Ci sono parole capaci di agire come inneschi. Diventano ami – armi – per la memoria, rotte dell’esistenza. Certe volte non te ne accorgi, ma a specifici termini abbini personaggi, valori, colori, sentimenti. Ricordi. Altre, invece, ti rammentano che le mancanze non traslocano con facilità, che la consapevolezza di quello che sfugge può essere più cocente della sabbia d’agosto, per quanto non serva rimanere legati allo spasimo per possedere ciò che è andato via. Il peso dell’assenza resterà, netto, scavato come un’impronta: intorno alle parole, ai loro significati, sappiamo avvitare i pezzi più importanti della nostra vita. La letteratura, per questo, si fa strumento chirurgico: conforta, solleva, aiuta.
A tal proposito, rileggevo Bergson, proprio ieri. Avevo da giorni un suo libro appoggiato sul tavolino in salotto, scuro della copertina contro lo scuro del legno, quasi a nascondersi tra le pieghe del quotidiano. L’ho sfogliato mentre il caffè era ancora sul fuoco, avevo qualche minuto di tempo. Pagina dodici, l’intuizione. Pagina diciotto, la durata e la coscienza. Pagina trentasei, il mutamento. Termini che celano tutto il senso della saggezza, capaci di far conservare dentro di sé lo spazio di un’attesa, quello della vita a venire.
Sono cresciuta nella solitudine, senza bambini nel vicinato con cui condividere sciocchezze, giochi e risate grasse. Da ragazzina, per passare il tempo, m’inventavo trasmissioni radiofoniche che registravo sulla solita audiocassetta, non riascoltandone mai il contenuto. Leggevo qualsiasi cosa trovassi in giro per casa: la Posta del Cuore di Famiglia Cristiana, le filastrocche di Mariarosa allegate al Lievito Bertolini, le espressioni di mia nonna quando le dicevo che mi stavo annoiando. Crescendo sono cambiati i parametri, l’impianto stereo, i giornali e, soprattutto, le possibilità. Ho preso coscienza del mio essere ragazza prima, donna indipendente poi; ho assorbito figure esemplari e introiettato riferimenti culturali come se fossero caramelle. Sassi in uno stagno: non si vede un granché da fuori, ma in fondo c’è un turbinio complesso.
Ho continuato a sfiorare col dito le pagine del libro di Bergson, la carta ruvida contro la morbidezza del polpastrello. In un tempo buio in cui si torna a bruciare librerie e a considerare il libero arbitrio qualcosa di estremamente pericoloso, l’unica salvezza è continuare a pensare. A essere davvero.
Intuizione, durata, coscienza, mutamento. Avevo queste parole mormorate contro il palato, capaci di aggiustare i pensieri, impazienti sulla punta della lingua mentre prendevo dalla libreria tre volumetti in brossura, invecchiati dal tempo e dalle numerose volte in cui li ho letti, portandoli con me sul divano. Li ho disposti uno di fianco all’altro come tessere di un puzzle.
Tre autrici, tre donne complesse, tre differenti mezzi espressivi. Poesia, monologo, sceneggiatura teatrale. Le ho viste, ognuna appiattita sopra il proprio libro, a guardare verso un punto diverso. Sylvia Plath, con gli occhi bassi, a seguire le dita premute sulla macchina da scrivere. Clarice Lispector, a osservare oltre, al di là di me e al di là dell’orizzonte, forse perdendosi, di sicuro cercandosi. Sarah Kane mi scrutava invece, pungente, con un sorriso simile alla smorfia prima di un urlo.
Sono morte, tutte e tre. Due per suicidio, una di cancro all’utero. Ma quello che rimane di loro è tutt’altro che spento: ogni loro parola scritta trasuda vita, urgenza di verità.
Sylvia Plath, questa donna americana dalle braccia sottili e dai gesti divampanti pare scalpiti tuttora dentro le proprie pagine, una giumenta incapace d’arrendersi. Alternava violenza a sacralità, ancora oggi non si capisce dove finisca il racconto apocrifo della sua vita e inizi la purezza delle poesie, dei suoi diari, del suo romanzo semi-autobiografico. Nella mia tassonomia letteraria personale, lei rappresenta la durata: era un continuo scrivere, per quanto intervallasse stanchezze e languori, un consumare marito matite e fogli e figli per testimoniare la vita interiore, per scappare da un passato che le correva dietro veloce e l’azzannava alla gola, per sciogliere in liberazione la figura del padre, del compagno, del fallimento. La scrittura era il suo specchio per misurarsi con i fatti della vita, i tradimenti del marito, il perenne senso d’inadeguatezza e di solitudine. Urlava, Sylvia, urlava e insieme si tappava le orecchie. Fino a uccidersi con la testa nel forno, ma questa è storia nota.
Clarice Lispector no, lei si muoveva su altre eleganze. Scriveva densissima, sfiorava le parole quasi come se stesse tessendo: tutt’oggi fluisce e cola inesorabile in un mutamento d’espressione che sfiora l’essenza dell’indicibile. Ogni sua frase è segnata da un’intensità viscerale e vortica intorno a un nucleo centrale pieno di vuoto e solitudine. Mi ha sempre ricordato una falena, una creatura notturna delicata e irragionevole che si schianta contro la prima luce. La fallibilità umana: non era debolezza per Clarice, era pretesto per scavare a fondo, estrazione del dolore. Si è fatta sangue e voce di tutti: per quanto narri vicende intime, sussurri veneri private, le protagoniste dei suoi romanzi siamo noi, nei nostri drammi molteplici. Noi, donne, persone disposte ad ascoltarla, ad ascoltarci. Dolorosamente.
Poi c’è Sarah Kane, feroce nel suo mettere in scena quotidiani scarni. Scelse la sceneggiatura teatrale come mezzo espressivo, a lei non bastavano solo le parole: necessitava di corpi, gesti, urti. Ha frugato nel dolore per cercare di non sparire, si è fatta concretezza per cacciare il rischio dell’assenza. Ha dato voce agli eccessi, è stata violenta e conflittuale raccontando di abusi ed estremismi. Eppure, nonostante sia stata additata come scioccante e sensazionalistica, Sarah parlava degli sconfitti, delle vittime, della tenerezza della carne molle. I suoi componimenti narrano di quel che rimane: le rovine, le oscene macerie del sé, unico scenario possibile da cui poter ripartire. Lei corrisponde all’intuizione, alla fame, a quei brandelli di speranza cui possiamo solo aggrapparci quando il resto è crollato, quando la vita s’inceppa nei suoi meccanismi.
Li ho accarezzati, questi tre libri, ho rabbrividito un poco. Ho pensato a una quarta donna, drammaturga anch’essa, di nome Phoebe Waller-Bridge, artista che è stata capace di farmi dire Oh e che rappresenta l’ultimo pilastro dei miei modelli artistici. Siamo sul piano televisivo, adesso, lei si è fatta attrice, regista, sceneggiatrice di alcune miniserie, ma non importa il mezzo quando riesci a entrare come una lama nel cuore della coscienza: con la sua Fleabag mi ha fatto assistere al dissidio tra quello che tutti vogliono essere e quello che si è. Eppure, nonostante la realtà sia sempre disallineata, lei riesce a brillare della consapevolezza che impara ad avere di sé e dei suoi errori, assurgendo il dolore a forza, l’inadeguatezza a riscatto.
Tutte e quattro loro, ognuna seguendo graffi e sfaccettature diversi – penso alle gocce di vetro che da bambina porgevo al sole e in cambio ne avevo arcobaleni sulle mani – sanno donare qualcosa d’irrinunciabile: la pratica d’equilibrismo necessaria per vedere se il solco dell’assenza può essere riempito con tutto il peso del resto, della vita che rimane. Imparare a trasformare la sofferenza in movimento è un’alchimia prodigiosa, una storia d’alta magia. Che importa se poi non si riesce nell’intento? È nel tentativo che dimora lo straordinario.
Il caffè è bruciato, nel mentre, ma non mi sono preoccupata. Ero con le mie amiche, specchio di pulsioni, in un gineceo intimo, prezioso e immortale come solo le grandi narratrici di vita sanno creare, al di là delle solitudini. Io mi limito all’ascolto.