Quello scannare, con gli spallacci del grembiale tesi sui muscoli tesi, è per il calmo, non per il furente. «Cercare di non spezzare alcuna parte, alla maniera di un cattivo macellaio», dice nel Fedro il Socrate di Platone, senza portar la lama a contatto con l’osso, chiede misura. Anche ricommettere, poi, come fa Dario Voltolini in Invernale, edito da La nave di Teseo.
Il padre vive spaccando bestie al mercato, secondo la naturalezza pietosa dei rituali inevitabili, addomesticati ma con molto sangue. L’autore – docente alla Holden Academy, scrive dal 1990 – gl’impara i gesti, soprattutto i silenzi, e dopo la malattia e la morte li risalda fuori dal tempo comune.
La Torino degli anni Ottanta brulica solo nel sabato leopardiano, nell’assalto della piazza: la bolgia, l’accrescimento vitale tra animali accoppati. Lì inizia il romanzo, fotogrammaticamente, nella presa diretta convulsa e martellante (la mannaia, lo straccio, la bilancia, i soldi…) che pare di stare á la ligne di spalla a Ponthus. Qui, avanti al dito mozzato e alla contaminazione, sembra tutto integro, ancora. Dopo, l’opacità, il disequilibrio, lo scendere giù.
«È una discesa non tutta nel tragico: c’è un contraltare di consapevolezza ed eleganza», racconta Voltolini, «e questo è il libro più importante della mia vita, nel punto centrale, della mia vita. Sto discosto ma sono lì, col mio nome: non c’è finzione se non in quel che immagino pensasse mio padre, uomo taciturno». Così inventa dei lacci nerboruti, tendini magari, a schidionare i fogli sparsi di un’esistenza, tendendoli in disordine per una narrazione intuita, una costellazione nuova.
Quando «il macellatore arriva, con suoni cadenzati come di ventilatore difettoso» – apre la testa dell’agnello «che sembra guardarti con le sue pupille che non vedono nulla», dilania il capretto, il pollo, il coniglio – fa l’emissario. Di qualcosa che lo sopravanza, e gli dà legittimazione e insieme tenerezza, verso un compito atavico che lo inchioda all’ultimo passaggio ante-civiltà, in zona primeva, buia del fuoco che cuocerà.
Non sta qui il dramma «babbo-biografico»: V. descrive la ganciera su cui penzola il perimetro dell’incedere paterno, una crocefissione come altre, solo cadenzata tramite coltellone; qui tuttavia è da rintracciarsi la fibra del carnefice per convenzione, capace di tenersi, gentile, sul fendente e ferirsi giusto il corpo. I colori – grasso, ossa, muscoli – hanno sfumature lucide e forti: Soutine, e Bacon, che i mattatoi li vedeva ovunque («che altro siamo, se non potenziali carcasse? Quando entro in una macelleria, mi meraviglio sempre di non esserci io appeso lì, al posto dell’animale»).
La vera dedica, la consacrazione, si traccia altrove.
«I mesi, gli anni di guerra dentro di lui, sono in attesa di una più riassuntiva interpretazione»: eccola. Precipita neanche tanto piano da quel «serbatoio nuvolare (…) a cui futuri attingeranno per fantasticare nell’illusione del sogno le proprie allucinazioni», adesso. La sommatoria di percezioni, ricordi e déjà-vu portano alla composizione del mito familiare – discretamente, con sbigottimento –, nell’apparizione sinestetica a chiamata, a gettone, di lui; come pigiasse involontario un bottone nascosto che rianima l’anima di Gino, Dario assiste allo sfilare dei suoi frammenti arcani, ne fa pira. Sotto quei bagliori da falò rupestre, delirando e preveggendo, emerge in ologramma il capobranco, mentre avvista un punto e resta nella lontananza imperscrutabile, come fosse per sempre.
Ma prima. I fatti hanno un decorso, la cui risalita serve a fissare il presunto inizio della lunga fine. L’incidente al mercato, quando la falange si disgiunge dalla mano e «il sangue di lui si mescola a quello freddo della bestia», diventa la sorgiva del diluvio; risveglia l’anarchia dei germi, brulica la «vita dei batteri infine liberati, come schiavi dopo il crollo dell’impero», presto qualcosa d’alieno trapela enfio, più nobile del pus, della suppurazione: «Un incremento della sacralità e del rispetto» incontro al carcame animale, e l’affrancazione, come cedesse un confine addosso a un modo di permanere più poetico che pratico.
Nel mezzo, gocciolando avanti, l’interregno dell’astenia («ma allora la stanchezza, o per meglio dire, questa specie di noia che lo prende?»), preludio strascicato del morbo; è freddo il rintocco del tempo oramai diverso – i giri in auto a vuoto, la paralisi del pensiero, sfocature e zoomate contro-narrative, riflessioni concentriche –, poiché si indugia in una dilatazione palpitante («tu non è che la pensi, questa attesa, tu non so nemmeno se la vivi o la subisci o la abiti: forse (…) tu semplicemente la sei»).
Alla foce aspettano la malattia e la sua battaglia breve. Voltolini maneggia con iperrealismo il sentimento di surrealtà proprio a chi pagaia quelle rapide, diritto in trasfusione alla cascata ferale dove i visi deformano, le bocche schiumano ma la matrice resta illesa – non sempre, a volte, qui sì – uguale al primo conio, col suo dignitoso scintillio.
La morte arriva veloce, asciuga tutto. Al dio di prua, forse, in secca, quarant’anni dopo V. allora domanda niente. Chiama a ‘Nino, in alto, la pioggia metafisica d’un’altra stagione.