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Del narrare. Testimonianze di scrittura di Daniele Del Giudice

Una raccolta postuma di scritti attraverso cui Daniele Del Giudice impartisce lezioni di scrittura, esaminando lo stile dei grandi autori

Chiedere ad uno scrittore di parlare della propria arte può portare spesso ad esiti interessanti e inaspettati. Capita, ad esempio, che uno scrittore si arroghi il diritto di scherzare e di prendere in giro l’intervistatore, colpevole di aver posto una domanda troppo generica e superficiale – «a domanda sciocca, nessuna risposta», sentenziava laconicamente Gérard Genette. Ma capita anche, e molto più frequentemente, che un autore tenti, pur trattandosi di un compito certamente al di sopra delle capacità di chiunque, di affrontare l’argomento con profonda serietà e dedizione, cimentandosi nella faticosa e forse vana lotta. A partire dagli anni ’80, in effetti, si è assistito alla pubblicazione di numerose opere che cercarono di interrogarsi sulla questione: le Lezioni di letteratura di Nabokov e Cortázar, ad esempio, o L’art du roman di Milan Kundera, pubblicato in Francia nel 1986, o ancora le postume Lezioni americane che Italo Calvino avrebbe dovuto tenere presso l’Università di Harvard, edite nel 1988. Poco importa che dietro queste operazioni ci fossero lauti compensi economici, inderogabili impegni lavorativi o una semplice sfida personale: a questi scrittori venne chiesto di impartire delle vere e proprie “lezioni di letteratura” e, per parecchi di loro, il risultato che ne scaturì fu tutt’altro che una cattedratica e monologante lezione universitaria. Si rivelò anzi essere una perfetta occasione per ragionare, con modalità ancora più profonde e intense, sulla letteratura: un’occasione per discutere di essa e dialogare con la materia. È solo con una buona dose di leggerezza e una certa tendenza alla divagazione, forse, che uno scrittore può permettersi di affrontare il tema. Ed è esattamente ciò che Daniele Del Giudice, nella sua postuma raccolta dal titolo Del narrare, è stato capace di fare.

Pur non trattandosi di reali “lezioni” (solo alcuni dei dattiloscritti inediti contengono indicazioni riferite a dei futuri laboratori di scrittura creativa che lo scrittore avrebbe dovuto tenere in alcune università italiane), i saggi ritrovati e qui presentati garantiscono a Del Giudice un posto all’interno di quel folto gruppo di autori che, in un preciso momento della loro carriera, ha deciso di offrire riflessioni e testimonianze sulla scrittura. Leggiamo, all’interno della Zona del narrare – testo risalente ai primi anni Duemila e che inaugura la seconda parte della collezione saggistica – di un’interessante bipartizione degli autori, riassumibile forse superficialmente nel binomio critici/scrittori. «Se vogliamo conoscere le leggi che operano nella “zona” dobbiamo leggere Todorov e Sklovskij e Jakobson, Maurice Blanchot e Roland Barthes, Northrop Frye, Genette, Bachtin, o Paul Ricoeur» poiché attraverso i loro saggi, continua Del Giudice, essi «descrivono l’origine dell’atto del narrare, ne arricchiscono ed ampliano l’orizzonte ermeneutico, fondano storicamente e filosoficamente le forme e le strutture dell’atto del narrare». Tuttavia, nonostante gli scritti di Šklovskij, Barthes, Blanchot e di tutti coloro che definiamo “critici”o “teorici della letteratura” permettano «una sorta di analisi formale» e conservino una «sapienza e memoria storica della zona stessa», nessuno, fra i nomi citati, può considerarsi un effettivo “frequentatore” della zona. Ed è proprio questa mancata relazione dall’interno che, secondo Del Giudice, renderebbe loro impossibile un rapporto diretto ed autentico con il narrare: sarà consentito un semplice avvicinamento, per permettere di sporgere il naso a malapena oltre la soglia. Al contrario,  «se leggiamo i saggi di Pound, quello sullo stile, o il Trattato d’armonia, se leggiamo Oral di Borges o i saggi di Nabokov sulla letteratura russa e quella inglese, e i saggi di Stevenson Una chiacchierata sul romanzo o le lettere di Flaubert, o il saggio di Henry Miller Il tempo degli assassini su Rimbaud, […] i repertori di Michel Butor o Segni, cifre e lettere di Raymond Queneau, e i saggi di Hermann Broch», avremo invece la possibilità di giungere ad una conoscenza più ravvicinata e diretta di quell’oggetto – o ancora meglio, di quello spazio – chiamato letteratura. Grazie alle testimonianze di coloro che della zona hanno fatto un’autentica e «fortissima esperienza», sarà dunque tentabile una risalita verso la «fondazione dell’atto narrativo», al fine di identificarne la complessa e molteplice natura. Ma al di là della distinzione fra critici e scrittori (che ad alcuni potrà risultare forse troppo stringente e inadeguata), è proprio l’idea di una narrazione intesa in termini “spaziali” a dover attirare maggiormente le curiosità del lettore. Considerare il romanzo come un «campo di energie» battezza la letteratura, da un certo punto di vista, come luogo di condensazione di forze – «contrastanti e molteplici, vitali, potenti» – che rendono ridicola qualsiasi distinzione «tra “io” e “mondo”, tra memoria e invenzione, tra linguaggio e realtà, tra visionarietà e ricerca» ed esaltano le complessità e le infinite sfaccettature dell’attività narrativa. Ogni eventuale ragionamento in termini oppositivi, di cui solitamente ci si serve nelle relazioni con la realtà circostante, è costretto a cedere. E si incoraggia, al contrario, alla ricca e stimolante sperimentazione del molteplice e dell’ignoto: «di quel che trovo nella zona – scrive Del Giudice – non so nulla prima di mettervi piede. Ho solo la percezione delle sue energie. E lì mi rivolgo. Non faccio progetti, né di struttura, né di percorso. Le storie sono lì dentro, materia magmatica, ed ogni storia porta con sé la propria forma».

Il concetto di “rappresentazione” si è posto, fin da subito, come uno dei più importanti e seri problemi con cui Del Giudice ha tentato di interfacciarsi, fin dalla pubblicazione dello Stadio di Wimbledon – inviato all’editore con il titolo di Carta di Mercatore, il cui nome completo è proprio «rappresentazione di Mercatore», ovvero «la prima carta in cui la Terra non è descritta direttamente, “realisticamente” in piano, ma per corrispondere alla curvatura terrestre veniva proiettata su un cilindro e poi il cilindro veniva messo in piano». La “lezione” di Del Giudice aiuta a comprendere come, per ottenere una rappresentazione realistica dell’oggetto, sia spesso necessario compiere «un’operazione di pura fantasia, di pura procedura», in modo da rendere la realtà attraverso un «procedimento di invenzione fantastica e simulazione». Insomma, cristallizzare, immobilizzare, attraverso la scrittura e sulla pagina, il mondo circostante. Una strada tra l’altro percorsa anche da Georges Perec, con il quale Del Giudice sembra condividere il medesimo e irrealizzabile fine: è possibile “esaurire” un luogo, una porzione di universo ed analizzarla nel suo continuo mutare, riportandola, sempre identica a sé stessa, su un foglio di carta? Pur trovandoci d’accordo con l’autore e affermando a nostra volta che «la narrazione, il racconto, le parole, sono reti per agganciare la realtà, per inventarla», non ci sarà purtroppo possibile ignorare quel «rapporto molto probabilistico» che tale procedimento necessariamente intrattiene col mondo. La letteratura, la narrazione, il linguaggio e tutto ciò che orbita loro intorno, versano allora in un eterno e immutabile stato di «precarietà», l’unica vera «vocazione» possibile per uno scrittore. E se, come afferma Del Giudice, «prima di un libro, non hai nulla» e «dopo un libro non hai nulla lo stesso, tanto meno la certezza che potrai rientrare nella zona e farne un altro», forse converrebbe rassegnarsi a «non essere niente», con buona pace di se stessi e della propria arte, lasciandosi «attraversare, perforare da tutto, da ciò che chiamiamo “mondo”, “realtà”, o “linguaggi”» e assumendo piena disposizione «ad essere una lampadina, un paracarro, un albero»: insomma, tutto quello che non siamo.

Immagine di copertina di Robert Tracy, “Girl Writing”
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