Nel 1981, risorto dopo otto anni di “castigo” (fra il 1973 e il 1980 la RaiTv aveva trasmesso solo la serata finale), il Festival di Sanremo tornava a essere la più importante manifestazione musicale italiana. Per l’occasione, volendo dare una patina culturale all’avvenimento, nei commenti dei giornali si citò molto Marcel Proust: «Detestate la cattiva musica, non disprezzatela. Dal momento che la si suona e la si canta ben di più, e ben più appassionatamente, di quella buona, ben di più di quella buona si è riempita a poco a poco del sogno e delle lacrime degli uomini». Ma forse, per riconoscere un valore culturale al Festival nato nel 1951, non c’era bisogno di andare a scomodare Proust. Bastava leggere con un po’ più di attenzione i testi per scoprire che, molto spesso, dietro al fiume di parole scorse in così tanti anni si potevano trovare lasciti letterari, allusioni colte, citazioni da poeti. Molto per il riaffiorare di lontani ricordi di scuola e un po’ per il consapevole uso di parole dei classici, assumendo Dante, Petrarca e Leopardi come i tre principali autori del canone da cui attinge un po’ tutto il canzoniere italiano del Novecento e degli inizi di questo secolo. Con il libro Tu chiamale, se vuoi… Citazioni, echi, lasciti letterari nelle canzoni italiane (Archinto, 2019) di cui qui sotto si pubblica un estratto, ho avviato la ricerca sulla presenza del nostro patrimonio letterario nella musica leggera.
PS.: Negli anni più vicini a noi, salvo rare eccezioni (Francesco Bianconi dei Baustelle, ad esempio), i testi delle canzoni non presentano più citazioni o allusioni letterarie. Perché? Difficile rispondere; certo l’alluvione di parole del rap/trap riguarda solo il qui e l’ora, evocando spesso un disagio sociale che non richiede altra lingua che non sia quella del parlato più giovane. Anche in testi di sapore più privato, esistenziale, si preferiscono espressioni di uso corrente combinate però in giochi di parole, che si vorrebbero intensi e sono solo nonsense. Due esempi ce li offrono i vincitori di talent-show che hanno trionfato a Sanremo: «Come se un giorno freddo in pieno inverno / nudi non avessimo poi tanto freddo perché / noi coperti sotto il mare a far l’amore in tutti / i modi, in tutti i luoghi, in tutti i laghi» (Valerio Scanu, 2010); oppure: «Mentre il mondo cade a pezzi, io compongo nuovi spazi» (Marco Mengoni, 2013).
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Fra Shakespeare e Dante
Fece effetto, nell’inverno 1960-61, ascoltare Are You Lonesome Tonight di Elvis Presley e scoprire che nel lungo inciso parlato si citava Shakespeare: «You know someone said that the world’s a stage and each must play a part». Che era la versione un po’ rimaneggiata del celebre monologo di Jacques, nell’atto II di As You Like It: «All the world’s a stage, and all the men and women merely players». Se i francesi cantavano normalmente i versi di Prévert e Villon, di Paul Fort e Verlaine e perfino di Sartre, l’uso di Shakespeare in una canzone di King Elvis sembrò una trovata nuova e geniale.
Per le canzoni italiane, però, quella non era una novità. Sì, perché da sempre i parolieri italiani avevano saccheggiato grandi autori della nostra letteratura, con una preferenza assoluta per Dante. Facciamo un esempio. 1948, in Borgo antico si diceva: «O borgo vecchio borgo degli amanti che il poeta immortalò, e ch’io ripenso pallidi e tremanti come amore li avvinghiò». Chiamato in causa era il Canto V dell’Inferno, quello di Paolo e Francesca (come testimoniano le parole «amanti, tremanti, avvvinghiò»), e come in Are You Lonesome Tonight («someone said») anche qui, trattandosi dell’autore più famoso della letteratura italiana, lo si indicava con «il poeta». Insomma, stessa scelta dell’autore più illustre della propria letteratura, stesso ricorso a una definizione generica, ma le somiglianze finiscono qui. Se nel testo cantato da Elvis vige un linguaggio piano, colloquiale (lui chiede a lei se ormai anche «le sedie del soggiorno appaiono vuote e nude») il testo italiano è invece coperto da una spessa patina letteraria, ha un tono aulico («borgo ascolta, questa volta, la nuova istoria che narrar ti vo’»), è imparentato con il linguaggio del melodramma e in forte ritardo rispetto «all’evoluzione linguistica della società italiana e allo stesso linguaggio poetico novecentesco».
Solo quattro anni dopo Borgo antico, al Festival di Sanremo del 1952 Nilla Pizzi canta Il valzer di Nonna Speranza, evidente ripresa da Gozzano (e si cita anche la data, Milleottocentocinquanta). Sempre a Sanremo, nel 1955, c’è in concorso Che fai tu luna in ciel? (anche se poi il testo è del tutto estraneo al Canto notturno di Leopardi). Due anni dopo, al Festival del 1957, arriva Era l’epoca del «Cuore» (parole di Giovanni «Nello» Segurini) che cita espressamente il libro di De Amicis, Gozzano e la Bohème di Puccini. In realtà, dagli anni Venti in poi, il canzoniere italiano offre una notevole quantità e gamma di citazioni letterarie. Già nel 1922, con un forte intento parodistico e surreale, Ettore Petrolini (La canzone delle cose morte) citava Dante, Foscolo, Ariosto, D’Annunzio e Salvatore Di Giacomo (la canzone A Marechiaro, musicata da Tosti). Ancora Dante nelle canzoni di Odoardo Spadaro, e poi le ville tristi e i cancelli chiusi che risentivano l’eco crepuscolare di Gozzano, Govoni e Corazzini. Ma attraverso gli anni Trenta-Quaranta l’immagine della donna «che rassomiglia tanto a una madonna», che fa sognare il Paradiso e regala una speranza che non muore, è ripresa con una certa libertà dal codice Stilnovo-Dante.
Queste citazioni, se fino alla fine degli anni Cinquanta si amalgamano perfettamente con l’uso di una lingua anticata e artificiosa, continueranno ad avere fortuna anche quando sarà attuata la rivoluzione linguistica dei cantautori di prima, seconda e terza generazione e delle varie scuole: ligure, lombarda, romana. E pure quando, per esempio (con De André prima, con Guccini e Battiato poi), cominceranno a diventare sempre più frequenti le citazioni da autori stranieri. Dante (e non solo Dante), insomma, ci accompagna fino ai giorni nostri. Vale perciò la pena di rintracciare e censire i lasciti della letteratura alta nei testi delle canzoni.
Ma la canzone influenza la poesia?
Qui però occorre osservare che lo scambio fra letteratura e canzoni è, salvo rarissime eccezioni, assolutamente unidirezionale. Funziona, cioè, solo in un senso: si ritrovano molte parole delle poesie nei testi delle canzoni ma non viceversa. Va un po’ meglio con il melodramma, La Bohème per esempio è molto presente, da Palazzeschi (Chi sono?: «Son forse un poeta?») a Montale che in Clivo (Ossi di seppia), scrive: «e trova stanza in cuore la speranza». E ancora, nel Mottetto XIV delle Occasioni cita l’«Aria delle campanelle» della Lakmé di Léo Delibes.
Citazioni o echi delle canzoni nei testi letterari sono cose rarissime. E quando Montale si lascia sfuggire un «granello di sabbia» («La poesia non è fatta per nessuno, / non per altri e nemmeno per chi la scrive. / Perché nasce? Non nasce affatto e dunque / non è mai nata. Sta come una pietra / o un granello di sabbia. Finirà / con tutto il resto.», Diario del ’71 e del ’72) è difficile dire se, magari inconsapevolmente, stesse riferendosi alla canzone di Nico Fidenco. C’è però un episodio molto importante, quello di Umberto Saba che cita per due volte, espressamente anche se con certe libertà, la canzone Cara piccina di Libero Bovio (1918). La poesia di Saba è Il canto di un mattino, da Preludio e canzonette, 1922. Ricorda, il poeta, di aver visto (o sognato?) un giovane marinaio che scioglieva gli ormeggi di una barca. «E l’udivo cantare, / per se stesso, ma sì che la città / n’era intenta, ed i colli e la marina, e sopra tutte le cose il mio cuore: / “Meglio – cantava – dire addio all’amore, / se nell’amor non è felicità”.» E ancora: «“Così, piccina mia, così non va” / diceva il canto, il canto che per via / ti segue; alla taverna, come donna / di tutti, l’hai vicino».
Ma è Pier Paolo Pasolini che dedica un’attenzione e uno studio costanti al «canto popolare», avvertendo che negli anni della «mutazione antropologica» è sia il canto che si rifà a tradizioni che vengono da secoli lontani ma lo sono anche le nuove canzonette. Nel poemetto Il canto popolare (1952) si legge: «Ragazzo del popolo che canti / qui a Rebibbia sulla misera riva / dell’Aniene la nuova canzonetta, vanti / è vero, cantando, l’antica, la festiva / leggerezza dei semplici». E i suoi ragazzi di vita, del resto, cantano a squarciagola le canzoni di Claudio Villa. In quegli anni Pasolini teorizza il passaggio dal canto popolare alla canzone passando attraverso alla poesia: La meglio gioventù (la raccolta di poesie friulane pubblicata nel 1954) riprende il titolo dal canto degli alpini nella guerra d’Albania Sul ponte di Perati, ma nel 1962 «la meglio gioventù» finisce in un verso della canzone Il soldato di Napoleone in cui Sergio Endrigo adatta un testo di Pasolini («Napoleone chiama / la meglio gioventù»). In questi ultimi anni si segnala il geniale esperimento poetico di Alida Airaghi, che già in Omaggi (Einaudi, 2017) traeva «moltissimi versi confondendoli con i miei» da tredici poeti del Novecento italiano, da Gozzano a Montale, da Saba a Pagliarani, da Penna a Pasolini a Caproni. Ora, sulla rivista on-line ilpickwick.it pubblica dieci «omaggi» a Sergio Endrigo, citando versi di altrettante canzoni.
Negli anni Sessanta, sarà il cinema a comprendere l’importanza delle canzoni. È la cosiddetta Commedia all’italiana che, in ogni film, propone una vasta compilation di motivi in voga in quegli anni. Fra tutti, è Dino Risi il più attento e preparato, non solo per la quantità delle canzoni che compongono la colonna sonora delle sue commedie (una playlist che meriterebbe uno studio a parte) ma anche per certe acute riflessioni sul significato di certi motivi, come ne Il sorpasso (1962) in cui si analizza, un po’ per gioco e un po’ no, Vecchio frack di Modugno, o come in Straziami ma di baci saziami (1968, e il titolo è già una citazione) dove si disquisisce su cosa vuol dire L’immensità. Infine, dagli anni Ottanta in poi, dopo i titoli di film tipo Sapore di mare, è la volta dei titoli di libri. Cominciano gli autori di noir, come Lucarelli (Un giorno dopo l’altro) e Carlotto (Arrivederci amore ciao) per arrivare a opere con marcata vocazione letteraria, vedi Cristina Comencini (Voi non la conoscete), Michele Mari (la pièce teatrale Ballata triste di una tromba), Melania Mazzucco (Un giorno perfetto, traduzione di Perfect Day di Lou Reed).