Ho conosciuto Nicola Magrin tre anni fa, incuriosito da quell’atmosfera pittorica che nelle riedizioni Einaudi stava accompagnando gli scritti di Primo Levi, e che mi aveva conquistato nel racconto di Folco Terzani, Il cane il lupo e Dio. Ne è nata un’intesa, una grande stima che da allora mi accompagna. Interrogarmi sul gesto pittorico e sulla parola per me ha significato scoprire la sensibilità di una persona come Nicola, scoprire che pensare le forme significa incontrarle (forse, persino toccarle) e che l’arte è percorso, sempre.
Così, appena ho saputo dell’uscita del libro Altri voli con le nuvole edito da Salani, ho pensato come a un segno: «ecco» mi sono detto, «Nicola esordisce come autore. I tempi sono maturi…». Per smussare i confini del proprio ‘ego’ seguendo il profilo delle montagne, osservando il volo degli uccelli «proprio come fa Nicola, con i suoi acquarelli!»
«…Sì, non c’è un ‘io’ come dici tu. Questo lavoro lo vedo come un lungo haiku giapponese e a un certo punto mi sono messo alla ricerca di un filo rosso di parole che potesse cucire insieme un pensiero pittorico di centoventritré acquarelli; in cui ‘io’ scompaio sempre. Le figure intorno cui ruota il libro sono quelle di Paolo Cognetti, Tiziano Terzani, Costante, Gianni Bianchi. Durante il periodo drammatico del primo lockdown prendevo la bicicletta e un po’ di nascosto mi dirigevo in studio a dipingere. Vedevo il mio atelier come un’oasi e mi sono chiesto ‘cosa racconti?’ I dipinti li ho già, e metterli dentro un libro significa farne un catalogo? No! Ero alla ricerca di una trama… Dentro di me avevo i viaggi, l’Himalaya con Folco, sulle orme di Tiziano. L’incontro coi Lupi, che mi hanno portato tanta fortuna e dove sono nati i primi quadri di betulle… Mi sono accorto che tutto convergeva in un punto: la baita. Trovata dopo il viaggio in Alaska, tre anni fa, e desiderata tanto: il sogno di una vita! Così sono partito da lì – qui – dalla mia finestra, da cui si dipanano i quattro momenti in cui ho scandito il racconto. Amicizia – Anima – Avventura – Radici: non li ho scelti a tavolino, ma sono arrivati. Così mi sono trovato davanti a una struttura – il filo rosso per unire le immagini. l’Anima è Terzani, le radici sono Costante e il suo inseparabile cane, l’avventura il lupo, l’amicizia è Paolo. Ho cominciato a dipingere l’incontro con il lupo e ho visto lo sviluppo, una storia! Così ho cominciato a inquadrare i momenti e pensavo ‘inquadrare me? Non voglio, mi tolgo’. Mi sono tolto, ma rimango presente nel rapporto».
Abbiamo intervistato Nicola Magrin.
Racconti della ricerca di una sorgente. Ti dirigi seguendo il corso del fiume: l’acqua – ‘disegni d’acqua’ li chiama il tuo amico Paolo. La voce del fiume non parla mai alla prima persona singolare (‘io’), ma è corale, riecheggia sulle rocce, si diffonde per la vallata. Il fiume non è sentenza, è discorso. Mai fine a se stesso.
Sì, sono orgoglioso di come il libro racconti, e ringrazio Salani per avermi fatto lasciare alcune pagine bianche. Ho scelto di tenere i disegni sulla pagina di destra, mentre sulla sinistra ho scritto. Avrei potuto scandire l’intervallo fra i dipinti con le parole, oppure dividere in capitoli – come Amicizia, Anima, Avventura, Radici – ma non era quello che volevo, sentivo che c’era una pausa. La pagina bianca, che è il respiro del libro. L’acqua…non solo perché dipingo con l’acquarello, il torrente vicino alla mia baita rappresenta le storie che mi arrivano. Il fiume è all’opposto dell’immobilità però chiama a sostare; quando lo si osserva si è fermi ed è circolare: è acqua che ritorna – io cambio spessissimo l’acqua che uso per i miei acquarelli, uso sempre acqua fresca, come se dipingessi con l’acqua del fiume.
Mentre sfogliavo il libro ho avuto l’impressione di guardare le parole – sentire il solco lasciato dal grafema, a spezzare il silenzio della pagina – e di leggere i disegni, seguire il colore raggrumarsi sui bordi a chiudere la forma, inscrivendola in un orizzonte di senso: qui c’è il lupo e là, più in fondo, il bosco. Proprio come fa la parola con il corso degli eventi. La chiamiamo narrativa. Ecco, un poeta che amo molto, Edmond Jabès, diceva di ‘accettare che l’opera che si sta scrivendo – ma possiamo aggiungere: il disegno che si sta facendo – cerchi e trovi da sé la propria forma e favorisca il dischiudersi di opere ulteriori’. Mi pare colga l’essenza del tuo percorso come pittore e autore, là dove i due ruoli coincidono. Mi hai raccontato di come ci sia un momento, mentre dipingi, in cui è l’acqua che, scostandosi dalla pressione del pennello, va ad asciugarsi più avanti, in una sfumatura imprevista.
È la percezione del limite, che ti insegna la montagna. So fin dove posso arrivare, so dove comincia il mio talento, poi prosegue l’acqua e crea delle diramazioni sulla carta: rimango incantato ogni volta! Ti raccontavo della baita, da cui inizia il libro e a cui si ritorna: uno dei momenti centrali del libro è quello di Costante. Per me è stato un grande maestro, tutto ciò che conosco della montagna me l’ha insegnato lui. Serbo di lui un ricordo e un affetto indescrivibile, per me è stato come un Nonno e mi ha preso a cuore. Mi manca tanto. Di lui ricordo la fatica, è stato un uomo con una vita molto dura. Pensa che non ha avuto la suola sotto i piedi fino ai tredici anni, tanto era povera la sua famiglia. Poteva camminare per ore sulle rocce appuntite senza sentire nulla. Costante e sua moglie Renata abitavano in una baita sopra Chiareggio, io li ho conosciuti nella mia giovinezza, durante il periodo dell’accademia di belle arti. Andavo l’estate e seguivo Costante, osservavo come lavorava il legno, imparavo i sentieri. Renata era una cuoca favolosa. Avevano un ristorante più in giù verso Chiareggio (c’è ancora ma ha cambiato molte gestioni), andava spesso a mangiarci lo scrittore Mario Soldati, che ne lodava la cucina… Quando sia lei che Costante sono morti, oramai vent’anni fa, io per dieci anni ho mandato avanti la loro baita. Mandare avanti una baita di montagna significa fare lavori di manutenzione, curarne le tubature… poi giustamente gli eredi hanno rilevato la struttura. Per me trovare una baita significava riconnettermi a quelle esperienze, a quell’imparare che mi aveva segnato durante i miei vent’anni. Io e mio fratello, insieme ai nostri genitori, abbiamo sempre frequentato per due, tre settimane all’anno quei luoghi. I miei genitori si sono conosciuti proprio in Valtellina. Così cercavo una baita… Ma non si trovava. Paolo mi diceva che mi avrebbe trovato lui una baita, dove sta lui in val d’Aosta. Bellissimo, mi ha presentato lui quei posti, ma non c’era il mio vissuto lì, desideravo tornare in Valtellina, dove sono cresciuto… Inaspettatamente, dopo il viaggio fra Canada e Alaska, mi giunge notizia che una baita c’è e si trova proprio vicino al torrente Mallero. È una baita costruita negli anni Sessanta, ho delle foto da bambino davanti a quella baita! Quasi non ci credevo, era un sogno che si avverava, finalmente! Così sono riuscito a fare i dovuti lavori di sistemazione e ora riesco a gestirmi una parte dell’anno lassù, in quota.
Si ha l’impressione, con i tuoi dipinti, che non siano stati cominciati. È difficile trovare il punto di inizio, individuare la prima pennellata. Sembrano piuttosto ‘continuati’ – l’armonia delle proporzioni è continua e precisa. C’è immediatezza nelle figure, ma non sono mai didascalie. Non descrivi: il profilo del lupo è vibrante, le increspature della carta creano un movimento che fa vedere il ‘modo’ dell’animale, il suo stagliarsi contro vento. In questo c’è la tua relazione con la natura, con la montagna… pensare le forme come ‘in rapporto a…’
Sai, ho sempre avuto questa immagine: le idee sono giù, in fondo a un pozzo e tu devi gettare un secchio per raccoglierle. A un certo punto mi sono chiesto ‘il pozzo, da cosa è alimentato?’ Dagli Incontri. Non è solo il viaggio, ma è l’osservare la natura. Il mondo è nella natura e trovo delle idee nel rispecchiarmici. Ho avuto l’opportunità di fare viaggi molto significativi e adoro viaggiare ma, guardando i profili delle montagne, che siano l’Himalaya o le Alpi, mi sono accorto che in quelle formazioni appuntite ci sono tutte le montagne. Nel bosco, tutti i boschi. Dentro la baita: le idee arrivano da lì, dall’intorno (non importa quanto lontano sia). È così, non cambierà. La montagna poi, non è solo la natura, è la montagna.
C’è una scena nel libro, un momento molto emozionante, in cui tu e Paolo guadate un torrente gelido in Alaska. Siete affaticati, ma proseguite tenacemente. Alla fine arrivate nei pressi del Magic Bus, un luogo diventato meta di pellegrinaggi estremi
È stata una tappa molto difficile. Io e Paolo eravamo stanchi, ma siamo riusciti a tenere il passo. Io non partivo con l’idea di portare omaggio al bus-mausoleo di Chris. Certamente conoscevo bene la sua storia e al di là di quello che si può pensare della sua vicenda, è stata un’esperienza intensa e molto bella. L’idea di fermarsi lì è nata quasi per caso. Inaspettatamente, dopo ore di cammino sotto la pioggia, in prossimità del bus è spuntato il sole e Paolo ha voluto passare una notte lì. Ricordo che i vetri del bus erano rotti, rovinati e ho dormito bene. Appena siamo entrati, ci siamo organizzati un giaciglio, c’erano due brandine. Istintivamente ho cominciato a sistemare, a pulire un po’ intorno; ho persino raccolto qualche fiore che ho lasciato su un sedile. Io e Paolo ci siamo accesi qualche candela mentre calava la notte, lui mi ha lasciato la branda più grande. Ci siamo avvolti nelle coperte e chiacchierando ci siamo addormentati, serenamente. Nello scheletro del bus, sembrava uno scheletro di Balena… e il vento suonava fra i vetri rotti una sorta di musica, e mi ha dato leggerezza. L’indomani ci siamo svegliati carichi di energia e siamo ripartiti».
Altri voli con le nuvole, altri modi, altre possibilità. Nicola ha dedicato il libro ai suoi nipoti, augurandogli un futuro in ascolto di se stessi, senza pretese. Gli piace pensare che un giorno siano liberi d’intraprendere strade che sentano proprie, senza artifizio. Un futuro di sintonia.
«Credo che l’arte, al contrario di quel che si dice spesso, del fatto che l’arte debba provocare, debba essere continuo stimolo…sì, deve emozionare, certo! Ma anche far riposare».
Photo credits: Altri voli con le nuvole, Nicola Magrin