Quando apre una mostra dedicata alla vita di uno scrittore, le nostre aspettative di visitatori si incanalano di solito in un’unica direzione (a cui il marketing promozionale contribuisce a dare sostanza): finalmente “entreremo nel suo studio” (o, declinato in uno slogan diverso, “toccheremo con mano la sua vita quotidiana e la sua pratica di scrittore”). In sostanza, pensiamo sempre che scopriremo dettagli segreti finora mai rivelati. E purtroppo, altrettanto spesso, quello che ci resta non corrisponde alle nostre aspettative: vuoi perché gli organizzatori hanno preferito focalizzarsi di più su maestri e influenze, o sul contesto storico; o magari perché mancava proprio quel dettaglio (quel manoscritto, quella penna, quel paio di occhiali) che da tempo immemorabile volevamo vedere, da bravi feticisti quali siamo come ogni fan che si rispetti.
Non ho provato nessuna di queste delusioni dopo aver visitato la mostra che la New York Public Library dedica a Jerome David Salinger, inaugurata il 18 ottobre e che rimarrà aperta fino al 19 gennaio. La mostra si trova al piano terra del bellissimo Schwarzman Building, la sede centrale della biblioteca, situato a pochi passi da Times Square, nel cuore di Manhattan. La mostra occupa una sola stanza, ma non bisogna fermarsi a banali apparenze che farebbero storcere il naso (“tutto qui?”): in quella sala, ho trascorso quasi tre ore senza accorgermi del trascorrere del tempo. Infatti, ai visitatori si presenta una vera e propria miniera d’oro di oggetti, così legati allo scrittore e all’idea che abbiamo di lui che – alla fine del giro – è come se lo conoscessimo davvero. Salinger è stato infatti uno scrittore tra i più amati del ‘900 ma, allo stesso tempo, uno che un giorno decise di scomparire dai radar della mondanità, letteraria e non. Lasciando che, a continuare a far parlare di sé, fossero le sue opere: dopo il famosissimo The Catcher in the Rye del 1951 (da noi divenuto Il giovane Holden), le Nine Stories pubblicate nel 1953, Franny and Zooey del 1961 e, per ultimo, il dittico Raise High the Roof Beam, Carpenters and Seymour: An Introduction del 1963.
Prima di tutto, la mostra ci fa conoscere chi era l’uomo: una serie di fotografie mostrano il giovane Jerome David – che venne al mondo il primo giorno del 1919 a Manhattan – durante l’infanzia, l’adolescenza all’accademia militare di Valley Forge in Pennsylvania e – soprattutto – durante gli anni della Seconda Guerra Mondiale. Fu, questo, un evento cardine: Salinger vi partecipò come soldato e, considerata la sua conoscenza di francese e tedesco, come membro di un’unità di intelligence. Oltre a essere paracadutato sulle spiagge della Normandia nel D-Day, partecipò a numerose azioni catturando svariati prigionieri e alla liberazione di un campo di sterminio, che in quanto ebreo lo colpì profondamente. Raccontano di lui, in quel particolare momento, tre oggetti: una fotografia, una lettera e una scatola di ricordi. La fotografia lo mostra mentre, in una pausa dai combattimenti, batte sulla sua macchina da scrivere portatile i racconti che inviava a svariate riviste, tra cui il prestigioso New Yorker. La lettera autografa è scritta di pugno da Ernest Hemingway, un altro scrittore americano impegnato come lui a raccontare la lotta contro i nazisti, che si congratula per il suo talento dopo averlo conosciuto di persona. Nella scatola di latta, invece dell’originario tabacco, ci sono mostrine, medaglie e altri oggetti (anche portafortuna scaramantici) del tempo di guerra. Sono tre elementi diversi ma emblematici della persona di Salinger: un uomo deciso a spendersi per cause che riteneva giuste senza mai però una briciola di autocelebrazione (quanto diverso da Hemingway). La scatola, per esempio, la teneva per sé e quasi nessuno ne era a conoscenza.
Se l’uomo non ci delude, lo scrittore non è da meno. Tra i dettagli della sua vita da scrittore, i più interessanti sono le lettere mandate da “Jerry”, come si firmava scrivendo agli amici (un nomignolo adottato ai tempi della scuola per integrarsi meglio con i compagni), agli editori e alla sua agente. Tra le tante, in una degli anni ’70, rispondendo a un avvocato che gli aveva chiesto di descrivere la propria professione, Salinger risponde di essere «uno scrittore che si occupa professionalmente di scrivere romanzi e racconti». Mentre, tra quelle inviate alla sua agente, le più significative provano la sua cura maniacale per i dettagli. Non per pignoleria fine a se stessa, ma perché Salinger era il primo giudice di se stesso, consapevole del suo talento: ciò lo rendeva particolarmente attento a captare i gusti del pubblico. Altrimenti, come avrebbe fatto a scrivere un capolavoro come Catcher in the Rye, con protagonista un ragazzino che si vuole comportare da adulto, agli inizi degli anni ’50? Salinger aveva capito – grazie alla gavetta, accumulata in ore e ore solitarie alla macchina da scrivere o con una matita in mano e forgiata da numerose lettere di rifiuto – l’importanza di quello che Gérard Genette aveva definito paratesto. Sono davvero interessanti, nonché bellissime da vedere, le lettere in cui disegna le proprie copertine, fornendo modelli e indicazioni per il font, la posizione del titolo, i colori, la fascetta di presentazione. Così come sono illuminanti le motivazioni dei giudizi tranchant con cui rifiutava le proposte degli editori, difendendo le sue prerogative e i suoi diritti di autore: gli stessi che negoziava minuziosamente con gli editori stessi (esposti sono anche tre contratti editoriali).
Infine, una parte della mostra è riservata ad accontentare anche gli appetiti più feticisti del visitatore. Ecco quindi la macchina da scrivere, l’orologio, gli occhiali da vista, il proiettore e le VHS (era un amante del cinema e aveva una stanza dedicata solo a quello), i mozziconi di matita gialla con cui sottolineava e correggeva bozze e libri, il dattiloscritto e le prime bozze di Catcher in the Rye. E, di nuovo, una volta esauritasi la sua espressione pubblica, troviamo un Salinger privato a cui difficilmente avremmo avuto accesso. Ci vengono presentati i rimedi omeopatici che seguiva e che suggeriva agli amici, le ricette dei cibi che preferiva (staccate dagli antelli della cucina a cui le aveva incollate per averle pronte alla bisogna), lettere e foto con ex commilitoni e loro parenti decenni dopo la fine della guerra, affettuosi rimbrotti nelle lettere al figlio al college, lo scrittore intento a coltivare il suo orto, i piccoli bigliettini con citazioni da libri che teneva sempre a portata di mano. E, soprattutto, una serie di fotografie dove – ormai anziano – si prende cura dei nipoti: queste sono le più belle perché lo mostrano sorridente a imboccare e tenere in braccio un nipotino, con cui guarda i cartoni animati. È un nonno come tutti, ed è anche uno dei principali scrittori del ‘900: due persone che tornano a coincidere.
Dopo quasi tre ore torno al presente di Manhattan. È un pomeriggio di freddo asciutto ma pungente, uno dei primi della stagione. Istintivamente, mi chiedo – come se lo chiedeva Holden Caulfield – se le anatre di Central Park siano già volate via, e se sì, dove stiano andando. Chissà se anche “Jerry” – che in famiglia si faceva chiamare Sonny – se lo sarà chiesto, passeggiando sui marciapiedi di Park Avenue (dove abitò con la famiglia, da ragazzo). Venire alla Public Library è stata una scelta azzeccata, oggi: non sono rimasto deluso. E il merito principale va al fatto che, a raccontare lo scrittore, più che la sfilza di edizioni straniere che fanno da cornice alla mostra, sia stata proprio la possibilità di toccare con mano il privato dell’uomo. Un uomo che ha attraversato un secolo scegliendo una professione, quella di scrittore, che gli ha consentito uno sguardo privilegiato. Una professione che però, allo stesso tempo, non ha mai esibito come un vanto o un privilegio, ma che si è preoccupato di onorare per tutta la vita nell’unico modo possibile: svolgendola al meglio delle proprie capacità.
Photo courtesy of the the New York Public Library, Astor Lenox, and Tilden Foundations, and the JD Salinger Trust.