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Dall’essere all’apparire

Ricordando l’eterno Emanuele Severino

«Citando un verso di Archiloco, Isaiah Berlin ha una volta provato a distinguere i pensatori in volpi e ricci, tra chi ‘sa molte cose’, inseguendo la realtà in tutte le sue diramazioni, e chi invece ‘sa una sola cosa, ma grande’»[1]. Emanuele Severino va senza dubbio iscritto al secondo gruppo menzionato da Berlin, in quanto tutta la sua biografia intellettuale ruota attorno a un unico grande concetto, quello di eternità. Un pensiero come il suo si pone in antitesi rispetto a una certa estenuata e incancrenita tendenza dell’analisi filosofica degli ultimi sessant’anni, un ritrarsi dell’attività di pensiero che ha lasciato sempre più spazio a una ‘scolastica della filosofia’, un’ingessata manualistica digerita in un modo piuttosto che in un altro, per approdare – citando Richard M. Rorty – alla post-filosofia, a un pensiero che si è voluto fare debole.
La filosofia di Emanuele Severino si inscrive, invece, nel novero di quella grande tradizione occidentale che si misura con i temi di fondo del pensiero, quel pensiero che caratterizza lo sforzo di vivere in modo consapevole l’esperienza della vita umana. Severino non è meno importante di Nietzsche o di Heidegger, è uno dei pochi pensatori contemporanei destinato a permanere nel pantheon della filosofia perché ha saputo tracciare uno sguardo in grado di racchiudere tutta la storia dentro a un unico significato, il nichilismo, ma con un’accezione tutta particolare e destinata a stravolgere il panorama filosofico del Novecento.

Partiamo dall’inizio. Severino si nutre e si forma all’interno della grande tradizione della metafisica classica nella lettura che ne fece il suo maestro Gustavo Bontadini, il quale aveva formulato una prima sostanziale revisione della metafisica aristotelico-tomista, dove al centro della riflessione stavano Dio e il rapporto fra Dio e il mondo. Il tomismo aveva ritenuto che il mondo dovesse essere un divenire, ovverosia un qualche cosa che riceve l’essere senza possederlo, e così facendo il divenire si configurerebbe come un passaggio dall’essere al nulla (sono banalmente le cose che cominciano e poi finiscono), e quindi alla radice di questo ci dovrebbe essere un fondamento assoluto sottratto al divenire, e questo fondamento ultimo sarebbe, in definitiva, Dio. Volendo dare una formula stretta e veloce a questa dimostrazione classica della creazione e dell’esistenza di Dio la possiamo ritrovare in Agostino: Facta sunt, mutantur enim, atque variantur[2] (trad. ‘Le cose sono state create, infatti mutano e variano’), e in ciò vi è l’ancoraggio all’eternità di un Dio creatore, dove in realtà la parola stessa eternità è impropria, perché evoca comunque la temporalità, mentre già nella teologia classica la realtà di Dio veniva definita come il nunc stans, cioè l’eterno presente non toccato dal divenire e dalla temporalità. La creazione, dunque, pone in essere il mondo, confermando che la dimensione del creato viene tratta fuori dal suo nulla ed è posta in essere da Dio. Ecco che il fondamento di tutto ciò che esiste, colui la cui essenza ed esistenza coincidono, è Dio.

La posizione di Severino muove da questa dimensione, radicalizzandola. Facciamo partire il ragionamento dal concetto di ricordo. Dice Severino:

«Che cosa intendiamo quando parliamo di ricordo? Non ricordiamo le cose che sono qui, presenti, ma ricordiamo le cose passate (di questo si è convinti). Che cosa intende l’uomo delle società avanzate per ‘passato’? Intende ‘ciò che non c’è più’, cioè quello che, non essendo più, è diventato nulla. Allora proviamo a pensare il rapporto fra il ricordo e ciò che è diventato nulla. Il ricordo dovrebbe ricordare ciò che è diventato nulla, ma ciò che è nulla non è più, e come si fa a ricordare il nulla? Perché il ricordo non è qualcosa di passato, il ricordo è qui, è un presente, e tuttavia ha la pretesa di riferirsi a ciò che, non essendo più, è nulla. È una pretesa impossibile, come uno che volesse andare in una direzione verso un luogo che non c’è. Già questo ci fa dubitare che il senso che noi diamo alla parola ‘passato’ sia adeguato. È proprio vero che il passato è ‘ciò che non è più’? Se teniamo ferma l’esistenza del ricordo e se è impossibile ricordare il nulla, allora ciò che si ricorda è qualcosa che non è diventato nulla, che non può esser diventato nulla, che chiameremo eterno. Allora l’unica possibilità – se vogliamo salvare la figura del ricordo – è quella di concepirlo come ricordo degli eterni»[3].

L’apparizione degli eterni significa proprio questo, che tutto ciò che è venuto all’essere non può poi precipitare nel nulla: tutto ciò che esiste è eterno, è un eterno che entra nell’apparire in quanto manifesto, ma c’è da sempre, e mano a mano che cessa di apparire scompare, sparisce, ma persiste, continua a essere, è nella sua eternità. Ogni realtà è stata da sempre fatta, è entrata nella sfera dell’apparire, e dunque del divenire, ma c’è da sempre.
Scrive Severino:

«L’unico senso secondo il quale si può affermare il divenire [l’entrare e l’uscire dell’apparire] dell’evento trascendentale è dato quindi dal divenire del suo contenuto: l’evento trascendentale appare come diveniente non già nel senso che ne appaia il sorgere e il tramonto, ma nel senso che appare il sorgere e il tramonto delle determinazioni del contenuto dell’apparire. Il comparire e lo scomparire di qualcosa – ossia il suo divenire – devono essere dunque intesi come l’entrare e l’uscire del qualcosa dalla ferma dimensione trascendentale dell’apparire»[4].

Nella dimensione della fenomenologia ciò che si esperisce non è il passaggio dal nulla all’essere e viceversa, ma l’apparire e il disparire degli eterni. Ed eccoci alla necessaria conciliazione fra l’aspetto logico e quello fenomenologico, e l’esempio portato da Severino per esemplificare tutto ciò è quello della legna che, bruciata dal fuoco, si trasforma e diviene cenere[5]. In questo caso – secondo il sentire comune – siamo di fronte ad un ente che rompe il principio di non contraddizione divenendo altro da sé, e questo divenire altro da sé – cioè il diventare cenere della legna – presuppone che nel passaggio da a a b ci sia stato un passaggio di a (la legna) attraverso il suo annullamento per poi diventare b (la cenere). Siamo dei cattivi interpreti della variazione evidente del mondo. Come può darsi che qualcosa si annulli e dal nulla diventi qualcosa d’altro? Come può darsi poi che a sia uguale a b? E infine, concediamo pure che una qualsiasi realtà si annulli, e che il suo annullarsi equivalga ad uno scomparire, ma come si può dire che necessariamente, se scompare, si annulla? Risultato: ogni quid è un eterno, e l’essere è in definitiva l’infinità degli enti eterni.
Si è inteso come Severino stia riproponendo una questione teoretica centrale nel discorso filosofico occidentale, e la necessità della filosofia teoretica è proprio quella di ritornare alla metafisica e all’ontologia proprie di quel pensiero radicale considerato da Severino l’unica soluzione logico-teorica che consente di contrapporsi al dolore – cioè alla credenza, per gli uomini, di essere destinati a una morte che li condurrà alla totale negatività del nulla, dell’angosciante niente –.

L’inizio di una risposta alle questioni fin qui sollevate sta nella necessità di un recupero della filosofia di Parmenide. Per Parmenide la contrapposizione definitiva e la distanza infinita fra l’essere e l’assolutamente nulla è desumibile dai caratteri – i sèmata – dell’essere: immutabilità, eternità, incorruttibilità, ingenerabilità, perché se mutasse, se non fosse eterno, se si corrompesse o se fosse generato questo essere sarebbe necessariamente stato niente e tornerebbe ad essere niente. Impossibile follia. Tuttavia a questo ritorno al filosofo di Elea è contestualmente necessario un suo superamento, andando oltre quella stessa contraddizione che Parmenide non supera, vale a dire la contrapposizione logica fra l’essere e gli enti, presentata nel poema Sulla natura. La formula parmenidea afferma in modo definitivo che l’essere escluda, da sempre e per sempre (formule comunque improprie perché temporali), il nulla. Il nulla è posto come ciò che non è e non può essere, che non può essere pensato né detto, mentre l’essere – che è – estingue ed esclude originariamente il nulla in quanto essere. Ed ecco che, per Severino, la teologia cristiana mostra le prime crepe originarie, perchè se Dio trae dal nulla le cose, esso è compromesso con il nulla, è il primo a far passare ogni realtà dal non essere all’essere, ma in questo atto entra egli stesso nella dinamica del divenire. Dio in questo caso – e qui anticipiamo tutto il decorso di Severino – è il primo ‘tecnico’, e la caratteristica della tecnica è costantemente quella di far passare le cose dal nulla all’essere e viceversa: questa è la folle alienazione dell’Occidente, il quale ritiene che l’essere possa coincidere con il nulla. Da questo punto di vista, Severino si sgancia dalla metafisica classica sostenendo che qualsiasi ente, in quanto ente, esclude il suo nulla. Facendo così decadere la differenza tra mondo e Dio, Severino ci sta dicendo che tutto ciò che esiste, non potendo nullificarsi, è eterno.

Severino si porta al di là della metafisica perché eternizza tutto superando la differenza ontologica fra mondo creato e Dio creatore, e lo stesso Dio cristiano, in quanto tale, non può che essere un Dio nichilista. Il Dio prodotto dalla teologia occidentale è un Dio creatore che guida, domina e può distruggere il divenire del mondo, il tempo del mondo, in una dinamica che molto somiglia alla dialettica servo-padrone proposta da Hegel nella Fenomenologia dello Spirito; ma se quella distruzione operata da Dio si verificasse verrebbe meno, a rigor di logica, il servo (il divenire), che precipiterebbe nel nulla rendendo a questo punto inutile la stessa funzione del signore, il quale egli stesso sarebbe destinato all’annullamento, in quanto nessuno più gli riconoscerebbe la funzione di signore. Questo è il nichilismo su cui si fonda la fede, che vedrebbe franare l’impalcatura gerarchica tipica del discorso religioso.

L’essenza paradossale del nichilismo per Severino si situerebbe in un comune significato di fondo della tradizione occidentale, un inconscio inconsapevole dell’Occidente che si realizza nel pensare che la verità evidente stia nel divenire, nel mutare delle cose, nel movimento modificante della realtà, che in definitiva è la persuasione che l’essere possa fuoriuscire dal nulla e poi ritornare nel nulla, nel ritenere quindi che l’essere si possa identificare con il nulla assoluto. Attenzione, Severino non sta, in modo altrimenti ingenuo, negando il variare della realtà – che è evidente e inconfutabile –, ma lo sta reinterpretando dandogli un differente significato rispetto a quello che i greci hanno iniziato per primi ad attribuire al divenire, e cioè non come un venire fuori dal nulla, cominciando ad essere, per poi annientarsi in un ritorno nel nulla. Con Platone e Aristotele si è assunto il divenire come l’evidenza del passaggio dall’essere al nulla, e la manipolazione delle cose, a partire dal Dio creatore, è diventata modo d’essere e di strutturarsi dell’intero Occidente. Per Severino invece il divenire può essere evidente non nella forma dell’essere e del nulla, ma in quella dell’apparire e dello scomparire. Questo è il destino del tempo per Severino, la sua verità: non il tempo chrònos (del ‘prima’ e del ‘poi’) direzionato, dove il ‘prima’ non c’è più e il dopo ‘non c’è ancora e poi non ci sarà più’, ma il farsi avanti degli eterni, il sopraggiungere e l’andarsene degli eterni nella coscienza, e cioè l’apparire e lo scomparire dei fenomeni alla coscienza. Questo è ciò che Severino chiama struttura originaria.

Per mettere in immagine questa nuova idea della molteplicità della realtà proviamo nuovamente ad utilizzare una sua stessa formulazione. Si deve immaginare un insieme di fotogrammi, dove ogni singolo istante, ogni singola emozione, ogni singola realtà è un fotogramma che appare e scompare fenomenicamente, ma continua ad essere ontologicamente in quanto non può non essere, e quindi deve necessariamente persistere eternamente. Ancora una volta sgombriamo il campo da equivoci: Severino non è un ingenuo – come non lo era Einstein e come non lo sono oggi i fisici quantistici – sa perfettamente che una qualunque realtà è stata formata da qualcosa d’altro, non sta negando il principio causal-effettuale, ma rimane il fatto che nel momento in cui qualcosa è, è come se fosse sempre stato e sempre sarà. Ma scusate, la fisica non ci dice esattamente questo, e cioè che la materia stessa non proviene dal nulla e non finisce nel nulla? Quel ‘nulla si crea e nulla si distrugge, ma tutto si trasforma’ formulato da Lavoisier per spiegare la legge della conservazione della massa in campo fisico, corrisponde, in Severino, al fatto che nulla passi dall’essere al non essere, ma che tutto permanga eternamente nell’essere comparendo e scomparendo, cioè trasformandosi.

L’ultimo atto severiniano è la gioia, a cui l’uomo è destinato. Non ci sono salvezze o dannazioni di matrice religiosa, non ci sono buoni o cattivi, santi o peccatori, c’è il rigore della grande filosofia. Si tratta in definitiva dell’andare oltre ogni contraddizione e di ogni instabile squilibrio che attraversa la vita dell’uomo. Dice Severino: «Se esiste un luogo dove la totalità delle contraddizioni è oltrepassata, non è forse quel luogo ciò che noi veramente siamo? Se la totalità del mio negativo contraddirmi è tolta in un certo luogo, allora io non sono forse, in verità, quel luogo? Sì, e quel luogo è ciò che indico con la parola gioia»[6].
Un pensiero per certi aspetti consolatorio quello di Severino, soprattutto se ce ne servissimo nella trattazione di argomenti come la morte, l’al di là, il ‘dopo’. Il morire non sarebbe il pensare ad una tragica fine, ad un annullarsi definitivo che va consolato, ma che vada cancellata l’accezione di morte intesa come annullamento. La morte non è un niente, non è un andare nel nulla: la vita continua ad essere sull’altro versante di questa luna, eternamente, fuori dal tempo, e cessa solo di apparire nel modo in cui la nostra coscienza la può percepire. Allo scomparire degli eterni va unita la consapevolezza della necessità di una continuità che non si spezza, di un filo-rosso che tiene legata tutta questa eternità: è una foscoliana corrispondenza, è il permanere nel ricordo. Perché si dovrebbe pensare alla morte come un niente solo perché chi se ne è andato non ci sta più di fronte, non si potrebbe essere solo assentato, continuando ad essere in un altro modo?



[1] Incipit dell’articolo «Morto il filosofo Emanuele Severino» di Mauro Bonazzi, «Corriere delle Sera», 21 gennaio 2020.
[2] Agostino di Ippona, Confessioni, XI, 4.
[3] E. Severino, Intervista di Vincenzo Milanesi a Emanuele Severino sul ricordo degli eterni, a cura di Ines Testoni, Master Death Studies and the End of Life – UniPd, 2016.
[4] E. Severino, Essenza del nichilismo, cit., pp. 98-99.
[5] Si veda E. Severino, Destino della necessità, p. 165 e seguenti.
[6] E. Severino, intervista Emanuele Severino tecnica, morte e gioia, 2018.

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