Può, la letteratura, rappresentare un metro e uno strumento per stabilire a che punto siamo nella percezione e nel complesso racconto della malattia mentale? Credo di sì, ma si tratta anche di un terreno molto scivoloso e se da un lato appare incoraggiante che sempre più autori pongano questo tema al centro del proprio lavoro, è facile, anche senza volerlo, utilizzare termini offensivi o veicolare messaggi fuorvianti.
Quando questo accade, non provoca una ricaduta solo sulla riuscita del testo, sulla sua verosimiglianza o coerenza interna, diciamo, ma rischia di produrre un impatto che ha a che fare con la salute delle persone. Ancora troppo spesso, lasciandoci tentare da divagazioni ideologiche o anti-psichiatriche rischiamo infatti di dimenticare che ciò di cui si sta parlando non è solo un tema destinato a diventare sempre più di moda, ma un argomento che riguarda milioni di individui, non un aspetto teorico e dai contorni sfumati su cui chiunque possa dire la sua o escogitare una qualche risoluzione personale, ma una condizione medica da trattare a vita, il più delle volte, e da raccontare in modo appropriato.
Naturalmente ogni storia è a sé. E fattori sociali, di contesto, per certi versi accidentali, possono dare un esito diverso a una medesima condizione. In Un libro di guarigione, pubblicato di recente da Harper Collins, Gaia Rayneri racconta la sua esperienza di disagio psichico. Fin qui nulla di insolito. In questo precedente articolo scrivo dell’importanza che a parlare di disturbi psichici siano finalmente i pazienti in prima persona, e non soltanto chi li cura o li osserva dall’esterno. A partire dal titolo comprendo però che l’assunto di base del libro è una remota possibilità di “guarire” dal proprio disturbo psichico attraverso un cambio di prospettiva. Proseguo quindi incuriosita. La protagonista è una ragazza giovane e brillante che a un tratto – come purtroppo accade, sono certa che in molti possano riconoscersi in questa breve descrizione – smette di funzionare. Comincia l’iter di più medici e più farmaci volto non tanto a «stare bene quanto allo stare meno peggio», ma la protagonista non trova beneficio negli psicofarmaci, inoltre le stanno strette le costose sedute di terapia – e a chi no? – meglio allora cambiare prospettiva, cominciare a fare meditazione su consiglio di un amico e puff! Ecco sparito tutto.
Pur volendo ammettere che le diagnosi psichiatriche non siano fisse, mi sembra quantomeno improbabile poter cancellare una fragilità e una predisposizione al disagio psichico. Rayneri (e dico buon per lei, con una punta di invidia) parla invece di anima «quel puntino di luce infinita che c’è dentro ognuno di noi», del dolore da interpretare come un dono e non come una malattia, temendo che senza questo tipo di approccio il dibattito si impoverisca. Parla anche della diagnosi come condanna, il che è senz’altro vero, quale diagnosi non lo è, peccato che difficilmente, in qualsivoglia campo della medicina, senza una diagnosi potrà esserci una possibilità di cura. E che da una diagnosi non ci si libera con uno sforzo di volontà. Parla di «quando ero borderline», come se si potesse smettere di esserlo. Ogni capitolo si apre con una citazione tratta dal DSM, ovvero il principale manuale diagnostico per disturbi psichiatrici, al quale lei oppone una nuova salvifica filosofia. Mi addentro nella lettura sempre più incredula, dal momento che i sintomi per cui era andata in terapia non erano blandi ma piuttosto seri, tanto da arrivare a un presunto episodio prepsicotico.
Il mio disappunto è duplice. Da paziente psichiatrica vorrei suggerire alla protagonista di stare attenta: che il suo benessere raggiunto in maniera tanto fittizia quanto prodigiosa rischia di sparire da un momento all’altro e di farla tornare al punto di partenza. Poi penso con amarezza a cosa siamo ancora disposti a inventarci pur di non ammettere a noi stessi di avere un disturbo, diagnosticato magari da più specialisti, e che ci ha portati a compiere gesti pericolosi per noi e per gli altri. Sono impensierita, inoltre, dall’idea che un libro del genere possa veicolare un messaggio pericoloso per le molte persone che, dopo averlo letto, crederanno di poter risolvere i propri problemi con due sedute di meditazione. Non ho mai praticato quest’ultima ma sono abbastanza certa possa rappresentare solo un ausilio nella cura a disturbi d’ansia, attacchi di panico, depressione e psicosi, condizioni serie e da non sottovalutare, da trattare affidandosi a cure mediche, non ai fiori di Bach.
Premesso che la nostra esperienza è soggettiva e che ognuno di noi ha il diritto di vivere e raccontare ciò che vuole, un simile messaggio risulta anche vagamente offensivo nei confronti di quanti ogni giorno cercano di andare avanti con gli strumenti che la moderna psichiatria mette a disposizione. Come Nicola Neri, ad esempio, che attraverso una scrittura onirica e poetica racconta il bordo, lo stesso che condiziona la sua vita di ragazzo con disturbo borderline, etichetta che in psichiatria fa riferimento a un comune disturbo di personalità.
Il bordo, due favole border-line (Editrice SE) punta a esplorare questo spazio liminare, questo territorio di confine che è anche una forma di (r)esistenza, attraverso due favole: Il Bordo e Blue Borderline. In senso quasi metafisico, il bordo diventa quindi un territorio da esplorare, su cui soffermarsi, e a proposito del quale Neri pone a se stesso e a noi quattro interrogativi:
«Se il “bordo” è un luogo altro, dotato di qualità specifiche, che cosa significa abitarlo, come si vive sul, nel bordo?
È possibile che per raggiungere questo territorio di frontiera, questo punto di vista, sia necessario aver conosciuto le due zone con cui esso confina?
E se fosse un altro essere a definire il bordo, se fosse un’altra persona a rendere possibile l’equilibrio necessario per spostarsi e vivere su questo confine?»
Infine:
«E se il bordo diventasse luogo d’incontro, di unione? E sperimentando una vita sul confine si conquistasse una verità da consegnare a un altro? (…) La storia è sempre la stessa: i confini ci confondono, come queste porte scorrevoli, non li prendiamo in considerazione, come gli ingressi, gli androni… Ma gli eventi clou della nostra vita non accadono su un confine?»
È un testo che non si lascia andare a magre consolazioni. Neri non si dà pace, arrovellandosi su quesiti filosofici che sembrano destinati a restare senza risposta. I protagonisti dei due racconti sono alla ricerca di un contatto con l’esterno e con l’altro nonostante siano intrappolati in un luogo angusto (se stessi?). Tornando al discorso della naturale, istintiva refrattarietà alle diagnosi e all’essere etichettati, Neri non cade, però, in questa trappola: offre all’etichetta border-line nuovi significati, ne estende le possibilità a tutti noi, senza rinnegare il bordo su cui si trova a vivere, e che difficilmente potrà abbandonare. Che si parli di sofferenza mentale in prima persona, o che ci si ritrovi a esserne spettatori, l’importante è sapere che si sta restituendo dignità discorsiva (e letteraria) a un tema omesso e bistrattato per secoli.
Alessandro Moscè scandaglia i fondali di un mondo inabissato con Le case dai tetti rossi (Fandango), in cui racconta di una struttura manicomiale sulla soglia della rivoluzione psichiatrica. Siamo ad Ancona, «alla vigilia degli anni Ottanta, quando il luogo più sinistro della città si riscattava», e dove il protagonista Alessandro fa ritorno per vendere la casa dei nonni. Da lì, nelle sue estati di bambino, osservava i tetti rossi, ovvero la struttura manicomiale riconvertita poi con la legge Basaglia. Da quei matti Alessandro è attratto, e la casa dei nonni rappresenta un punto di osservazione privilegiato: può infatti osservarli da lontano, aggirarsi intorno ai cancelli senza essere visto. Gli internati però non sono solo deboli di mente: in quei giardini e oltre le sbarre è possibile trovare deviati di ogni tipo perché ai tetti rossi ci finiva chiunque disturbasse la quiete pubblica. Crescendo Alessandro assiste al cambiamento avvenuto negli anni Ottanta, quando la cittadella di invisibili da cui tenersi alla larga diventa il timido tentativo di un ospedale più umano e una struttura all’avanguardia grazie al dottor Guido Lazzari, ai suoi nuovi metodi e alla sua équipe: lo storico giardiniere Arduino, Suor Germana e l’infermiere Nazzareno. Sin dalle prime pagine, il punto di vista dell’autore è dichiaratamente esterno, tanto che Moscé chiede, a se stesso e a noi: «Ma chi eravamo? I guardiani dell’ordine nel mondo degli esclusi, dei furiosi, degli imprevedibili».
Anni dopo attraversa la soglia dell’ex struttura manicomiale e si muove a tentoni per ricostituire quanto è accaduto, racconta le vite di degenti e dipendenti del manicomio, le sbarre alle finestre, le camicie di forza, gli intrugli dati da bere. Il suo è un attento lavoro di ricostruzione attraverso cartelle cliniche e preziose testimonianze, fra cui il suo amico Luca, figlio del giardiniere. Fra le pagine ci sono loro: i pazienti, con le loro storie di sofferenza ed emarginazione. Sfilano le alterne vicende di Adele, Carlo, Giordano, fino al racconto di Franca redatto in prima persona. E tuttavia mancano le loro voci, almeno io ne avverto l’assenza, non posso fare a meno di chiedermi dove siano, e sento quanto non abbiano avuto la possibilità di raccontare e dire. È un enorme buco, una voragine, che non so se riusciremo mai a colmare.
In copertina Case dai tetti rossi di Charles Demuth su wahooart.com