Ho sempre visto le opere di MP5, le ho sempre incontrate in luoghi, contesti, tempi diversi, su copertine di libri o riviste, lungo le città, Bologna o Napoli, solo per citarne due, su manifesti o muri, in luoghi specifici per istallazioni specifiche. E sono molto ammirata dell’effetto che fanno raccolte in un unico volume: Corpus, edito da Rizzoli Lizard, a cura di Jacopo Gonzales, con un testo critico di Ilaria Bonacossa e una conversazione con Alessandro Sciarroni.
Corpus raccoglie una scelta dell’attività artistica e della ricerca di MP5 negli ultimi anni, dagli esordi sulla scena underground negli ambiti della pittura e del muralismo, fino alle collaborazioni più recenti tra politica, letteratura e teatro. Sono contenute nel libro un centinaio di immagini, su quasi cinquecento, opere che in molti casi vediamo spesso nei manifesti sui social o nella città, ma anche molte opere che non esistono più perché nate per installazioni temporanee o luoghi in mutamento nelle città.
Sfogliando questo libro, avanti e indietro, o aprendolo in ordine casuale quasi a volersi stupire ogni volta con un dettaglio che era sfuggito, sembra che ogni opera, ogni immagine, sia un fotogramma di una narrazione, di un racconto visivo, un fermo immagine di qualcosa che sta accadendo, ogni opera dunque, in quanto fermo immagine o fotogramma, ha un prima e un dopo, sta in una narrazione, e che nella fissità dell’opera c’è molto divenire, un sacco di futuro. Come se ogni immagine contenesse in sé un dialogo con il passato ma soprattutto un dialogo costante con il futuro.
In queste pagine, nella narrazione che queste pagine compongono, sempre diversa a seconda dell’ordine di scorrimento, ci sono moltissimi corpi e molti occhi e talvolta degli animali, sono fermi in un gesto, in un momento preciso dello svolgersi di quel gesto. Che forma hanno? Certo, forma di corpi, ma a guardare con attenzione ognuno è un corpo che parla il linguaggio della tecnologia, della scienza, ma che oltre a ciò sono corpi che per costruirsi attingono anche al pozzo dei sogni. Sono corpi che infrangono la schiavitù dell’immaginario, quella schiavitù che impone che ogni parte del corpo stia dove e come deve essere e che esista solo in virtù di chi lo guarda.
Sono corpi che non parlano di identità precostituite, non parlano di diversità, di apparenza o appartenenza, sono corpi che guardano ai ruoli biologici e sociali come dati della storia, del passato.
Corpi nomadi che si compongono nel loro viaggio, nel loro nomadismo, che ricostruiscono le loro radici nel loro nomadismo, sono schegge di identità ed è sempre una identità in divenire. Parlano della pluralità dello stare al mondo.
Le figure, i corpi, nelle immagini di MP5, riportano al corpo del postumanesimo, e, finalmente, ribaltano due versi scritti dalla poetessa e artista Mina Loy che, un secolo fa, nella sua lunga riflessione artistica, in versi e in opere visive, scriveva: «Occhi di mille donne / fissi sull’irrealizzabile»; ribaltano perché gli occhi delle figure di MP5 sono fissi sul futuro, su ciò che si sta realizzando, sul divenire, perché sono il fermo immagine di una narrazione che va verso il futuro e con esso dialoga.
Alcune immagini hanno molto spazio vuoto attorno, intendo con spazio vuoto uno spazio senza figure e solo nero o bianco, di altro colore, in questo si percepisce molto una forte vicinanza con la poesia, una poesia in quanto atto di impegno civile. La poesia lascia molto spazio libero attorno al testo nella pagina, permettendo alla lettrice e al lettore di mettere se stesso in quello spazio, di aprire un dialogo, una interazione. Come rannicchiarsi là sopra, o a lato, di una figura di MP5 e sentirsi parte di un divenire, di un futuro.
Immagine di copertina da Corpus di MP5