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Curzio Malaparte e Armando Meoni. Un’amicizia nonostante



Tra gli scrittori italiani del Novecento figurano due nomi che, guarda caso, erano coetanei e concittadini, amici persino.
I pratesi Curzio Malaparte e Armando Meoni si conobbero da giovanissimi sullo sfondo del Convitto Cicognini, che tempo prima aveva ospitato Gabriele D’Annunzio, e per tutta la vita si chiamarono Curtino e Meonio. Malaparte (nato Kurt Erich Suckert, 1898) e Meoni (1894) non avrebbero potuto essere più diversi, per carattere, idee politiche, stile di vita. Eppure la loro fu un’amicizia disinteressata e solida, un’amicizia nonostante.

Entrambi col pallino della scrittura, cominciarono a esercitarsi sui giornali scolastici, poi sulle riviste, e così via, uno mantenendo un profilo basso, l’altro puntando a eccellere. Suckert era già determinato e affabulatore, Meoni non amava né le lusinghe, né la celebrità.

Il primo vero momento di rottura fu dopo l’estate del ’14, quando s’impose la questione della partecipazione italiana al conflitto: uno era neutrale, uno interventista. Chi fosse per cosa è presto detto, dato che fu Suckert a scappare di casa per correre da Peppino Garibaldi e i Cacciatori delle Alpi. Con l’entrata ufficiale in guerra, si arruolò volontario e visse tre anni in trincea. Meoni, invece, venne riformato più volte per oligoemia finché non fu impiegato come dattilografo.

Malaparte e Meoni

Si rividero a pace firmata. Secondo Meoni, Curtino «s’era fatto una testa e un incedere di circostanza» in cui era difficile riconoscerlo. In effetti, in quanto recluta del fascismo fiorentino, forte di una bellezza quasi femminea e di un’altezza non comune, Suckert era stato nominato segretario generale dei sindacati e si muoveva in politica come un uomo navigato. Formalmente Curzio Malaparte non aveva ancora tolto di mezzo Kurt Suckert, ma il cambiamento era in atto. Del resto pure Meoni era cambiato. Prima di partire per la guerra si era sposato, era diventato padre.

Un’altra differenza abissale tra loro: Malaparte visse sempre concentrato su se stesso, dedito solo alla propria missione di scrittore, senza farsi mai distrarre dal matrimonio o la famiglia, mentre Meoni convolò a nozze due volte ed ebbe tre figli. Per non parlare della carriera da scrittori: eclatante quella di Malaparte, decisamente meno celebre quella di Meoni, forse perché ancorata a una dimensione provinciale, più in armonia con il carattere schivo di qualcuno a cui non piaceva far rumore.

Meoni arrivò al romanzo nel 1933 con Creare (Mondadori), che fu accolto bene. Malaparte gli disse di raggiungerlo alla svelta a Roma, per battere il ferro finché era caldo. Ma invece di cambiare aria, l’amico cambiò editore, e con Vallecchi pubblicò: La Cintola (1935), Richiami (1937), Povere donne (1942), Il dono segreto (1945), L’ombra dei vivi (1949), fino a La ragazza di fabbrica (1951). In Italia il libro ebbe successo, anche grazie al clamore della denuncia di offesa alla morale, e pure negli USA, dove uscì in due edizioni. Tuttavia Meoni non fece mai della scrittura il suo mestiere, da buon pratese scelse il tessile, coltivando un po’ di politica. Scrisse nei ritagli di tempo, convinto che fosse più sicuro «vivere con le lane».
Malaparte disapprovava, per lui Meoni era uno scrittore vero, un uomo di fegato. Il fatto era che non faceva breccia. «Eppure Armando avrebbe le doti per fulminare. Forse ama troppo, e all’amore cede». Riteneva che un bravo scrittore dovesse assumersi delle responsabilità, essere libero da legami. Infatti lui fu sempre parco di affetti, difficile alle amicizie, anche maschili.

Due individui, quindi, profondamente diversi, ma con tante cose in comune. La passione per la letteratura francese, ad esempio, l’orgogliosa pratesità, e una certa intransigenza. La loro amicizia se la portarono dietro come un ricordo prezioso. Un legame che riecheggia nelle cartoline di Malaparte dai suoi viaggi, e nella missiva in cui comunicava di essere finito a Regina Coeli, e da lì confinato a Lipari: «Speravo di poterti rivedere a Prato […]. Pazienza. Ti saluterò tra cinque anni».
La pena gli fu ridotta e Malaparte finì di scontare il confino a Forte dei Marmi. Si rividero lì, durante una delle tante domeniche in cui Meoni partiva in macchina da Prato, spesso in compagnia di Alessandro Suckert, il fratello maggiore.

Malaparte e Meoni

Poi ecco un’altra guerra. Nessun contatto fino alla Liberazione, quando Meoni vide l’amico sfilare in città insieme alle truppe alleate. Riallacciarono i rapporti da uomini maturi, ognuno immerso nei propri problemi. Meoni, vedovo, stava per risposarsi e diventare ancora padre, Malaparte aveva furia di proclamarsi antifascista.

Meoni seppellì anche il secondogenito e confidò all’amico il rimpianto di aver fallito come genitore. Malaparte rispose dopo un lungo silenzio, forse perché, per una volta, persino l’uomo dalla battuta pronta non sapeva cosa dire. Lui, invece, viveva di eterne tribolazioni e polemiche. Diceva che il suo destino era di aver sempre tutti contro, meno gli amici, s’intende, e Meonio era il più sincero, il più fidato.

C’è da credergli. Del resto lo aveva incaricato di trovargli una dimora nel luogo tanto caro, a cui aveva sempre qualcosa da rimproverare, ma dove la memoria sempre lo riportava: Prato.

«[…] Io a Prato voglio bene, e anche ai pratesi. Sono migliori di tanti altri. Eppoi voglio bene all’aria, all’odore, alla luce della campagna pratese».
Voleva davvero bene alla città, ma quella della sua giovinezza, con un sapore preciso, di pane, di vino, di cenci ammucchiati ai lati delle strade. Il sapore delle cose perdute. Temeva che anche Parigi lo avrebbe presto stancato e, in fin dei conti, a Capri, a Roma, in Versilia si sentiva straniero. Desiderava sistemarsi in un’ideale casa di Prato, magari isolata e in poggio, e mai gli riuscì. Forse fu un bene. Come gli fece notare Meoni, la sua Toscana immaginaria era troppo bella.

I due continuarono comunque a incontrarsi per le loro ribotte, e a battibeccare con la franchezza di vecchi amici. Come quando Meoni gli fece notare l’attribuzione errata di “Salomè” a Filippino invece che a Filippo Lippi ne La pelle (1949), e Malaparte gli rispose in malo modo: come aveva osato pensare che proprio lui, pratese fin nel midollo, potesse essersi sbagliato tanto? Pare fosse un refuso saltato fuori in fase di revisione, ma non era famoso per ammettere volentieri gli errori…

Si avvicinava il crepuscolo. Malaparte gli confessò di sospettare di non avere più molto tempo e, difatti, Meoni lo salutò per sempre. Non in un’osteria, ma alla Clinica Sanatrix, dove sotto alla tenda a ossigeno trovò un Curtino agonizzante.

«Mi guardava ed ebbe una specie di ammicco. Impercettibile. Se ne andava in silenzio dopo aver detto tante cose. Allora tornai ragazzo e sapevo che anche lui tragicamente, in quel momento, stava tornando ragazzo. Sia lui che io rivivemmo in un attimo la nostra esistenza di adolescenti, di uomini e di scrittori. Ma il resto non contava più, contava solo l’adolescenza.».

Malaparte morì il 19 luglio 1957 sotto i riflettori. La salma venne seppellita sul monte Le Coste, un cocuzzolo ventoso e solitario, Spazzavento, appunto. La sua Terra Come Me.

E vorrei avere la tomba lassù in vetta allo Spazzavento
per poter sollevare il capo ogni tanto e sputare
nella fredda gora del tramontano.

Da allora sono passati 65 anni. Malaparte diceva che i pratesi non lo avrebbero mai davvero capito, né amato, che gli avrebbero messo una lapide sulla sua casa natale e tanti saluti. Aveva ragione. A mancare non è la lapide, piuttosto lo studio di un intellettuale così geniale e complesso.

«Lo abbiamo messo in cima a un monte, ora bisognerebbe riportarlo in città».

Anche Meoni andrebbe riportato “in città”. Già anziano, a Prato dedicò una ricca quadrilogia, non da storico, ma testimone.

«La città è come una donna, vi si nasca o ci se ne faccia adottare donna è: conquista solo se conquistata. Una conquista che prima di tutto domanda amore, e non fatuo o d’occasione: senza di che rimane impenetrabile, t’accorgi di muovertici dentro senza peso, in un vuoto pneumatico che ti impedisce di rendertene conto. La conquista di una donna renitente ai desideri facili, ai tentativi di chi non sappia intenderne certi segreti pudori, che non ne solleciti o ne trascuri le virtù essenziali […].»

Si spense come aveva vissuto, in silenzio, il 23 novembre 1984. Voleva che le sue ceneri fossero sparse sul Bisenzio, ma la pratica era (e resta) illegale, quindi andò al cimitero. Quattro anni dopo la svolta, invece dell’urna la famiglia trovò un biglietto anonimo. Meoni era dove doveva essere.

Non poteva che chiudersi così la parabola di due uomini e scrittori di tanto diversa fortuna ed estrazione: tra il fiume e la montagna, a ridosso di una valle ventosa, con la tramontana che soffia e l’acqua che scivola a valle, lì dove più che altrove riecheggia forte quell’amicizia schietta e solida, un’amicizia tutta pratese.



Photo credits
Immagine di copertina – Andreas Weilguny tramite Unsplash
Ritratto di Armando Meoni – Comune di Prato
Ritratto di Curzio Malaparte – autore sconosciuto

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