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Chi era la persona sotto il velo. “Il libro di Aisha” di Sylvia Aguilar Zéleny

L’autrice messicana Sylvia Aguilar Zéleny ci parla del libro in cui racconta la storia di sua sorella Patricia, che si è convertita all’Islam e ha indossato il velo

È uscito lo scorso 5 giugno per Ventanas Edizioni Il libro di Aisha della messicana Sylvia Aguilar Zéleny. Un altro esordio per la piccola casa editrice indipendente nata nel 2023, dopo l’argentina Alejandra Kamiya e la spagnola Ilu Ros. 
Il romanzo racconta la storia di Patricia, sorella della scrittrice, che durante un soggiorno di studio in Inghilterra si innamora di un integralista islamico e decide di convertirsi e di tagliare i ponti con il suo passato e con la sua famiglia. Un collage di testimonianze, lettere e aneddoti attraverso i quali, nei decenni successivi, Sylvia Aguilar Zéleny cercherà di scoprire chi è in realtà quella sorella che non ha mai avuto modo di conoscere davvero.
L’autrice ne parla su Limina, in una chiacchierata con Serena Bianchi che lo ha proposto e tradotto.

Sylvia, finalmente anche i lettori italiani potranno conoscere te e la tua storia. Perché, come abbiamo anticipato, Il libro di Aisha è fortemente autobiografico. Benvenuta intanto. 
La protagonista è tua sorella Patricia che, dopo aver sposato un mussulmano integralista, si trasforma nella devota e velata Aisha. 
Partiamo da un breve cenno sulla copertina. La foto è storica, scovata tra i capolavori in bianco e nero di Lehnert & Landrock, molto attivi nel Maghreb tra gli anni Dieci e i Trenta del secolo scorso. Non vuole quindi essere didascalica ma colpire, sconvolgere, come l’esperienza di Aisha e di tutta la sua famiglia. Cosa pensi della scelta di Ventanas?

È stato proprio questo l’effetto la prima volta che l’ho vista: mi ha sconvolto. Ho faticato a digerire quell’immagine e la mia prima reazione è stata non approvarla. Poi ho pensato che era la stessa impressione che mi aveva fatto vedere mia sorella coperta – nel suo caso non il viso, lei copriva “solo” tutto il corpo fino ai polsi e la testa – ricordo bene quanto fu difficile e strano vederla così. Non era più lei, almeno non la lei che ricordavo. Accese in me una grande curiosità di capire il suo nuovo modo di vestire e chi fosse la persona sotto quegli abiti. Ecco perché ritengo che la copertina, proprio per il fatto di essere così inquietante, sia senza dubbio coraggiosa e appropriata.

Ricardo Piglia, che non a caso tu citi in esergo, ha scritto «nessuno ha mai fatto buona letteratura con storie familiari». Eppure da sempre sono le storie familiari a coinvolgerci di più. Non solo tua sorella, anche i tuoi genitori e i tuoi fratelli sono i protagonisti di questo romanzo. Come hanno accolto il libro?
I miei genitori non ci sono più, e nemmeno uno dei miei fratelli. Soltanto Patricia ha letto il libro. Prima però vorrei dire che quando è emersa l’opportunità di pubblicare il romanzo e le ho chiesto il permesso, lei mi ha detto una cosa che è il presupposto di base di questa esperienza: il libro è tuo, è su come tu hai vissuto e sentito la mia assenza. Credo che mia sorella abbia capito che per me scrivere di lei è stato inevitabile.
Quando alla fine ha deciso di leggerlo, mi mandava messaggi su WhatsApp chiedendomi “È andata davvero così? L’ho detto io? Come fai a ricordartelo?” È stato molto divertente. Ora vuole che scriva la seconda parte, “perché sappiano come sto adesso”, e io le chiedo “Sappiano chi?”. “Beh, i miei fan”. Non so come sia passata dalla quiete dell’Islam a sentirsi una rockstar.
Tornando a ciò che dice Piglia «nessuno ha fatto buona letteratura con storie familiari», io aggiungo: eppure abbiamo bisogno di scriverle, poco importa se sono buone o no, ci sono, esistono, sono nostre e sono attraversate da questioni sociali, culturali, di genere.

Il libro ha avuto una gestazione lentissima e ha richiesto un lavoro lungo anni. È molto diverso dal suo progetto iniziale? Te lo domando perché la sensazione che ho avuto, traducendolo, è che tu abbia proceduto per sottrazione. È andata così?
È davvero molto diverso, totalmente diverso dal progetto iniziale. Era un romanzo-romanzo, stile Ottocento, con tanto di narratore onnisciente, struttura lineare e tutto il resto. Faceva più appello all’immaginazione. C’erano paragrafi e paragrafi molto didascalici, quasi didattici. Fino a quando mi sono resa conto che appoggiarmi alla finzione era come mettere un ulteriore velo sulla realtà, come continuare a mantenere il segreto sulla vita di mia sorella. Tacere, in pratica.
La cosa migliore che potesse accadere al romanzo era ritrasformarlo in un contenitore e poi riempirlo con il materiale che avevo: le conversazioni, i ricordi, gli oggetti, le fotografie e la mia curiosità di scoprire la storia di mia sorella. E coprire quello che non c’era, quello che non avevo visto, con una narrazione più speculativa, partendo, cioè da quanto avevo o conoscevo.
 La versione attuale non spiega, si limita a mostrare, allude, lascia che i lettori abbiano un ruolo attivo, che ricostruiscano la storia attraverso i brani narrativi, poetici o documentali delle mie pagine. Così sono passata da un manoscritto lunghissimo e noiosissimo a questo libro più breve e, voglio credere, più profondo.

Anche il titolo in principio era diverso, Distancia, se non sbaglio. Perché in fondo quello che racconti è l’assenza, il dolore, il vuoto e il modo in cui ognuno di voi ha cercato di abitarlo. Il grande interrogativo è come mai una ragazza come Patricia, pronta a salire sulle barricate per i diritti civili, degli studenti, delle donne, abbia scelto di rinnegare tutti i suoi valori per amore di un uomo. In fondo la tua ricerca è finalizzata a scoprire non dove si trovasse, ma chi fosse tua sorella. Eri solo una bambina quando Patricia è partita, per questo, forse, sei quella che ha avuto meno pregiudizi sulla sua scelta di diventare Aisha?
Oh, e io che pensavo che quel titolo terribile sarebbe stato dimenticato per sempre! 
Il titolo era A Distancia (A Distanza) e si riferiva non solo alla distanza tra la vita scelta da Patricia e quella a cui eravamo abituati in famiglia, ma anche alla lontananza fisica e culturale che ormai c’era tra di noi. Non ho mai pensato che l’assenza di pregiudizi nei confronti della sua scelta fosse dovuta alla mia età di allora, ma è possibile, è il fascino dell’infanzia, quando socialmente non ci hanno ancora riempito di questioni morali così opprimenti. Quello che posso dire è che, più che giudizi su di lei, avevo una grandissima curiosità: in Messico a quei tempi non avevamo alcun tipo di contatto con l’Islam, se non attraverso i documentari, perciò era così strano vederla così.

Il libro è pura autofiction ed è frutto di un lungo lavoro di ricerca, anche interiore, sull’identità e sulla differenza. Presumo che in tutti questi anni anche tu sia cambiata: quanto era diversa la Sylvia che ha avuto l’idea di scrivere il romanzo da quella che ha approvato l’ultimo giro di bozze?
Che bella domanda, grazie per averla fatta.
Credo che all’inizio volessi scrivere su mia sorella come un modo per comprenderla, perché era una storia così poco comune nel mio contesto socio-geografico. Negli anni in cui scrivevo, smettevo, tornavo a scrivere, in Messico è iniziata un’ondata di terrore femminicida. I casi di violenza domestica e oppressione maschilista sono aumentati a dismisura (o forse, e questo mi rattrista ancora di più, c’erano sempre stati, ma ora, semplicemente, avevano maggiore visibilità). Questo mi ha fatto ritornare al romanzo con un’altra prospettiva, ho capito che la storia di mia sorella va oltre l’Islam, ho capito che la sua storia è quella di molte donne.
La Sylvia degli inizi aveva cominciato a scrivere perché sentiva la mancanza della sorella, la Sylvia che ha approvato l’ultima bozza si era formata nel tempo una visione femminista e l’idea, forse ingenua, che un libro sia uno statement e possa scatenare dibattiti su argomenti necessari in tempi così violenti.

Nel libro c’è anche un’altra sorella, quella di Sayyib, il marito di Aisha. Una donna che nasce in una famiglia musulmana, con un padre e un fratello integralisti, e che si ribella allontanandosi non dalla religione, ma dalla sua deriva estremista. Il suo percorso è diametralmente opposto a quello della protagonista. Esiste davvero quella sorella, è così come la descrivi? Se sì, hai ancora rapporti con lei?
La sorella esiste, sì, ma nella vita reale la sua ribellione è stata diversa da quella del personaggio: ha abbandonato l’Islam, ha studiato medicina, si è resa indipendente dalla famiglia e si è costruita una vita da sola. Non ho mai avuto contatti con lei, la sua storia mi è arrivata attraverso mia sorella e solo in piccoli frammenti che poi ho sviluppato in un arco narrativo. Nel costruire la sua storia credo di essermi basata su quelle di amiche che, come lei, hanno dovuto disimparare per poter imparare.

Di recente anche in Italia, come nel resto del mondo, abbiamo assistito al grande successo di Cristina Rivera Garza con L’invincibile estate di Liliana. Lei, insieme a Fernanda Melchor, Nona Fernández e altre autrici sudamericane, hanno avuto il merito non solo di trattare il tema della violenza sulle donne, ma anche di costruire il linguaggio con cui parlarne. Tu racconti una violenza che è stata reale ma alla quale non hai assistito: l’hai presunta, immaginata. E hai optato per una scrittura che lascia molto in sospeso. Quali esigenze narrative hanno guidato questa tua precisa scelta stilistica?
È proprio così, a me è toccato osservare quel che restava delle violenze dopo la separazione, oltre che vivere altre esperienze in prima persona all’interno delle mie relazioni. Ma raccontarle significava mettere nella testa dei lettori immagini precise, instradarli, e invece mi è sembrato più efficace (e terribile) lasciare che fossero loro a mettere insieme i pezzi. Mi piace pensare che i miei libri partano da ciò che scrivo ma poi lascino ai lettori un ruolo attivo. Da qui l’importanza della sottrazione, come l’hai chiamata tu. Anche la speculazione è importante, non so come una tal cosa sia avvenuta nei dettagli ma, siccome conosco chi ha partecipato, posso immaginare che probabilmente sia andata in un modo o in un altro. Per una scena del genere si parte da ciò che si sa. Si chiude con ciò che si può sapere.
Nel caso di L’Invincibile estate di Liliana, per esempio, credo che mostrarci la scena del crimine ci mostri il crimine stesso. Di nuovo, si parte da quello che c’è, si specula su ciò che potrebbe essere accaduto.

Il prossimo anno, possiamo dirlo, arriverà in Italia, sempre pubblicato da Ventanas, un altro tuo romanzo, Basura.  Lì le protagoniste sono tre donne. Ci puoi anticipare qualcosa? 
È curioso, Basura e la versione finale di Il libro di Aisha sono stati scritti nello stesso periodo. Un libro mi accompagnava nell’altro. Non si somigliano per niente e tuttavia hanno qualcosa in comune: il mio interesse nell’andare a fondo nella la vita delle donne. 
Basura intreccia le vite di tre donne le cui esistenze sono molto diverse tra loro: una ragazzina che vive nella discarica municipale di Ciudad Juárez e grazie a quella sopravvive, una dottoressa che sta proprio indagando e raccogliendo interviste delle persone che vivono lì e una donna trans, lavoratrice sessuale che si prende cura di altre donne come lei. 
Mi piace credere che sia un romanzo che invita a riflettere su ciò che scartiamo – in senso letterale e metaforico – sui legami di cura, sulle frontiere, su ciò che dobbiamo fare per raggiungere quella strana condizione che chiamiamo felicità e stabilità.






Photo Credits
Copertina – Foto di Azka Yasfa Fauzan su Unsplash



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