figura di riferimento fino ad arrivare a essere compagna di scena. La scrittura di Mariangela mi ha fatto reagire molte volte (intendo la parola reagire come reagente chimico), è stata una chiave di lettura per il mondo. Mi sento fortunata a conoscerla. Il titolo del mio libro, tra l’altro, è un suo verso. L’altra è ancora poeta, Viola Lo Moro, che ha una scrittura completamente diversa da quella di Mariangela. Riesce a mettere la lente sui dettagli che possono diventare mondo tutto. Per me questo suo talento, questa sua precisione nel far diventare “mondo” le cose piccolissime, è molto affascinante e ho voluto riprenderla nel mio libro.