In questi giorni torna nelle librerie il primo saggio di Nadia Fusini, La passione dell’origine, riedito da minimum fax e pubblicato originariamente da Dedalo nel 1981, oltre quarant’anni fa. Il sottotitolo è “studi sul tragico shakespeariano e il romanzesco moderno”, e annuncia il peculiare progetto, o per meglio dire il progetto-visione, del saggio: le mutevoli forme dell’arte romanzesca nel corso dei secoli viste sotto la luce di Shakespeare e nella fattispecie del personaggio di Amleto. Fusini parte dalla nascita del romanzo, che per lei non prescinde da Shakespeare e anzi affonda le sue radici proprio nelle ultime tragedie scespiriane, per affrontare l’evoluzione del personaggio e della lingua nell’arte romanzesca e approdare infine al romanzo moderno, ossia a quel perdersi dell’io che attraverso l’io – attraverso la parola e il conseguente perdersi della parola – deve risolversi o comunque raccontarsi e farsi poesia.
La passione dell’origine è uno studio soprattutto novecentesco: l’incedere deambulante e spaesato o disperato (e disperante) del personaggio nel Novecento per Fusini riporta a Amleto, al suo rimandare continuamente l’azione, la trama, la vendetta, e al suo essere figlio senza padre. Il saggio non vuole imporsi saccentemente sul lettore, bensì assorbirlo e condurlo oltre la sua percezione del reale e del romanzesco, fino a illuminarlo e illuminarsi; Nadia Fusini ci spinge al gioco, al diletto letterario e critico, fra parentele artistiche e accostamenti ed echi attraverso i secoli e le lingue e le diverse opere e i loro autori, come se ogni voce e personaggio ne rincorresse un altro e la letteratura fosse proprio questo continuo rincorrersi e incrociarsi e confondersi di voci e personaggi. Così – per esempio – l’isola di Robinson Crusoe è un’evoluzione e una rottura rispetto all’isola di Prospero, e l’io «strutturato» di Clarissa Dalloway si oppone all’io «distorto» di Tristram Shandy, e Amleto può rappresentare «il passaggio dalla affermatività cartesiana alla negatività di Pascal», e nel flusso di coscienza joyciano «l’io precipita, il soggetto si confonde con l’oggetto», mentre per Gertrude Stein l’uomo del Novecento non fa che ripetersi e protrarsi annullando di fatto il tempo, finché non arriviamo a Eliot e a Beckett e l’uomo – il Secolo – è disorientato ma non domo, perso ma non sconfitto, come Amleto, e il romanzo, come l’io del personaggio e il nostro stesso io che legge, si frattura.
I saggi fusiniani compongono un coro o un prisma critico che rimanda sempre ad altre voci, ad autori successivi nel tempo che sembrano discutere fra loro e con noi. La passione dell’origine affronta Shakespeare e Defoe e Fielding e Cechov e Conrad e Woolf e Freud e Joyce e Stein e Mann e Eliot e Beckett e così via, fra similitudini e opposizioni, attraverso ere artistiche e storiche. È un libro di ricerca letteraria per dilettanti appassionati – dilettanti nel senso di diletto, di divertimento, perché, come scrive Fusini prefaendo un suo studio su Fedra (La luminosa, edito da Feltrinelli nel 1990 e ora introvabile), «ciò che caratterizza il piacere del dilettante lo sintetizzerei così: è il piacere di chi gode della natura sempre preliminare, mai conclusa, del suo conoscere», quindi ogni vero lettore è un dilettante. (Anni fa, “dilettandomi” per l’appunto in un saggio dai toni accesi contro il metodo critico di Harold Bloom poi apparso su minima&moralia, mi soccorsero proprio i saggi di Nadia Fusini, soprattutto i suoi studi su Shakespeare, che raffrontavo alle fin troppo claustrofobiche letture del pur interessante Bloom – finii per farne un duello letterario: Bloom contro Fusini!).
Nadia Fusini è una delle maggiori saggiste del nostro tempo, e qui vale il femminile sovraesteso. La passione dell’origine è il suo primo libro edito ed è un bene che minimum fax lo faccia ritornare nelle librerie, come è un bene che Feltrinelli abbia di recente ripubblicato La figlia del sole, opera che può essere definita un romanzo atipico sulla vita di Katherine Mansfield (i protagonisti si chiamano Francis e Zoe, omaggiando Salinger) e che si apre con una frase di Anna Maria Ortese: «Molto strana, la nostra gioia» – frase che riporta all’epigrafe di Simone Weil sulla soglia di Di vita si muore, «Com’è che il grido della creatura è così bello?», e al saggio iniziale di Nomi, «Anna Maria Ortese, o della gioia» (le epigrafi di Fusini hanno sempre un’importante funzione paratestuale). Altri titoli fusiniani andrebbero recuperati e riscoperti, a cominciare da Due, uno studio sulla «passione del legame in Kafka», pubblicato nel 1988 da Feltrinelli e ormai scomparso dalle librerie. Per il momento però festeggiamo la riedizione de La passione dell’origine, che è un grande libro di ricerca e di gioco – perché Fusini gioca sempre, con sé e con noi: con la forma del romanzo, con i personaggi, con gli autori dei libri che ama, con noi che leggiamo e ci dilettiamo insieme a lei che scrive e che racconta.
«Sei sempre più una scrittrice» le disse una volta Agostino Lombardo, dopo aver letto Donne fatali, altro libro scespiriano, sottintendendo forse che nei suoi studi la scrittrice, l’artista, prevaleva sull’accademica, sulla studiosa. Di certo La passione dell’origine, il primo libro di Nadia Fusini, è un’opera di genio. Ci auguriamo quindi che possa presto dilettare nuovi e appassionati lettori.
In copertina: William Hunt, Portrait of Hamlet