Si vive di fortune raccontate, cantava Ivano Fossati. O, più spesso, di fortune mancate. A patto che le si sappia raccontare, con l’esattezza senza pietà e piena di cuore con cui lo fa Giorgio Ghiotti al ritorno al romanzo. Dal 10 gennaio è in libreria, per Hacca, Casa che eri. Con Aldo Lanari, capelli rossicci e occhi di pietra, la penna raffinatissima dello scrittore romano incide la ferita della solitudine di chi si trova ormai nel tempo in cui il tempo delle promesse dell’infanzia è scaduto insieme all’arrivo di un’età adulta che non le ha avverate. Quattro anni dopo Giulio, protagonista del precedente romanzo Atti di un mancato addio scomparso irrimediabilmente come l’infanzia – l’eredità (pur senza legami) che ne resta è una rete di legami sfaldati dalle soglie della vita adulta e dai suoi progetti, sopraggiunti a tradire un idillio che non è altro che la maschera goffa di una solitudine che tocca in profondità chi la riconosce. Aldo è ormai chiamato a fare i conti con un tempo della vita, i quarant’anni, in cui la stanchezza incipiente eppure già irrimediabile ha preso il suo spazio. Aldo Lanari fa il giornalista senza volerlo, incontra e rievoca ragazzi perduti senza desiderarli. Osserva la vita mentre accade, la vita che potrebbe essere. Quella di Vittorio, caporedattore lievemente cinico e di Michel, che costruisce gabbie per uccelli che contengono solo cielo. Quella di Caterina, incinta di una figlia che, nella sua natura di futuro possibile, porta in sé una traccia di passato pieno di voci – si chiamerà Dacia – che può essere accudita soltanto come attesa, da un mondo che forse non è pronto a vederla arrivare. E quando il mondo non è pronto, non è detto che le cose sappiano accadere, né le vite iniziare.

Con questo romanzo, Ghiotti fa un passo oltre il confine esplorato nei lavori precedenti, e avanza verso il buio. Tratteggia, con la grazia del poeta e la verità dell’acuto lettore del mondo, la struggente resa di un’età che non pretende – libertà e dono della letteratura – di fotografare un tempo storico soltanto, né, tantomeno, di giudicare una generazione. Piuttosto di dare voce a un silenzio. Quello di chi osserva la realtà dal silenzio di una colombaia, che per quanto luminosa possa essere rimane la galera di uccelli privati della forza per volare. Dal fondo di quella solitudine non può che sorgere un rancore senza nome, spietato e infantile, per chi – al contrario di lui – si accomoda o si rassegna al tempo che passa, si consegna al dovere di crescere, invecchiare, cambiare, quale che ne sia il prezzo. Come accade a Luisa, amore assoluto come solo possono esserlo le appartenenze senza definizioni – quelli che in un romanzo precedente ha chiamato testimoni – che commette l’imperdonabile tradimento di rompere il patto tacito di fermare un tempo inesorabile. Così Alessio Patriarca e con lui la rottura dell’antico idillio, riempie il vuoto che nel romanzo precedente la scomparsa di Giulio aveva lasciato come possibilità. In queste pagine, l’esito è invece, per Aldo, un orrore che non può più eludere. La rottura di una simbiosi che – inevitabilmente – non può che produrre, agli occhi di Aldo e non solo, un disastro di infelicità che Alessio maschera da amore per Luisa. Ad Aldo non resta che una gelosia impotente, dolorosa e bambina, che il lettore non può non riconoscere ma – se gli somiglia, ed è più consueto di quanto si creda, neppure biasimare fino in fondo. La penna di Ghiotti è uno specchio tagliente, capace di restituire tutta l’intima solitudine di cui è fatto il presente, ma anche la tersità di un romanzo pieno di misura e di lampi di classe in cui si riconoscono i riverberi della grande letteratura del Novecento, ma soprattutto gli echi – al lettore il gusto di individuarli tutti – delle voci di figure amate, evocate in virgolettati che li adombrano quanto basta a farne una lingua segreta, a cui non serve dire più di così, perché «meglio essere persone affidabili che fedeli. Io sono la persona più affidabile che conosco». Aldo Lanari esige invece una fedeltà che mitighi, o nasconda dietro una risata venata di sarcasmo e di giudizi sprezzanti l’angoscia per la paura antica dell’abbandono, sottopelle, e «il sospetto d’essere amato per altro, un’intercessione, la paura di vedere tutti in una sola posizione: di spalle, pronti ad andarsene».
Con questo romanzo, Ghiotti si conferma non soltanto narratore di razza (a più di un decennio dal suo debutto non ha, probabilmente, più bisogno di dimostrare granché) ma straordinario sommozzatore dell’animo, delle domande «enormi e ridicole» che solo nelle sue pagine trovano cittadinanza nelle bocche dei ragazzi suonando perfettamente coerenti con i loro pensieri. E mentre loro si domandano che cosa sia la grazia, la scrittura di Ghiotti li illumina e li nobilita anche quando loro per primi non mantengono le proprie promesse. Di che cos’altro, in fondo, si nutre l’amore, in tutte le sue forme, dall’amicizia alla devozione, se non di dettagli a cui, tutto il resto viene fatto, ostinatamente, “coincidere”? L’unico modo di tenerli insieme, allora, pare suggerire, di far avvenire questa perfetta sintesi, è raccontarla: è fare esistere chi amiamo, chi abbiamo amato e il tempo non ci ha dato di trattenere, nelle parole che disegnano ricordi venati di struggente tenerezza, trasformano i gesti in simboli e ne moltiplicano i significati. Dentro una Roma «disgraziata e commossa» come i protagonisti da cui Ghiotti la fa abitare, Casa che eri tocca, come logica conseguenza dello slancio che animava i lavori precedenti, il nucleo dolorosamente ardente di fallimento, solitudine, perdita e sincerità di cui è fatta la vita. Lirico e sapiente, è tuttavia un romanzo più doloroso dei precedenti, almeno per chi riconosca in sé, a prescindere dall’anagrafe, i germi di questo esito. Si tratta, tuttavia, di un dolore a suo modo taumaturgico, perché sono romanzi come questo ad avere la capacità unica di accompagnare ciascuno a fare i conti con la propria somiglianza con Aldo Lanari. Sapendo però che la scrittura fa esistere ma non trattiene, che gli amori si compiono di gesti prima che di parole e che talvolta quei gesti esigono di aprire le mani, di ritmi nuovi dopo le corse a perdifiato e gli affanni con cui tutti, in una stagione della vita, abbiamo nutrito maldestramente il sogno di non mancare agli appuntamenti con la vita. Perché, con la dolcezza di una scomparsa o la violenza dello strappo di un corpo da un altro corpo, quando un’epoca finisce un’altra ne inizia: si tratta assumersene la responsabilità. Di scegliere, cioè, quale sarà la nostra risposta al futuro.