Qualche anno fa, nel periodo in cui dentro di me si affacciava l’idea di scrivere della mia esperienza ed esistevano ancora le presentazioni di libri, partecipai a un incontro con Alessandra Sarchi. Lo presi come un segno: presentava allora La notte ha la mia voce e, nel farlo, si riferiva esplicitamente alla propria condizione di persona costretta su una sedia a rotelle. Parlò a lungo di come il corpo con le sue funzioni o disfunzioni, in caso di malattia, fosse stato per molto tempo escluso dalla letteratura, dal momento che quest’ultima non lo considerava un argomento degno. Una delle prime a fare questo genere di considerazioni era stata Virginia Woolf nel suo pamphlet Sulla malattia, un piccolo saggio del 1926 in cui rivendica la centralità, e da un punto di vista letterario la bellezza, di quest’ultima. Naturalmente è difficile che a scrivere di malattia possa essere chi malato non è o non è mai stato in forma grave, condizione che Woolf vive da giovane e con cui deve misurarsi fino alla morte per suicidio. Al termine dell’incontro mi avvicinai all’autrice con la scusa di farmi firmare la copia del libro e ne approfittai per chiederle in che modo, secondo lei, si sarebbe potuta raccontare la malattia mentale. Rispose che era molto complesso, dal momento che quest’ultima, almeno nella maggior parte dei casi, non traspare da segni fisici evidenti. Non ho smesso di interrogarmi sull’argomento e vado sempre in cerca di testi che affrontino la malattia e la caducità della vita umana, temi che mai come in questo tempo si sono imposti alla nostra attenzione. L’ultimo che ho amato è Bianco è il colore del danno di Francesca Mannocchi (Einaudi Stile Libero), in cui la giornalista e regista racconta la convivenza con la sclerosi multipla che scopre di avere a pochi mesi dall’essere diventata madre. Il libro, già nella rosa di quelli candidati al Premio Strega, si apre con un presagio: la protagonista che a otto anni immagina di ammalarsi durante i suoi trenta, come di fatto accade. E il dialogo, la lotta, è fra le due Francesca, quella prima e quella dopo la diagnosi, che percorrono l’intero testo attraverso balzi in avanti e indietro, nel tentativo di una riconciliazione. Ma per far sì che questo accada la nuova Francesca deve «abbandonare l’idea di incontrare, e di tornare a essere, la me senza malattia. Dopo dei sintomi, innumerevoli esami e una diagnosi si impara a convivere con una nuova versione di se stessi, un altro corpo, un’altra idea di futuro. Ed è importante che chi ti è vicino e ti accompagna lo capisca». Ecco allora che nel testo l’attesa di una rachicentesi – l’ennesimo esame clinico cui sottoporsi per dare un nome alla sua malattia e poi seguirne l’andamento – diventa motivo di ampie digressioni, ricordi che risalgono all’infanzia e alla giovinezza, in cerca di una ragione e di un cedimento all’interno del proprio albero genealogico.
Ma veniamo alle parole per dirlo, alla lingua medica, definita «distante» nelle sequenze di diario che inframmezzano la narrazione, quando racconta il corpo a corpo con la malattia, «il braccio di ferro con la clinica». L’autrice immagina allora che la lingua medica abbia la stessa funzione della mielina, è una guaina che «protegge i pazienti mitigando le informazioni». In ogni caso, la lingua dei sani è diversa da quella dei malati. Diversi la prospettiva e il peso attribuito alle singole parole. «Perché il sano, per quanto amore abbia, sarà sempre non-malato rispetto al malato. E in un luogo oscuro, il malato non glielo perdona.» Nelle pagine sfilano la gravidanza come detonatore, coi sintomi che si presentano a pochi mesi dalla nascita di Pietro mentre Francesca è in uno dei suoi viaggi di lavoro in giro per il mondo, e i mesi pieni di condizionali che precedono la diagnosi. In Bianco è il colore del danno maternità e malattia si intersecano fino a confondersi ed è un duplice tema che sento molto vicino: quello di una madre che si ammala con un figlio piccolo, il che per certi versi acuisce, drammatizza, il suo essere malata. Perché una madre compromessa, che si trova a non essere nel pieno delle proprie facoltà fisiche e mentali, proietta sul figlio la propria incapacità, se ne danna per lui, principalmente, e solo dopo per sé.
L’autrice scruta vecchie foto di famiglia in cerca di tracce del suo male quando era ancora presente in filigrana, e chiede a se stessa se la malattia l’abbia resa spietata, cattiva. Non credo che i malati siano tutti uguali, ve ne sono di buoni e di cattivi, ma in ogni caso il malato è chiamato ad affrontare una prova, una delle più dure della vita. «La cattiveria del malato giace in questo, credo, vorresti contagiare le persone che hai intorno con quello che la malattia ti ha rivelato e portarle dove non ci sono maschere per la vergogna». Così Mannocchi deve accettare di trovarsi dalla parte sbagliata delle statistiche e fare un patto con la rabbia, misurarsi coi sintomi cognitivi, quelli che non si vedono: la paura di dimenticare, le parole che sfuggono, l’attenzione a singhiozzi. Ci sono il tempo che diventa un «frattempo fra un’analisi e l’altra», le domande al proprio corpo traditore – «Perché mi hai fatto questo?» – e la scrittura per tenere insieme i pezzi.
Durante i suoi incubi, o le lunghe ore da insonne, cerca di dare un volto alla nemica che la abita, la sclerosi multipla assume le sembianze di una strega arcigna, un parassita, una creatura mostruosa. Francesca Mannocchi compila un immaginario inventario della vergogna, giocando a intercettare i propri simili, perché «le malattie sono così, chiedono la fatica di sostenerle e la fatica di essere nascoste» ma, a volte, anche la fatica di essere mostrate.
Immagine copertina: illustrazione di Amalia Caratozzolo