Anche noi, come gli alberi, invecchiamo inanellando il tempo intorno alla nostra giovinezza. Ogni cerchio che accumuliamo è un limite che imponiamo a noi stessi per far parte del mondo degli adulti e riuscire ad adattarci alla giungla sociale. Diventare solidi significa per ognuno di noi costruirsi una corteccia in cui accumuliamo, anno dopo anno, fatica, compromessi, verità taciute, bugie bianche, sopportazione. Nell’interazione quotidiana con il mondo siamo organismi in costruzione. Cerchiamo, dandoci sostegno a vicenda, di scacciare pericoli che ben conosciamo e che sono capaci di sconvolgere il delicato equilibrio nel quale sviluppiamo la nostra fragile forza. Vecchiaia e follia: da soli, questi due giganteschi temi sono capaci di far saltare gli equilibri sociali, poiché il rapporto con essi è spinoso individualmente almeno quanto lo è collettivamente. E sono temi intimamente connessi, poiché di fronte alla prospettiva di una vita organica che si allunga grazie alla scienza medica, si apre uno squarcio sull’incapacità della mente di reggere alla vita fisiologica dell’organismo di cui è parte. Siamo pronti a concepire che il corpo invecchi, ma ci spaventa immaginare la perdita della lucidità, della memoria, dell’apprendimento e, in definitiva, del pensiero cosciente.
«Chissà qual è il contrario di ageista? Chissà perché in questi tempi di politicamente corretto non è stato ancora creato un termine apposito per la discriminazione delle persone giovani, le stesse sulle quali la politica non punta solo a causa della loro età»
Mentre sempre più statistiche ci restituiscono un’Italia che invecchia in modo inquietante e “trascura” politiche di tutela dei più giovani (dal salario minimo alle residenze per gli studenti, dai servizi per la conciliazione alle tutele per le partite iva, dalle barriere d’ingresso professionali all’attuazione di ius soli e ius culturae), è come se la cultura e i media fossero impegnati in una comune azione rassicurante di rimozione collettiva degli scenari realistici della vecchiaia. Perdita graduale dell’autonomia, peso e costi della cura, assenza di politiche pubbliche di assistenza domestica, estenuanti dimensioni di non-vita: questi scenari, sperimentati da un numero sempre maggiore di cittadini e famiglie, vengono sostituiti dall’immaginario a cui appartengono sceneggiati come Nonno felice e Don Matteo: prodotti di grande successo che mettono al centro di storie quotidiane una vecchiaia fatta di grande energia fisica, presenza intellettuale, integrazione sociale e riconoscimento famigliare. Lo diciamo spesso: siamo un paese che fatica a misurarsi con la realtà, a partire dai dati statistici; siamo una nazione che preferisce credere nei miracoli che impegnarsi per affrontare problemi collettivi con la mediazione. Questa difficoltà di dibattito e confronto si rispecchia nel modo tutto nostro con cui utilizziamo i social (con polarizzazione tra sessismo e disinformazione), con un sorvegliato speciale: Twitter, nato per fare informazione decentralizzata e diventato per l’Italia il più affidabile strumento per realizzare una vera e propria mappa dell’odio sociale costantemente aggiornata.
Ed è proprio su questa piattaforma esplosiva che divampa la vicenda su cui si avvita Vecchiaccia, secondo libro di Fuani Marino. Un libro che segue e in qualche modo continua il suo esordio Svegliami a mezzanotte, diventato nel frattempo un film documentario presentato al 40mo Torino Film Festival e distribuito in sala da Luce Cinecittà. Come già nel primo libro, Fuani Marino maneggia i generi letterari con una libertà sfacciata, disegnando un suo personale percorso narrativo che in questo lavoro ibrida l’instant book con il memorandum, il saggio con l’autofiction. E, come già nel suo primo lavoro, l’autrice si pone di fronte ai lettori rifiutando a priori l’autorevolezza della voce narrante, la rassicurazione della fabula, la coerenza compiuta della memoria.
«Mi irrita la supponenza di chi non è mai caduto» scrive. Una frase che acquista una forza disarmante, alla luce della sua propria storia, che il docu-film restituisce mischiando immagini di archivio e riprese originali, nelle quali il corpo di Fuani galleggia sospeso a pelo d’acqua. Un’immagine che ci restituisce la difficoltà di non affondare, prima di tutto dentro se stessi; la sospensione in equilibrio tra due dimensioni dell’esistenza: controllo e incoscienza, consapevolezza e oblio, fiducia e pericolo. Quando la intervisto, mi dice a proposito del film:
«Con il regista Francesco Patierno, abbiamo già presentato nei cinema delle principali città italiane. Credo che il racconto arrivi ancora più diretto al pubblico, è il potere delle immagini, delle musiche e dell’immenso materiale d’archivio.»
Certamente, sono d’accordo con lei. Ma nei racconti di Fuani c’è una forza “altra”, partecipata da autrice e lettorǝ insieme, che dallo schermo del cinema e dalle pagine inerti del libro dirompono nell’ostinata ricerca di dialogo tra una persona con una lunga e articolata diagnosi di fragilità psichiche e i singoli soggetti che compongono il corpo collettivo che chiamiamo pubblico, ognunǝ con le proprie ragioni, la propria storia, la propria sensibilità. Le stesse ragioni che hanno scatenato una vera e propria shit-storm al tweet pubblicato da Fuani Marino durante il primo lockdown in cui l’autrice scriveva lapidaria: «Stiamo sacrificando cose imprescindibili come il diritto all’istruzione, la socialità, infine l’economia di un paese in nome degli over 75».
Twitter si indigna. L’Italia bloccata in casa si indigna. I libertari dei social si indignano. La stampa riprende la notizia. Perfino l’editore di Fuani non vede con favore quest’inattesa celebrità, che riposiziona la sua autrice, esiliandola dall’altare delle vittime per spedirla dritta nella gabbia dei cuordipietra. Cosa fare quando uno dei più potenti media ti costringe a riscuotere i tuoi quindici minuti di celebrità? Fuani fa due cose: si rifiuta di cancellare il tweet e cerca di capire.
«La scrittura è per me uno strumento di comprensione. Ho pensato allora che risalire all’origine dell’intolleranza, tentando di guardare dove affonda le radici, mi avrebbe aiutata».
Così nasce Vecchiaccia, della cui anarchia stilistica ho già detto poco sopra. Un libro se possibile ancora più sincero e intimista di Svegliami a mezzanotte, che partiva dalla peculiare esperienza della sua autrice per diventare una sorta di diligence sull’Italia e il disagio mentale, in particolare quello delle donne. In questo secondo lavoro, quasi senza accorgercene, come un minotauro mendace, Fuani Marino ci trascina nuovamente tra le stanze della sua vita irregolare e disequilibrata, attirandoci con una riflessione sull’odio per la vecchiaia e approdando, infine, a un ambiguo autodafé:
«Credo, semplicemente, di odiare i vecchi perché già mi ci sento, vecchia. Lo sono diventata di colpo. Di fatto sono qui, ma non dovrei esserci. Se solo il mio cuore avesse smesso di battere. E invece no».
Con il pretesto di presentare il suo primo libro, ho avuto il piacere di passare con Fuani abbastanza tempo per ritrovare l’intelligenza indisponente e acuta che avevo scorto tra le pagine. Nessuno meglio di lei può raccontare questo nuovo lavoro così personale, così anarchico e così capace di sollevare temi scomodi. Così, le ho chiesto di aiutarmi a trovare le parole giuste.
È stato un libro di lunga gestazione e i movimenti al suo interno non sono casuali, c’è un crescendo dovuto anche al fatto che la protagonista si accorge di essere lei stessa la “vecchiaccia” che odia. Così come sono correlate le dimensioni di cronaca personale e saggistica, anche analisi, autocritica e letteratura lo sono per me. Inevitabilmente cerco di comprendermi e di comprendere la realtà attraverso ciò che leggo e ciò che scrivo. È per questo che nei miei libri viene dato molto spazio ai libri degli altri.
Come già in Svegliami a mezzanotte, anche qui il tema della relazione con il disagio psicologico oltre gli stereotipi finisce per diventare il perno della narrazione.
Credo che quello della salute mentale sia un tema potenzialmente enorme perché in gran parte inesplorato, soprattutto se lo si considera dal punto di vista del paziente. Non dimentichiamo che solo a fino a cinquant’anni fa io non sarei qui a rispondere a interviste ma rinchiusa in qualche manicomio probabilmente a vita. Credo che ogni singola persona o celebrità che dichiari in pubblico il proprio disagio rappresenti un piccolo passo in avanti rispetto a qualcosa che per secoli è stato negato e frainteso e di cui ancora oggi spesso si parla in maniera inappropriata.
Dopo il tuo fortunato esordio, Vecchiaccia ci fa intravedere un’autrice che si pone al centro della sua opera, in una sorta di autonarrazione quasi in presa diretta. Non posso non chiedertelo: è una strada intenzionale?
Non da un punto di vista letterario. Ma se guardiamo al cinema, Woody Allen o Nanni Moretti hanno costruito la loro poetica interpretando sempre lo stesso personaggio (ovvero loro stessi). Sicuramente per fare autofiction bisogna rendere se stessi dei personaggi, e in questo senso il mio racconto potrebbe andare avanti a oltranza.
Chiudendo il libro, mi è rimasta una curiosità: dopo tutto quello che è successo, com’è oggi il tuo rapporto coi social network e con la rete?
Purtroppo trascorro sui social molto più tempo di quello che vorrei, e tuttavia non li rinnego: credo facciano parte della nostra realtà e che, per quanto nocivi, difficilmente riusciremo a liberarcene.
In copertina, fotografia di Matt Bennett su Unsplash