«Così, se vuole scendere sulla terra lo strozza il collare del cielo, se vuole salire in cielo quello della terra. E ciò nonostante egli ha tutte le possibilità e lo sente»
Franz Kafka, Quaderni in ottavo
Con questa citazione si apre il romanzo di Dal Buono, Ali, edito da La Nave di Teseo e uscito lo scorso ottobre. Segue un prologo dal titolo breve storia del vuoto, dove lo scrittore immagina una paleoantropologia alternativa che non ha più come oggetto di studio Homo Sapiens, bensì Homo Scapulaensis, il cui accidente evolutivo è rappresentato da una particolare conformazione delle ossa scapolari atta a sviluppare un paio di ali. Qui la storia naturale dell’uomo viene ripercorsa scostandosi solo di poco dalla realtà, dove vige il dominio del «plausibile». È infatti verosimile che l’antico geroglifico preposto alla rappresentazione del «vuoto» consista di due segni ricurvi, simili a due ali ripiegate (di questo segno egizio sembrano non esserci riscontri diretti in rete).
Tuttavia, anche se l’uomo de facto non possiede ali, ha sempre sognato di volare e ha sempre avuto paura del «vuoto». Dal mito di Icaro – in cui la possibilità di raggiungere il sole apre simultaneamente al pericolo della caduta –, sino ai moti rivoluzionari del ’48 che sconvolsero il continente europeo, sembra correre il medesimo bisogno umano di libertà, di emancipazione individuale – indissolubilmente legato però alla vertigine, alla perdita di un terreno stabile sotto ai piedi. Tanto più si vola alto, tanto più si corre il rischio di precipitare, di venir inghiottiti cioè per sempre dal vuoto che si apre sotto di noi. L’etimologia del vocabolo greco kháos, contiene la stessa radice kha- dei verbi kháiksō, kháskō «essere aperto, spalancato», e rappresenta l’aprirsi della voragine nel momento stesso del suo spalancarsi. Dobbiamo tenere ben presente questa cornice cosmologica per poter apprezzare il senso del romanzo Ali di Enrico Dal Buono.
Il romanzo è costruito provando a calare il simbolo per antonomasia della «libertà da ogni vincolo», le ali – come quelle che immaginiamo possiedano gli angeli, capaci di volare nel cielo terso privo di qualsiasi impedimento – nel presente secolarizzato dei nostri giorni, nel tessuto sociale contraddittorio e problematico delle nostre città. Le ali, qui, tra le vie affollate di Milano, sono un ostacolo, uno dei tanti. Si prova dunque a dare voce al profondo dramma umano, perennemente combattuto tra le sue spinte propulsive e l’inevitabile recinto naturale in cui è trattenuto: il vincolo di appartenenza ai propri confini biologici che gli impongono di sottostare a un ordine naturale più grande e imprevedibile.
Se le Ali da attributo mitico diventano «fenotipo» – espressione dunque di un percorso evolutivo alternativo (questa la finzione un po’ sci-fi del romanzo) – si può costruire un’immagine dell’umanità che sottolinei come la specificità umana, lungi da essere appannaggio della volontà individuale, intesa come volontà di realizzazione di un progetto di vita indipendente, sia invece (ri)compresa nella struttura più ampia che qualifica ogni forma di vita. Detto in altre parole: ogni implementazione di cui possiamo dotarci – o di cui siamo dotati per grazia evolutiva –, ogni estensione protesica che l’umanità è riuscita e riuscirà a produrre, ogni tentativo di proiezione verso l’esterno, non agisce mai nel senso di un avanzamento indefinito e astratto, ma viene sempre ricompreso all’interno delle possibilità già iscritte nella natura.
Il romanzo a suo modo cerca di sondare questa dimensione, senza entrare nel campo della filosofia morale o della bioetica, ma sfiorando la vertigine che ci coglie nel momento in cui proviamo a fare delle scelte, illudendoci di essere padroni indiscussi dell’esito delle nostre vite. Se i personaggi hanno ali, sono demoni o angeli non importa: se sono personaggi umani sono fallibili, precipitano.
«Tutto è già deciso, in altre galassie e in altri anni luce e noi non possiamo farci nulla… come le mosche voliamo velocissimi»
L’istallazione The Last Judgment (esposta alla Fondazione Prada di Milano dal 2018) del notissimo artista contemporaneo Damien Hirst, intrappolando su una tela coperta di resina una gran quantità di mosche, sintetizza bene la vacuità e il profondo senso di effimero che accompagna le nostre vite. Come mosche siamo intrappolati alla trama ignota che ci lega indissolubilmente gli uni agli altri. Una prospettiva apparentemente senza scampo.
La penna di Dal Buono nel tratteggiare le tinte pulp del suo racconto è una penna volutamente benevola e comprensiva, che sceglie di non affondare nelle ferite dei suoi personaggi. L’intreccio narrativo gravita intorno alle vicende di Eugenio Fallati, Celeste Possamai, Ivo Slavici e Falco Tremamondo – uomo ricco e potente che muove i fili di tutti gli altri personaggi. È fortemente convinto che le ali debbano poter essere tolte con un’operazione chirurgica detta «la liberazione». Per questo ha costruito una clinica privata a Montecarlo: il Gravity Resort. Fallati è sposato con la figlia di Tremamondo, Gaia. Con lei ha due figli piccoli, Filippo ed Emma. Celeste invece è una ex tossica ed ex prostituta e vive un presente difficile a causa della scomparsa del padre che sembra essere stato ucciso dallo stesso Tremamondo. Ivo Slavici è in qualche modo il salvatore di Celeste. Ha un matrimonio naufragato e un figlio, Spartaco, con cui non ha rapporti da anni. Celeste ed Eugenio alla fine si incontreranno nella clinica Gravity Resort da dove cercheranno di scappare per evitare «la liberazione».
Da questa umanità che si contorce e si ripiega su sé stessa, «atterrata» e prossima alla rassegnazione, sembra poter emergere uno slancio nuovo e improvviso, una virata decisiva che non si svolge in «altocielo» (un’altitudine dove non vigono i sistemi legislativi e teatro delle più disparate nefandezze «alate») ma che assume i caratteri della rinuncia, della sottrazione intesa come tentativo profondo di pienezza, non di salvezza. È infatti quando si profila la possibilità di lasciar andare che comincia la vera «altezza» umana, non come superamento dei limiti, ma come eccesso di sensibilità, in grado di riconnetterci con la terra e con la continuità della natura. Non si tratta di «sentirci come mosche», rumorose e caotiche, ma di «sentirsi (insieme) con le mosche» – cioè in continuità con ogni espressione della vita organica, abbandonando il volo (verso l’alto), ma senza mai dover rinunciare ad una dimensione di fondamentale apertura (alare o meno che sia) verso il futuro.