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Milano, una città tragica che ci fa ridere da anni

In Milano. Storia comica di una città tragica (Bompiani), Giulio D’Antona ripercorre le vicende della comicità milanese. Il contributo della città lombarda alla storia della risata, a dispetto della seriosità borghese che la contraddistingue, è davvero rilevante: a partire dalle origini in locali malfamati, passando per i tempi d’oro del mitico Derby, fino all’esplosione come fenomeno di massa grazie alla TV, Milano ha formato un vero e proprio modello di spettacolo. D’Antona ci accompagna lungo questo percorso, storico e di costume, che potrebbe trovare la sua naturale continuazione nella stand-up comedy: un genere che conosce bene, avendo vissuto a New York ed essendo il cofondatore di Aguilar Entertainment, la prima società di produzione italiana che si occupa esclusivamente di questo genere di spettacoli. Lo abbiamo intervistato. 

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Il tuo libro è un’analisi e una storia sociale del costume italiano. Per questo, secondo me, la figura di tuo nonno è così rilevante: è stato la tua porta d’accesso alla comicità ed è giusto che il libro si apra e chiuda con lui. Oppure hai inserito la barzelletta della bicicletta all’inizio e alla fine di questo libro per un altro motivo?
Quello che ho provato, sicuramente senza riuscirci completamente, a fare è restituire sia il lato “ufficiale” di questa storia, quello che in qualche modo è stato raccontato di qui e di là, sia il lato personale. In questo senso mio nonno, al quale devo attribuire veramente il mio primo contatto con il comico, fa un po’ da “uomo della strada”, da voce estranea che però ha osservato tutto, da fruitore e da cavia. Raccontare un periodo così lungo della storia d’Italia e così complesso (se ci pensi, solo sul boom sono stati scritti volumi e io non ho nemmeno lontanamente la pretesa di alcuna competenza in merito) è difficile senza scivolare nel trito o nell’errore. Avevo bisogno di un punto di vista personale e di un segmento sul quale focalizzarmi: il nonno e i comici. La barzelletta mi divertiva e non mi piaceva l’idea di lasciare i lettori senza la soddisfazione di conoscerla (come se qualcuno ne possa aver sentito la mancanza!).

Pensando ai periodi storici di cui scrivi (gli inizi tra la nebbia e la ligera; lo sviluppo nei club con la distinzione tra impegno e risata; la consacrazione con la TV commerciale e Zelig) si delinea anche una storia della comicità come imprenditoria e professione. Tu produci la stand-up comedy italiana: credi che questo genere possa essere il futuro della comicità milanese?
Credo che lo stesse diventando, prima del lockdown, soprattutto per un aspetto: quello della comicità dal vivo. La comicità a Milano è stata una questione di fasi: prima del Derby c’era chi voleva importare il cabaret e lo importava dove capitava; il Derby è venuto e ha industrializzato, come suggerisci giustamente; poi c’è stata una fase di riorganizzazione; quindi è arrivata la televisione privata, poi Zelig e di nuovo la televisione che per un lungo periodo ha tolto il grosso della comicità dai locali. Negli ultimi cinque o sei anni la comicità è tornata nei locali come era stato per la prima di queste fasi, quella avanguardistica del cabaret, e tutto stava a suggerire un’evoluzione simile a quella già vista. Poi ci siamo dovuti fermare e ora chissà.

A proposito di stand-up comedy, nel libro racconti come hai scoperto la comicità milanese “di una volta” con le videocassette e i racconti di tuo nonno. Invece, come ti sei avvicinato a questo genere, che già nel nome tradisce le sue origini americane? Soprattutto, come adattarlo al contesto italiano?
È facile: l’ho scoperto a New York. O meglio, a New York ne ho affinato la conoscenza. Sapevo che esisteva, attraverso Jerry Seinfeld, Sarah Silverman, Patton Oswalt, Ray Romano, Richard Pryor e via dicendo, ed ero affascinato soprattutto dalla sua dimensione dal vivo. Quando ho potuto cominciare a frequentarlo, come spesso mi capita, non ho ritenuto di fermarmi a una conoscenza superficiale, ma ho provato a studiarlo. Dato che non faccio ridere, l’ho raccontato e ho aiutato a importarlo. L’adattamento per come la vedo io è sempre un errore. Bisogna trovare una strada completamente originale per sfruttare un modo di fare intrattenimento. La stand-up è il mezzo, quello che conta sono i monologhi. Non è un’invenzione americana quella di parlare in un microfono, ma molti dei comici italiani che si sono avvicinati alla stand-up negli ultimi anni hanno frainteso il mezzo con il contenuto e hanno cercato di ricalcare i monologhi degli americani scordandosi di essere italiani e che tradurre un contenuto non avrebbe funzionato. Poi sono arrivati comici – quali Saverio Raimondo, Edoardo Ferrario, Michela Giraud, Francesco De Carlo – che sono stati in grado di utilizzare il mezzo senza scimmiottare il contenuto.

Hai vissuto alcuni anni a New York e nel libro parli della comicità milanese come di qualcosa di unico: quali sono secondo te i punti di contatto – sotto questo aspetto – tra Milano e New York?
In realtà la particolarità della comicità milanese è di non essere milanese, nemmeno quando parla dialetto. Milano è, esattamente come New York, una città che prende da fuori e filtra. Il Derby era un porto d’approdo per comici provenienti da tutta Italia, così come poi lo Zelig. Alcune delle più importanti figure della comicità italiana, nate a Milano, trovano la loro forza proprio nel non essere milanesi (penso al “terronciello” di Abatantuono e Porcaro, per esempio). Milano raffinava e restituiva: in questo modo ha dato vita a gran parte della comicità italiana. Ruolo che, per la stand-up comedy, copre indubbiamente New York.

Nel tuo libro parli di Gino e Michele per mostrare come a Milano si sia sviluppata anche una linea comica impegnata, con risvolti di satira politica esplicita: lo Zelig occupava i locali del Circolo cooperativo di Unità Proletaria, infatti. Al contrario, la comicità di chi si esibiva al Derby era apolitica. Da estimatore, quale preferisci? E da produttore, su cosa ti orienti?
Penso che la satira politica sia stata superata dalla realtà e che continuare a sottolineare come la classe politica sia inadeguata e a volte grottesca non sia più il ruolo dell’intrattenimento, ma dell’informazione. D’altra parte la comicità è già scivolata nel sociale in varie occasioni, venendo presa per informazione e causando danni che conosciamo molto bene. Quindi da produttore ed estimatore preferisco chi lascia perdere la politica e il risvolto sociale. Per quanto riguarda il passato, non posso prendere una posizione: ci sono stati tempi in cui il ruolo politico della satira è stato fondamentale e il genio comico si è messo al servizio del sociale con risultati notevoli, così come ci sono comici che non hanno mai toccato la politica con gli stessi grandi risultati.

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Al Derby Club (anni 70): Ernst Thole, Diego Abatantuono, Enzo Jannacci, Mauro Di Francesco, Giorgio Porcaro, Massimo Boldi e Giorgio Faletti.

Per concludere: questa bellissima foto in bianco e nero ritrae quasi tre generazioni di comici del Derby, da Jannacci a Boldi e Porcaro. Se tu la dovessi rifare oggi, quali comici ci metteresti e perché?
Quella foto è meravigliosa soprattutto per un elemento: quello centrale, Enzo Jannacci, che oltra essere un artista importantissimo per Milano e per l’Italia è stato un grandioso talent scout. Non so che comici ci sarebbero nella foto, oggi: sarebbe bello vedere i giovani che frequentano i locali sorridere così e condividere con quelli lì della foto lo stesso futuro brillante. Ma sarebbe davvero interessante sapere chi potrebbe mai occupare il posto di Jannacci, perché di così fondamentali, lucidi e sul tempo difficilmente se ne ritroveranno.

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