Non ho mai avuto la possibilità di conoscere Maria Corti di persona, per quanto il suo nome sia stato una delle presenze nei miei anni universitari, accostato soprattutto agli esercizi di filologia che per me, arrivato a Milano nei primi anni Ottanta, suonava come una parola rara, una specie di malattia da nascondere o da fuggire. Fino a un certo punto – un buon tratto di permanenza a Milano – Maria Corti, alle mie orecchie, si associava a polverose questioni di archivi, a un cifrario nobile ma inaccessibile (com’erano appunto le famigerate carte del Fondo Manoscritti di Pavia), riservato a pochissimi, privilegiati intimi. Poi tutt’un tratto, non ricordo dove e come, mi ritrovo Maria Corti in televisione, finalista a un premio letterario con il suo Cantare nel buio, un libro che già nel titolo, con quel predicato all’infinito e il complemento di un luogo misterioso come il buio, restituiva un che di epico e solenne. Non credevo che una filologa potesse scrivere un romanzo, tanto più se l’argomento riguardasse quella Lombardia umile e operaia che mattina e sera percorreva la pianura padana a bordo di treni cigolanti e arrugginiti.
Quella descritta nel romanzo era una Lombardia che sentivo assai più amica di tante altre, una terra leggendaria ed esigente, dove il lavoro occupava il primo posto nei pensieri degli uomini ed era tutt’altra cosa rispetto all’immagine che mi ero fatto nel tempo, al cospetto di fabbriche, ciminiere, mense, capannoni, tetti a sega che stavano sempre nei racconti di chi tornava per le ferie al mio paese d’origine. Fabbriche, operai, ciminiere, mense, capannoni sarebbero stati i metodi e i fantasmi – uso due parole contenute nel titolo di un suo saggio – di una tradizione culturale e antropologica a cui mi sarei legato per sempre. Non voglio dire che Cantare nel buio sia stato una specie di ponte in grado di traghettarmi sulle questioni della letteratura industriale, però sono sicuro che le sue pagine, così evocative e rapite da un alone di meraviglia, hanno avuto un ruolo nel farmi pensare alla vita operaia non solo in termini di fatica, sfruttamento, rabbia, conflitto. C’era nei capitoli-racconti un qualcosa di inammissibile nella letteratura dedicata al mondo del lavoro ed era la possibilità che i pendolari, durante le trasferte di andata e ritorno sulla linea Brescia-Milano, tra i vapori della campagna e la nebbia, potessero maturare un sostrato di pensieri poetici, tentare la via di una autocoscienza, sentendosi eredi di altri eroi che in quella stessa geografia cangiante avevano dato origine a scorribande militari, a peripezie avventurose nel grande labirinto di rogge e pioppi.
A quell’epoca non conoscevo ancora i libri di Gianni Celati e le foto di Luigi Ghirri, forse i migliori narratori della condizione di pianura, ma Cantare nel buio assumeva la forma di una inaspettata sorpresa perché dava l’estro di pensare a un’umanità sotterranea e invisibile, quella che accompagnava il sorgere e il tramontare del sole scrutando l’orizzonte piatto di una terra ricca d’acqua e desiderosa di sacrifici. «Accadeva nella pianura lombarda a certe ore: quando nel crepuscolo ondate di nebbia facevano sparire e ricomparire la campagna, una cosa nera fuori del comune entrava e usciva dalla nebbia»: il libro comincia con queste parole. La «cosa nera fuori dal comune» era il treno composto di carri bestiame, su cui viaggiavano gli operai pendolari tra Brescia e Milano. Già questa immagine mi restituiva il sentimento di un’epica ritrovata, di cui forse io stesso andavo alla ricerca per avere conferma della mia identità di persona perennemente in fuga. Ma il segreto di questo libro non si esauriva nella nebbia e nel treno. Maria Corti narratrice voleva farmi salire a bordo dei vagoni merci dove si ammassavano i suoi personaggi. Chiedeva a me lettore di fermarmi ad ascoltare i ragionamenti dei pendolari che nascevano dalle loro voci appannate dal sonno (il mattino presto) o affaticate dalla giornata (la sera, al ritorno) ed erano quelli i segni di un’Italia umile che nel lavoro cercava e trovava la ragione per cui esistere con dignità, per cui sentirsi necessari al mondo, indispensabili nell’epoca in cui erano stati chiamati alla vita. Tutto questo determinava una parvenza di verità universale: nessuna esistenza è inutile e niente respira senza il respiro degli altri, come se il popolo di cui facevano parte i suoi protagonisti fosse una sconfinata ragnatela di nomi, di volti, di destini. Lo scrive nell’ultimo dei capitoli, quello che dà il nome al libro: «Prima o poi la loro storia diventerà causa di altre storie; e tutte insieme faranno la storia dei poveri del mondo». Ognuno di noi è parte di una storia che ha ricevuto e che continua come un filo nelle mani di un sarto, come la trama di un tessuto.
La mia epica – l’epica che aspettavo di trovare in quegli anni nel reticolato matematico della grande pianura – si componeva di intrecci messi insieme da una mano che chiamiamo caso, eppure non lo è. Un legame misterioso mi portava agli scrittori americani di cui mi ero nutrito fino ad allora: Faulkner, Steinbeck, Caldwell, Hemingway. Anche i loro libri erano affollati di treni più o meno simili a quelli descritti da Maria Corti, sicché una strana euforia mi prendeva mentre attraversavo le pagine di Cantare nel buio ed era la sensazione di trovarmi al cospetto di un’altra America, pianeggiante e fumosa come la pianura padana, altrettanto popolata da individui maestosi nell’affrontare la fatica, nel credere che il lavoro è resurrezione e la modernità non è una condanna perenne. «Cominciò un fischiettare nel fondo del carro, una decina di fischi, una voce, diverse decine di voci, da cui venne fuori quasi a insaputa di tutti un coro» – è così che si conclude la storia di questi pendolari –. «Cantavano più giovani e meno giovani, anche i restii quella sera mossero le labbra, entrarono nella società delle voci. Il canto era lento, all’apparenza indolente, ma faceva pensare alla brace che resiste accesa tutta la notte sotto la cenere del camino». Non sarebbe capitato mai più, una volta terminato il libro, che io attraversassi la pianura a bordo di treni senza che le voci dei viaggiatori, nel mio scompartimento e anche in altri, non somigliassero al brulichio dei carboni nel fuoco.
Questo brano è estratto dal volume “Viaggiatori del cielo. Omaggio a Maria Corti”
(Mattioli 1885, a cura di Benedetta Centovalli)