Nel 2022, la filosofa americana Nancy Fraser pubblica il saggio Capitalismo cannibale. Questa espressione indica un sistema sociale ed economico che si alimenta – metaforicamente parlando – in maniera istituzionalizzata di noi esseri umani, non soltanto annullando la stabilità sul posto di lavoro, le risorse e i diritti di cui un lavoratore ha bisogno per progredire, ma anche la sua emotività, la sua creatività e soprattutto la sua stabilità. Se è vero che esiste un capitalismo cannibale, è anche vero il contrario: esiste un cannibalismo capitale. Ai tempi del neoliberismo, uomini e donne cercano il consenso del lavoro, che citando Sarah Jaffe «non ci ama», o meglio, «non ricambia il nostro amore». Se si vuole sopravvivere in un ambiente precario, bisogna mangiarsi la concorrenza, ovvero chi come noi lotta per mantenere il proprio posto di lavoro, annullare l’empatia, smettere di considerare gli altri come uguali.
E se questo cannibalismo capitale diventasse letterale? Una distopia in cui accade è lo scenario in cui Agustina Bazterrica ambienta il suo romanzo Cadavere squisito, pubblicato in Italia da Eris con traduzione di Francesca Signorello. Un virus letale chiamato ggb ha colpito tutti gli animali e ne impedisce, dunque, la macellazione. Si genera un’isteria di massa tale da portare i governi di tutto il mondo ad autorizzare l’impensabile: macellare e vendere carne umana. Le macellerie e i mattatoi, dunque, convertono la propria produzione in quella di carne umana, ribattezzata “carne speciale”, arrivando ad allevare esseri umani alle volte geneticamente modificati e con cui nessuno deve avere alcun tipo di rapporto, pena la macellazione al Mattatoio Comunale. Protagonista di questo romanzo è Marcos Tejo, un impiegato nel mercato della carne separato dalla moglie Cecilia, il cui rapporto è in una fase di stallo per l’impossibilità di avere figli, e il cui padre soffre di demenza senile. Per lavoro il protagonista tratta i migliori capi di bestiame (umano) da vendere per produrre carne, finché al giorno in cui riceve da uno dei suoi clienti un regalo che metterà in gioco una cosa che ancora sembra possedere: l’umanità.
Nato grazie al confronto con il fratello Gonzalo, proprietario di un ristorante a Buenos Aires, a cui il romanzo è dedicato, e a seguito di una visita a una macelleria con i cadaveri degli animali esposti in vetrina, Cadavere squisito vuole mettere in relazione attraverso la distopia il legame fra capitalismo e cannibalismo. In un’intervista al The Guardian Bazterrica ha affermato che «Capitalismo cannibale è una riflessione su cosa sia il capitalismo e come ci insegna a naturalizzare la crudeltà» e all’ Irish Times ha dichiarato, invece:
Ho sempre creduto che nella nostra società capitalista e consumista ci divoriamo a vicenda. Ci fagocitiamo l’un l’altro in molti modi e a vari livelli: traffico umano, guerra, lavoro precario, schiavitù moderna, povertà, violenza di genere sono solo alcuni esempi di violenza estrema. Oggettivizzare e depersonalizzare gli altri ci permette di rimuoverli dalla categoria degli esseri umani (nostri pari) e di metterli nella categoria del mero “altro”, verso cui possiamo essere violenti e che possiamo uccidere, discriminare, ferire…
Ciò che ha fatto Bazterrica, dunque, è narrativizzare l’indifferenza che il capitalismo ha fomentato per portare avanti una depersonalizzazione dell’essere umano, che si tratti di un lavoratore precario e sfruttato oppure di donne e bambini venduti per la prostituzione. Sempre nell’intervista all’Irish Times, l’autrice argentina ha anche fatto il punto sulla lingua, strumento di veicolo importante di questo sfruttamento ai tempi del neoliberismo. Bazterrica, infatti, sostiene di aver lavorato con i silenzi e le parole non scritte in quanto il silenzio è «un’altra forma di cannibalismo, poiché non dicendo certe cose diventiamo complici e contribuiamo a costruire e perpetuare quella realtà [del capitalismo e della violenza strutturale]».
Già all’inizio del romanzo si mette in luce l’importanza del linguaggio di questa crudeltà naturalizzata. Per esempio osserviamo che per Marcos «assassinato sarebbe la parola corretta, ma non quella permessa» ma anche che il governo «decise di risignificare il prodotto» ribattezzando la carne umana «carne speciale» e che nei mattatoi i “capi di bestiame” «nessuno li chiama umani, non qui, non dove è proibito». Un’altra cosa interessante riguarda, invece, le dita della mano, definite in inglese “fresh fingers”:
Gli assistenti servono una zuppa di finocchi all’anice e poi un antipasto di dita alla riduzione di sherry e confit di verdure. Ma non le chiamano dita. Le chiamano fresh fingers, come se le parole in inglese potessero occultare il fatto che stanno mangiando le dita di vari umani che fino a qualche ora prima respiravano.
Il lavoro sulla lingua che fa il romanzo è volto a indicarci che il capitalismo e il neoliberismo agiscono anche sul linguaggio per normalizzare la violenza strutturale che perpetuano: qui infatti proibire e bandire certe parole serve da un lato a oggettivizzare le persone sfruttate e cannibalizzate, e dall’altro a nascondere questo processo di oggettivizzazione, depersonalizzazione e cannibalizzazione, di conseguenza normalizzandolo. A pensarci bene, lo stesso Byung-chul Han che parla di “società della performance” allude con il termine performance, che di per sé sembra riferirsi a qualcosa di legato allo sport o alla musica, a come la prestazione lavorativa sia, in realtà, logorante, al punto da negare il dolore e l’emotività di chi lavora. È emblematica, per esempio, la seguente osservazione sugli operai del mattatoio che inscatolano dei cuori umani:
Lui si domanda sempre come ci si senta a dedicare gran parte della propria giornata a riporre cuori umani dentro dei contenitori. A cosa penseranno quegli operai? Saranno consapevoli del fatto che quella cosa che tengono fra le mani fino a un attimo prima batteva? Importerà loro qualcosa?
Il viaggio che, dunque, fa Marcos Tejo dentro di sé ma anche di mattatoio in mattatoio lo porterà presto a interrogarsi su cosa sia più importante fra «le bestie o la famiglia». Marcos, che continua nel suo lavoro di venditore di carne per poter mantenere il padre nella struttura di ricovero, continua a covare il dolore per il figlio mai avuto, ma il mondo attorno a lui alimenta invece l’indifferenza che permette la violenza a cui i corpi umani sono sottoposti. Emblematico è il gioco a cui giocano i suoi nipoti, e che dà il titolo al romanzo: Cadavere squisito, che consiste nell’immaginarsi il sapore che può avere lo zio o la loro madre: un gioco all’apparenza innocuo ma con un titolo così eloquente è segno di come «accettiamo i nostri eccessi, li normalizziamo, abbracciamo la nostra esistenza primitiva». Sebbene Marcos preferisca usare termini tecnici per non sentirsi troppo coinvolto emotivamente nei confronti dei corpi umani, si ritroverà in momenti in cui mostrerà empatia, rendendosi presto conto, però, di non poter prescindere dal pensiero comune. Una delle sue clienti dirà che «oggi sono macellaia, domani potrò diventare la bestia». Il mondo in cui vive Marcos ha talmente normalizzato la violenza che è normale essere il divoratore ma allo stesso tempo il divorato, ma soprattutto che, a prescindere da come la si chiama, «la carne è sempre carne» e ogni “capo di bestiame” avrà «lo sguardo umano dell’animale addomesticato»: un corpo che è stato cresciuto per essere sfruttato, che non può gridare il suo dolore perché quello è il suo destino, perché non c’è nessuna lingua disposta a definirlo per quello che realmente è e che con il suo silenzio manda avanti una barbarie normalizzata.
Come spesso accade, la distopia sa essere più reale della realtà stessa. Cadavere squisito, attraverso il racconto di una finzione in cui gli esseri umani vengono macellati e la loro carne venduta e consumata, ci parla della realtà del capitalismo, del neoliberismo e della società della prestazione: un fagocitarci a vicenda che elimina la nostra empatia e la nostra umanità in nome della performance e della persecuzione di interessi individuali. Quello che nel romanzo avviene in modo brutale e letterale, nella realtà avviene in modo altrettanto brutale, ma più subdolo: generando un’indifferenza che rende normale la violenza strutturale, facendo del linguaggio un veicolo di normalizzazione di questo cannibalismo capitale che stabilisce come paradigma anche il fatto che, se oggi divori, domani sarai divorato, in un uroboro di violenza senza fine.
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