«Un cazzo è una specie di spada, un oggetto di orgoglio e confronto, mentre una vagina rappresenta una cosa debole, della cui proprietaria ci si può sempre fidare poco. Una cosa che verrà sempre fottuta, che può essere stuprata e può restare incinta e arrecare vergogna a una casa e a una famiglia. Una cosa che aveva bisogno di protezione senza che nessuno mettesse mai in forse quel bisogno di protezione, perché di notte le strade non sono sicure e le ragazze con i capelli corti sembravano ragazzi, non il contrario. Ho sempre trovato tremendamente disorientante tutto questo e spesso ho pensato che dovessero essere i cazzi a venire nascosti, che dovremmo bandire l’arma e non la ferita.»
Pochi sono i libri rivelatori che circolano in questo momento, ma Un cazzo ebreo di Katharina Volckmer (pubblicato da La nave di Teseo e tradotto da Chiara Spaziani) è uno di questi. Lontano dal risultare soltanto «trasgressivo, dissacrante e divertente» – come mette in risalto la stessa casa editrice in uno dei blurb di copertina citando il New York Times – questo romanzo è un oggetto ben più complesso dell’«esilarante e sensuale» esordio di una giovane autrice: è un saggio sul piacere e sul dolore che la ricerca di questo stesso piacere comporta, un’indagine sull’erotismo che si interroga sulla sua stessa legittimità, sul senso di inadeguatezza sociale e sessuale perenne, e sulla transizione di una donna in un’epoca ancora ferocemente conformista, che proprio in virtù del suo bisogno di rassicurazioni tende allo stesso tempo a svilire determinati messaggi e a ridurli a esperimenti «anticonvenzionali» per accettarne l’esistenza.
La riflessione su forma e confezione prima ancora che sul contenuto non è secondaria, perché invita a un ragionamento profondo sulla pratica di mistificazione a cui vengono sottoposte determinate narrazioni: esiste un compromesso, ancora duro a morire, che ha bisogno di sfruttare il lato «sovversivo» e «sensuale» di una storia, non soltanto correndo il rischio di appiattirla o banalizzarla, ma addirittura finendo per illuderci che certi racconti, solo attinenti al dominio della cosiddetta fiction, non rispecchino invece il nostro quotidiano; un quotidiano che ha evidentemente ancora bisogno di celarsi dietro certe provocazioni stilistiche e linguistiche per essere davvero preso in considerazione da un pubblico (ci si augura) sempre più ampio.
Ciò spiega perché, per buona parte di Un cazzo ebreo, a [r]esistere in primo piano è semplicemente il flusso di coscienza ininterrotto di una donna che racconta, sdraiata sul lettino di uno studio medico londinese, alcune delle sue perversioni sessuali. L’analisi del desiderio è un tema chiave di molta della letteratura femminile degli ultimi anni e dei tempi recenti, benché spesso, al di fuori dei confini della saggistica – che spesso funge da protezione nell’impatto con una platea ancora ultraconservatrice – debba ancora risultare provocatoria per risultare credibile o degna di attenzione. Di questo Volckmer è consapevole, e ha un talento speciale nell’assecondare il bisogno paradossale di un meccanismo letterario che risulti tanto disinibito quanto rassicurante; e infatti la sua protagonista è una giovane tedesca che racconta con apparente nonchalance, come in terapia, delle sue fantasie erotiche su Hitler, della spasmodica ricerca di un particolare sex toy o dell’incomprensibile bisogno (più per ə altrə che per sé stessa) di praticare sesso orale a degli sconosciuti nel bagno di un locale.
«Non c’è niente di meglio che masturbarsi in posti che hanno significato qualcosa per te e che non dimenticherai mai più per il resto della tua vita. È come se diventassero casa tua e questa, a parte il suicidio, è l’unica vera libertà di cui godiamo. Darci piacere quando lo vogliamo.»
Quando però nella narrazione interviene l’oggetto del desiderio amoroso – sotto le spoglie di un pittore che intrattiene con lei una relazione extraconiugale e che sarà sempre indicato con la lettera K – il libro comincia a svelare il suo cuore pulsante, annullando la banalizzazione del supposto meccanismo «sovversivo» innescato fino a quel momento, e che del resto l’autrice stessa contribuisce per un determinato intervallo di tempo a rendere tangibile. Il libro gioca a lungo su questo paradosso: concede ampiamente a chi legge la soddisfazione voyeuristica derivata dal potersi appropriare anche solo con lo sguardo del vissuto erotico e disinibito di un personaggio che non ha paura di esporsi; a volte anzi tradisce una certa soddisfazione nell’attirare l’attenzione attraverso l’artificio, e non è casuale che a farlo sia un’autrice nei panni di una protagonista femminile. Al tempo stesso, però, quest’artificio serve a mettere in rilievo un messaggio più potente e importante: la condizione di inadeguatezza di un soggetto imprigionato nel proprio sesso e ancor di più schiavo di molteplici pressioni esterne e autoinflitte, insieme al bisogno di cambiare drasticamente per riappropriarsi infine di un’identità diversa, anche in virtù di quella del suo amante (a sua volta imprigionato nella stereotipizzazione del proprio genere).
Attraverso la sua protagonista, Volckmer afferma che avere una vagina è pericoloso. Lo è nella misura in cui «chi è senza cazzo deve essere controllato così che quelli con il cazzo non si sentano intimiditi, perché è una cosa negativa che gli uomini si sentano intimiditi»; e per un certo periodo di tempo mostrarsi disinibita è la sua corazza, l’espediente con cui convincersi (a ragione) che la propria condizione di scomodità e inadeguatezza è quella più efficace per mostrare le contraddizioni del desiderio verso di sé e verso unə altrə. È la stessa voce narrante, del resto, a definirsi una «vagina disfunzionale», ad accompagnare i resoconti del suo vissuto erotico a un senso di colpa di cui lei stessa è spesso fautrice; a illustrare con dolorosa dovizia di particolari un’infanzia travagliata e il conflitto disperante con la madre, il confronto con aspettative ogni volta deluse e infine il complicato tentativo di interagire con l’altro sesso sfruttando le caratteristiche di un corpo non corrispondente alle stesse aspettative di chi lo abita. Non è quindi affatto una semplicistica invidia del pene quella che aleggia in certe pagine massacranti (del resto «guardi fin dove è arrivata la gente per azzoppare e sconfiggere le vagine, per convincere le donne che il piacere non è fatto per loro, che nulla vale quanto la bontà»), ma una discussione molto più articolata su un percorso di messa in discussione del proprio sé, una battaglia contro lo sguardo altrui e perfino contro quello che ci appartiene.
Un cazzo ebreo è quindi un romanzo d’intensità politica illuminante, laddove il primo atto politico è quello esercitato attraverso l’analisi del sé per comprendere il mondo circostante. La voce narrante che lo abita è quella di un “gatto che abbaia” in costante conflitto con la staticità del sesso e del ruolo di questo all’interno della propria vita e di quella altrui. Ma è anche, non secondariamente, un libro che riflette sul significato di oppressione: non è un caso che l’interlocutore (sebbene resti muto) sia ebreo; così come è ebreo l’organo sessuale che cambierà per sempre una condizione di svantaggio e di oppressione “a sua volta”. Sono molteplici e complesse, così come lo sono sempre dentro di noi, le tensioni e le contraddizioni del desiderio che, come scrive l’autrice, «non è mai amichevole», ma sempre legittimo, valido e meritevole di attenzione. Questo libro prova a dimostrarlo, donandosi con generosità a chiunque voglia accoglierlo non come oggetto statico ma come uno strumento, come il manifesto di chiunque voglia trovare nel cambiamento e nella diversità una nuova e personale forma di piacere.
«Non so perché i nostri cervelli siano fatti così, ma K mi ha insegnato che se cerchiamo di farci crescere delle piume senza che gli altri siano preparati all’idea di vederci volare ci spareranno in cielo, e manderanno i loro cani a scuoterci per controllare che il nostro collo si sia spezzato, prima di buttarci in un sacco e sbarazzarsi di noi. La nostra mente può tollerare al massimo un gatto senza coda o con tre zampe, ma non può tollerare alcuna aggiunta, qualsiasi cosa vada a sommarsi a ciò con cui è previsto che un gatto nasca non sarà mai accettata. […] Non avevo capito che questi di cui parliamo sono confini assoluti e che nessun gatto che abbaia è mai riuscito a conquistare il cielo.»
Photo Credits
Copertina: Dainis Graveris tramite Unsplash
Ritratto di Katharina Volckmer: Liz Seabrook