Recentemente uno sciame furibondo di studiosi (ma anche di giornalisti e politici ecc.), se l’è presa con un irriguardoso giornalista tedesco, A. Widmann, che sulla Frankfurter Rundschau ha avuto l’indecenza di affermare che Shakespeare è «anni luce più moderno» di Dante. Di primo acchito ci si chiede perché un simile referto, in fondo banale, abbia provocato tanta rabbia. Un problema nazionalistico di amor proprio? Di antipatie antitedesche? Eppure si tratta di una verità indiscutibile, come indiscutibile è il fatto che Caravaggio, o Mahler, ci siano anni luce più vicini di Giotto, o di J.S.Bach. E allora? Questo forse ci costringe a trarne un giudizio di valore? Per niente. Di fatto, se proprio vogliamo servirci di una categoria temporale comparativa per inquadrare il prestigio di Dante, opteremo piuttosto per una categoria esistenziale anziché storica, e non esiteremo a dichiarare che Dante, più che moderno, è “attuale”, attualissimo per chi voglia leggerlo e capirlo, almeno quanto il drammaturgo inglese. A dimostrarlo basta in fondo l’evidenza fattuale della sua lingua, che non è solo ancora prepotentemente presente nella nostra lessicografia (il che lo rende a tutt’oggi comprensibile, con l’ausilio di una strumentazione minima, a chiunque parli l’italiano), ma rappresenta anche l’espressione più alta e dinamica di tutta la civiltà letteraria cristiana prerinascimentale, e non è poco. La lingua di Dante è una miniera infinita di sorprese, di sapere, di storie indimenticabili: ci puoi entrare ogni giorno e ogni giorno cavarne una pagliuzza d’oro, è puro miele per lo spirito, e non solo in un senso estetico. Benché la sistematicità dottrinaria a cui è ancorato il suo modo di vedere il mondo e di giudicare il senso morale della vita sia perfettamente in disuso, non è un gusto antiquario che ci muove a leggere la Commedia, non abbiamo la sensazione di confrontarci con una disposizione intellettuale e sentimentale obsoleta.
A parlare qui non è un chierico erudito, ma un uomo che ha vissuto. E tuttavia, malgrado la vitalità espressiva, ci guardiamo bene dal caratterizzare Dante come “moderno”, se con questo predicato pretendiamo descrivere una sua qualche vaga vicinanza al nostro tempo e giustificare magari l’ostinazione con cui sottoponiamo intere generazioni di italiani al suo studio. Di fatto i criteri del valore storico-conoscitivo di Dante non sono per nulla funzionali a una sua pretesa modernità, Dante è e resta intellettualmente lontano da noi. I motivi principali della sua lontananza sono stati così ampiamente assodati e divulgati, in particolare da Singleton e Contini, da poterne qui dare un’idea in poche parole. L’uomo di Dante, a differenza di quello moderno, non è mai del tutto esposto alla desolazione di una contingenza indecifrabile, opera in un mondo di relazioni valoriali calate in un tempo assoluto, di cui egli è partecipe grazie alla bussola di una ragione coscientemente e intenzionalmente proiettata verso una trascendenza riconoscibile. La natura non nasconde per lui un senso preverbale impermeabile all’intelligenza, è invece un libro scritto in una lingua che coincide con l’ordine ontologico di una proiezione divina immutabile. Grazie all’aiuto dei due vocabolari universali che ne garantiscono la verità, la Bibbia per ciò che riguarda la verità rivelata e Aristotele per ciò che tocca la verità naturale, è un libro leggibile e interpretabile senza resti da tutti. Il sapere mediato in questo volume che si squaderna davanti ai nostri occhi, ciò che i marxisti chiamerebbero la “sovrastruttura” ideologica, si innesta sull’orientamento mondano preriflessivo dell’intellettuale medievale senza problemi di rigetto, il sapere per lui non è violenza, ma avvicinamento a Dio e quindi a se stesso. In questa rete di relazioni finalizzate nulla va perduto, è un mondo perfettamente chiuso e sensato in cui la storia umana non è una mera istituzione occasionale, ma la rappresentazione necessaria di quel grande spettacolo che è la rivelazione amministrata da Dio. In questa cornice assoluta il divenire è sottratto al dominio del caso, tutto ciò che accade è predeterminato senza lacune dall’intelligenza di Dio. Oggi nessuno, nemmeno il teologo più ingenuo, pretenderebbe di identificare l’essenza veritativa delle cose con la loro riconoscibilità ideale da parte di una ragione la cui facoltà fondativa è garantita da Dio. Per noi, figli di Copernico e Kant, vale proprio al contrario che la ragione, se anche solo apre un’infima porticina sulla trascendenza, oltrepassa con ciò stesso ingiustificatamente le sue competenze. Per la razionalità moderna la fede è un’assurdità extrarazionale, il cui senso è impossibile da giustificare discorsivamente. Possiamo forse testimoniarla simbolicamente con atti e pensieri caritativi, ma senza che ciò possa cambiare di uno iota i presupposti trascendentali della nostra conoscenza empirica del mondo visibile e invisibile. Tuttavia, questa lontananza sistematica di Dante dall’impostazione ipotetica del pensiero moderno, che ce lo rende perfino più lontano di certi modi di vedere il mondo propri della cultura greca e romana, circoscrive i limiti della sua utilizzabilità pratica e teoretica, non certo esistenziale e spirituale.
Oggi nessuno si servirà della sua dottrina per cercare di dare un fondamento filosofico alla morale o per aprire un improbabile discorso scientifico sui massimi sistemi. Cionondimeno, proprio il fatto che gran parte della sua segnaletica speculativa è ormai fuori uso, favorisce un approccio intellettuale autonomo e ideologicamente poco strumentalizzabile alla sua opera. La precisione formale e la plasticità immaginativa della sua lingua, aldilà della loro genuina fruibilità estetica, restituiscono alla letteratura la sua più autentica funzione di esperienza esistenziale, vale a dire di autoidentificazione personale. Francesca, Cavalcanti e Ulisse non ci lasciano senza averci cambiati. D’altronde è proprio così, con la stessa libertà culturale con cui leggiamo Dante, che ancora ascoltiamo J.S.Bach o guardiamo Giotto: non per salvarne qualcosa di “moderno” che poco verosimilmente potrebbe ancora galleggiare sulla superficie del nostro spirito di uomini storicamente illuminati, ma per illuminare invece con la loro arte il senso di una profondità sulla quale siamo noi a galleggiare, e che la frastagliata superficie della “modernità” tende spesso a nasconderci.