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Chi ha prodotto Il danno scolastico? Riflessioni sulla crisi della nostra scuola



Ho condiviso e condivido molto di quanto la collega e scrittrice Paola Mastrocola va scrivendo e denunciando da anni, in perfetta solitudine, sulla scuola italiana, su quella liceale in particolare, dove sia lei che io, nel medesimo e lungo arco di tempo, abbiamo insegnato. Condivido anche gran parte di quello che ha scritto di recente in collaborazione col marito Luca Ricolfi nel saggio a quattro mani Il danno scolastico. La scuola progressista come macchina della disuguaglianza (La Nave di Teseo, 2021). Non posso giudicare ovviamente nel metodo le dimostrazioni statistiche di Ricolfi che accompagnano e confermano, a mo’ di complemento scientifico, le testimonianze e le riflessioni della moglie, ma non ho motivo di contestarne i risultati, tanto più che corrispondono perfettamente alle osservazioni della mia esperienza personale di insegnante di liceo maturata proprio negli ultimi quarant’anni, quelli presi in considerazione dai due autori di questo libro.

danno scolastico

Confesso però (o perciò) di aver provato un po’ di tristezza nel leggerlo. Perché, se si parla di scuola, so bene che contestare oggigiorno in nome della realtà effettuale la sinergia micidiale di ideologia dominante e di propaganda di stato è un infruttuoso “suicidio”. Mi vengono in mente quei soldati o quegli ufficiali valorosi di cui narrano Cesare o Sallustio o Livio: quelli che di fronte alla sconfitta ormai compiuta del proprio esercito si gettano eroicamente in medios hostes, nel folto dello schieramento avversario, cercandovi una morte certa ma gloriosa. Peggio succede oggi a quei pochissimi che osano criticare la scuola di massa in nome di una scuola di qualità. Non solo sono destinati a essere ignorati o calpestati dalla canea arrogante dei vincitori, ma non viene loro neanche minimamente riconosciuto, come avveniva invece a quei combattenti antichi, il rispetto per i loro ideali o l’onore delle armi. Anzi, succede per lo più che siano disprezzati o vilipesi o infangati come protervi, ottusi e frustrati reazionari che tentano di disturbare i manovratori della gioiosa macchina dell’istruzione moderna per sabotarne le magnifiche realizzazioni. Non si riconosce alle loro prese di posizione neanche il beneficio della dignità morale, né della autenticità testimoniale.

I due autori, per dirla in breve, denunciano nel loro libro il disastro culturale, didattico e metodologico della scuola attuale. La accusano di rinunciare a formare i ragazzi nei tempi giusti con i contenuti e i metodi adeguati; di rinunciare cioè a chiedere loro, con il necessario rigore e con l’abitudine all’esercizio e alla sistematicità dello studio, quello che la scuola del passato, quando la collaborazione tra istituzioni e individui e l’alleanza tra famiglie e docenti esistevano ancora, riusciva a chiedere. Sostengono e dimostrano, a mio parere con ragione ed evidenza, che gli effetti deleteri di questa colpevole rinuncia ricadono soprattutto sugli studenti meritevoli delle classi sociali più deboli.

Paola Mastrocola, in particolare, tesse ripetutamente un accorato elogio delle virtù formative della letteratura. Un tasto a lei caro e su cui (etimologicamente) consento, senza riserve: leggere, commentare e discutere in classe (per poi parafrasare, riassumere e rielaborare individualmente per iscritto) i testi di grandi poeti, drammaturghi e romanzieri è una pratica che permette, se fatta con sensibilità e pazienza, una educazione sentimentale ed esistenziale (oltre che linguistica) non surrogabile altrimenti. Eppure, ha ragione lei, la grande letteratura non si studia e non si approfondisce più nelle nostre aule, almeno in questo modo. 

Che in generale la scuola di oggi insegni ed esiga, qualitativamente parlando e a partire soprattutto dalle medie inferiori, molto meno che qualche decennio fa è un dato innegabile. Come è di conseguenza incontestabile che la preparazione media di un diplomato o di un laureato di oggi sia notevolmente inferiore rispetto ad allora, almeno sul piano delle conoscenze e della cultura complessiva.

Tuttavia è difficile affermare che questo declino sia il frutto esclusivo della politica scolastica italiana recente, che pure ha in proposito (come dirò più avanti) gravissime, gigantesche responsabilità. La crisi di fondo dell’istruzione è un fenomeno comune a tutto il mondo avanzato, un portato della trasformazione profonda dei rapporti – politici e istituzionali, economici e sociali, generazionali e familiari – iniziata alla fine degli anni sessanta. 

Questa trasformazione ha fatto sì, in soldoni, che la scuola pubblica non sia più una istituzione cui si affida l’istruzione e l’educazione dei giovani accettandone metodi e principi, giudizi e regole, ma una agenzia cui si richiede di erogare un servizio personalizzato, che non è più soltanto di istruzione ma anche e soprattutto di intrattenimento, di gratificazione e di accudimento; ragazzi e famiglie sono di conseguenza, sotto questo nuovo profilo, clienti da soddisfare comunque, ognuno nelle proprie individuali esigenze.

Questa rivoluzione ‘concettuale’ del rapporto tra scuola e famiglie ha colpito, da noi, più duro che altrove. Da noi infatti esiste(va) nel sistema di istruzione superiore una punta avanzata che non ha corrispettivi precisi altrove e che ha contribuito in passato a formare le classi dirigenti e medie della nostra società: i licei, classico e scientifico. La scuola liceale era quella che meglio preparava all’università. Quella che attuava di più metodi e programmi propedeutici all’istruzione accademica e al tempo stesso costituiva un filtro molto severo e selettivo rispetto agli accessi dalla scuola media inferiore. La rivoluzione “concettuale” di cui sopra ha minato presto le basi della scuola liceale. L’ha costretta lentamente ma inesorabilmente ad avvicinarsi alla scuola media, ad adattarsi (per non perdere iscritti) ai suoi metodi, ai suoi obiettivi e alle sue caratteristiche; insomma, a snaturarsi a poco a poco. Oggi i licei classico e scientifico (soprattutto il primo) vivono una crisi di identità piuttosto allarmante: da un lato conservano ancora tratti consistenti e resistenti della loro fisionomia élitaria originale, dall’altra (per non spaventare o deludere la clientela) tendono a ‘ibridarsi’, ad aggiungere cioè numerose attività nuove e attraenti ma estranee alla loro tradizione e ai loro obiettivi originari. Il classico, ad esempio, è diventato un pesante e variopinto carrozzone su cui, oltre al greco e al latino, sono stati caricati, come seducenti e luminosi addobbi pubblicitari, percorsi, iniziative e progetti della più varia natura, col risultato che molti studenti non riescono più a coltivare a dovere lo studio delle lingue classiche né a beneficiare del metodo rigoroso che ne giustificava in passato lo studio, in sé piuttosto ingrato.

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Paola Mastrocola e Luca Ricolfi

La crisi e la ‘medializzazione’ strisciante dei licei ha prodotto di rimbalzo un inevitabile e progressivo loro scollamento, almeno a partire dagli anni novanta, dall’università. La quale a sua volta, non avendo più alle spalle un liceo capace di fornirle iscritti all’altezza dei suoi standard, ha dovuto giocoforza (come lamenta Ricolfi) ‘liceizzarsi’.

Ora, gli autori di Il danno scolastico hanno ragione da vendere nell’affermare che nei vari ordini della nostra scuola non si insegnano più a dovere tempestivamente, cioè all’età giusta, contenuti e metodi di volta in volta propedeutici allo stadio scolastico successivo e che pertanto tutto l’edificio scolastico tende a collassare su se stesso: e che solo i ragazzi più dotati e più ricchi, in questo contesto, riescono a sopperire meglio a questo drammatico tracollo formativo.

E tuttavia mi pare che Mastrocola e Ricolfi lascino un po’ nell’ombra, nelle loro analisi, proprio le radici profonde del problema, limitandosi soprattutto a osservarne e a deprecarne le conseguenze negative più vistose.

Le radici della ‘malascuola’ stigmatizzata dagli autori sono, a mio parere, almeno due.
Della prima e più profonda, quella che si nutre proprio di quella epocale rivoluzione “concettuale” o mentale del rapporto scuola-famiglia, ho già parlato sopra, così come del fatto che essa riguarda (in quanto tipica della mentalità consumistica di massa) un po’ tutte le società dell’occidente.
La seconda, quella che alligna più specificamente nel terreno di casa nostra, è la pedagogia di stato aziendal/catto/socialista dominante da noi negli ultimi decenni. Vale a dire quella visione e quella gestione della scuola che – rispecchiando e assecondando servilmente proprio la diffusa mentalità “mercantilistica” della customer satisfaction – non accetta più che si sancisca nero su bianco una verità di fondo, ovvia e universalmente condivisa in passato, ma oggi rimossa e rigorosamente tabù: non tutti gli studenti sono per natura uguali, ovvero adatti o interessati ad affrontare a livelli alti le materie tradizionali di studio. Perciò questa pedagogia propone, favorisce o impone da tempo, per parte sua, anche alle scuole superiori (con le buone o con le cattive) amputazioni, banalizzazioni, sostituzioni o annacquamenti dei contenuti e dei metodi. Una reductio ad faciliora inevitabile per chi pretende di tenere a tutti i costi insieme un binomio utopico, bello e impossibile: la scuola di massa e la conservazione (almeno formale) al suo interno di discipline che sarebbero di per sé adatte solo a una parte degli studenti. Una scuola superiore e universitaria di massa così assurdamente concepita e forzosamente realizzata non può essere, di conseguenza, che un inganno e una finzione. E la sua sopravvivenza formale non può che reggersi su due stampelle principali: l’abbassamento drammatico del livello di preparazione, per l’appunto, e l’innalzamento artificioso dei voti di profitto. La colpa più grave della politica e della dirigenza della scuola è stata quella di non aver voluto né saputo, non dico arrestare, ma almeno contenere la richiesta di “mercantilizzazione” della scuola superiore entro argini compatibili con l’educazione e l’istruzione più autentiche; e di aver invece demagogicamente cavalcato e spesso anticipato questa richiesta con riforme scriteriate e demenziali (scimmiottando a man bassa, per altro, modelli anglosassoni).

Molto più sensato sarebbe stato, invece, volendo salvare saggiamente capra e cavoli, distinguere con più coraggio e più nettamente, dopo l’obbligo, i percorsi di studio. Accenno qui solo a un’ipotesi di ragionevole “riforma” in questo senso. Chi ha capacità e volontà di proseguire all’università potrebbe frequentare un liceo più teorico e specialistico, magari con percorsi opzionali e differenziati al suo interno. Chi volesse avviarsi presto al lavoro potrebbe frequentare un tecnico o un professionale. Chi volesse altresì proseguire con una acculturazione generale di base potrebbe frequentare una sorta di scuola media avanzata (una soluzione che per altro la stessa Mastrocola, se ricordo bene, aveva suggerito in Togliamo il disturbo). In pratica però la strada di una riforma simile (e più seria) della scuola superiore non è stata mai intrapresa, perché si è sempre preferito, demagogicamente, ribattezzare col nome di ‘licei’ molti ordini di scuola vecchi e nuovi che con gli standard liceali non avevano nulla a che fare; e abbassare altrettanto demagogicamente nei fatti, con mille forzature striscianti che li stanno snaturando e avvilendo, gli standard dei licei tradizionali.

Contesto però che questo sfascio e questa omologazione siano da addebitare esclusivamente alla “sinistra progressista” (uso a ragion veduta le virgolette…). La quale “sinistra” porta certamente una buona metà, forse anche di più, delle responsabilità del degrado della nostra scuola perché ha coperto e giustificato ideologicamente (spalmandola con una vernice di efficientismo e intridendola di una melassa catto-socialista) la sua metamorfosi pseudo-aziendalistica e mercantilistica. Ma questa metamorfosi è, nella sua essenza, intimamente di destra, quantomeno di quella destra neo-liberale e ultraliberista che negli ultimi venticinque anni ha governato a lungo e ha egemonizzato non poco i media e l’opinione pubblica, contaminando e seducendo anche ampi settori della sinistra.

Sostengo insomma, a differenza di Ricolfi e di Mastrocola, che lo sfascio della nostra scuola sia un delitto perpetrato in perfetta e complementare complicità dai due attori principali della nostra scena politica.

Questo spiega bene perché gli sparuti oppositori di questa deriva siano sempre risultati – come dicevo all’inizio – una minoranza invisibile, senza voce, senza onore e senza nessuna rappresentanza. Pochi, pochissimi insegnanti e intellettuali. Senza la Mastrocola (senza la notevole risonanza – veicolata dalla sua fama di scrittrice – dei suoi pamphlet sulla scuola) questo residuale moto di resistenza sarebbe passato del tutto inosservato e sarebbe stato destinato a una completa damnatio memoriae. Ecco perché a leggere i suoi libri sulla scuola, compreso quest’ultimo, insieme a una profonda gratitudine ho sempre provato anche un po’ di tristezza.



Photo credits
Illustrazione copertina di Francesca Paola Turco (@frappati)

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