Non ci sono colpevoli. Non ci sono innocenti. Un colpo di pistola, quello sì. E, soprattutto, uno sterminato squallore metafisico. Questo, poi, c’è il Veneto.
Il Veneto di Prevedello, di Franceschi Luciano, di Borgoricco, della Lega, della favola padana, dei metallari, dei maiali e dei ladri di maiali, della produttività, dei moscerini. Dei fallimenti. Dei suicidi. Che è lo stesso Veneto che conosco io.
Più invecchio e più scopro il mio legame con una regione da cui sono in fuga da anni. Borgoricco non è troppo lontano da uno dei paesi dove ancora abitano i miei. Più ho tentato di andarmene e più questa regione, con la sua lingua, le sue storie, le sue contraddizioni, mi è capitata davanti. Sarà che certe radici non si possono estirpare, sarà che sono lontana, sì, ma sempre impantanata in terra padana, ma sono invasa dallo stesso incosciente, inconsapevole senso di soffocamento, quello capace di cancellare qualsiasi futuro se non ben instradato all’interno dei più sfrenati immaginari capitalisti. Sarà che siamo – tutti, non solo i nati veneti – stanchi, provati e che «la gente […] si adatta a tutto, è incredibile, ma è così. La gente si adatta a vivere in posti assolutamente invivibili, come del resto si adatta a respirare un’aria irrespirabile e a mangiare del cibo immangiabile» (Vitaliano Trevisan, I quindicimila passi, Einaudi), ma Una rivolta. Orizzonti e confini del Nord-Est (nottetempo) è una spina che mi è rimasta conficcata lì, tra palato molle e parole, dove vanno a finire le cose non dette, i ricordi stinti e tutto quello a cui abbiamo rinunciato.
Enrico Prevedello, rincorrendo un’ossessione, ci riconsegna una verità priva di giudizi, ce la racconta senza esitazioni o vergogna, così come i suoi protagonisti hanno creduto, vissuto e lottato. Eccola, allora, la dichiarazione di guerra che, da subito, ci permette di comprendere la psicologia di questa rivolta: «Io, Franceschi Luciano, in qualità di combattente di San Marco per la liberazione delle Terre Venete dall’invasore italiano, intimo alle forze occupanti di lasciare pacificamente tutti gli uffici amministrativi, politici, giudiziari e finanziari. Visto le inosservanze da parte delle più alte cariche istituzionali compreso lei, presidente della Repubblica Italiana, del rispetto dell’autodeterminazione dei popoli sancito dai patti internazionali, le dichiaro guerra».
È un atto di sopraffazione questo Una Rivolta: afferra per le spalle, ti impedisce di rimanere voltato altrove, ti spalanca lo sguardo. Su come «il Veneto non è più quello che lavora, ma […] quello dei capannoni coi tetti smontati e buttati via, ché così non si paga l’imu, ché le altre tasse ti fanno chiudere i pugni e la crisi del 2008 ha fatto impiccare il suo amico impresario edile», su come gli argomenti di conversazione, sin da piccoli, sin da subito, vertano sempre attorno al lavoro, all’imprenditoria, alla superproduttività («quello di cui parlavo con i miei compagni di asilo era soprattutto il lavoro dei nostri padri. Facevo fatica a seguire le discussioni da imprenditori dei miei coetanei») e su cosa possa significare, in un ecosistema così, essere amputati della possibilità di farla, questa impresa che funge da ragione di vita primaria, che, alla fine, nessun monco si disabitua mai al gesto ovvio e si finisce impiccati alle scale oppure in banca a sparare.
Su come la Padania sia un’invenzione tutto sommato recente e a fini che oggi diremmo di storytelling – che altro non è che strumentalizzazione e non narrativa contemporanea di cui assistiamo, giorno dopo giorno, alla crisi, in favore di opere di convincimento e mere informazioni, come ben inquadra Byung-Chul Han (Seoul 1959, scrittore e professore di filosofia e studi culturali) ne La crisi della narrazione (Einaudi) – di come questo storytelling per accaparrarsi voti ad ogni costo si sia rivelato tradimento di chi, come Franceschi Luciano, ci aveva creduto, ci aveva dedicato una vita, una libertà.
Su come siamo stati tanti capaci di entusiasmarci di fronte al caso linguistico-giudiziario rappresentato in Anatomia di una caduta (2023), ma non sappiamo o abbiamo dimenticato la richiesta di Luciano di «svolgere il processo in lingua veneta, il giudice acconsente ma […] la stenografa meridionale non sa come scrivere. Franceschi viene condannato».
Sulle condizioni di carcerati che, in cella, stanno più stretti di maiali. Su come, quando esiste «una versione di mondo ufficiale, più forte perché accettata e vissuta dalla maggioranza, è facile che questa cancelli l’altra: basta un’accusa di eresia, la carcerazione, un ricovero psichiatrico, a volte anche solo una risatina che riduce al ridicolo l’altro». Su come questo sia successo in Veneto, in Italia, su come «chi ha potere sul territorio subisca la violenza di chi non lo ha», su cosa ti annoda una corda al collo, su cosa ti mette in mano una pistola.
«Borgoricco sta male, lo si vede dai fossi» ci dice Prevedello. Di Vicenza, delle altre piccole province italiane tutte uguali, dove non c’erano rockstar, ma disperazione molta ci parla Scomazzon (La paura ferisce come un coltello arrugginito, nottetempo), così come di lutti «vissuti nel silenzio e, spesso, nella vergogna (vale lo stesso, forse, per i figli dei suicidi)» in un’intervista a Il Tascabile. Il barchin, l’importanza della realizzazione personale, un adolescente senza futuro in una laguna sconsolata ce li mostra Yuri Ancarani nel film Atlantide. Tutt’attorno, echi di «mal de ła piera» (Works, Einaudi) e «periferia diffusa» (Tristissimi giardini, Laterza) di Trevisan. Prevedello vuole trovare un perché a un movimento preciso, esatto nel tempo, ma finisce per innestarsi in un quadro più ampio pennellato di persone che maldisperano in una regione che è una pianura, che anche è Catalogna e Scozia e Galizia e Paesi Baschi e Canarie e Corsica e Fiandre e Baviera e terre sottratte ad aborigeni australiani. E riesce Prevedello venendo a patti con le ombre «che ci escono dalle teste per mettersi in un angolo e guardarci da fuori mentre dormiamo ci amano, come un padre che non riesce più a parlare».
Impossibile è non distinguere, e inequivocabilmente, il senso di responsabilità, che rischia di ammutire ma non riesce, nel raccontarci una storia sicuramente sua, inconfutabilmente nostra perché è di esseri umani che si parla, di persone che vivono, muoiono, decidono di lottare, preferiscono non farlo più.
«Se sono morti, penso, allora vuol dire che non esistono più. E se prima non se ne parlava vuol dire che in un certo senso non esistevano» (Vitaliano Trevisan, I quindicimila passi, Einaudi): Una rivolta fa sì che esistano, ora e per sempre.
In copertina: raduno dei Serenissimi, 2009