Lo scrittore e l’attrice vivono accanto poco. Manciate di settimane negli anni, ma ogni volta «i giorni che abbiamo appena trascorso mi sembra che possano giustificare una vita». Si mancano sempre e non importano i figli avuti con altri, gli amanti in carica, il talento. Si scrivono «il tuo corpo mi commuove» e lo fanno per 15 anni.
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P.S. Ho trovato in Stendhal la storia del duca di Policastro che faceva ogni sei mesi quattrocento chilometri per andare a incontrare un quarto d’ora la donna che amava e che era sorvegliata da un uomo geloso. La storia è andata avanti per anni. Ti consola? A me no. Ma mi sono chiesto se farei la stessa cosa. Risposta: Sì. Poiché aspettarla sei mesi significa vivere male ma comunque vivere. Il resto sono i grandi cimiteri.
(Albert Camus a Maria Casarès, 19 gennaio 1950)
Non c’è mai orgoglio tra Maria Casarès e Albert Camus, nessun ricatto emotivo, nessuna brutalità: sanno che il tempo per amarsi è limitato, senza dilatazioni, non lo sprecano assecondando le idiozie di tutti. Sono fisici, erotici, nella loro amicizia che è confidenza, scontro limitato alle ombre di lui e all’inquietudine di lei, sempre amore, nella sua fisionomia più certa; la fortuna di essersi trovati e il privilegio di potersi riposare nell’altro. Le separazioni sono continue e laceranti ma mai definitive. Il loro amore spesso è triste eppure troppo viscerale per farsi ostaggio della realtà delle cose, del matrimonio di lui con Francine, dei figli (di Camus), della letteratura e del teatro, dei sorrisi semplici degli amanti del momento, poco complessi, solari, senza gravità.
Si conoscono una sera di marzo, nel 1944, diventano amanti a giugno. Maria Casarès ha ventuno anni, fa l’attrice. Albert Camus ne ha trenta, è già un giornalista e scrittore noto con una moglie in Algeria.
Smettono di vedersi nell’ottobre dello stesso anno, quando Camus si ricongiunge a F. (Francine Faure, ndr) come la chiamano i due nella loro corrispondenza, perché non aggiunga gravità al peso di un sentimento leale almeno quanto illecito. Quattro anni dopo, sempre a giugno, si incontrano per caso in boulevard Saint German. Non si lasceranno più, sempre insieme in ogni lontananza. Dal 1944 al 1959 si scrivono lettere enormi, anche più volte al giorno. Bompiani ha pubblicato in italiano le 1.568 pagine del loro carteggio con il titolo Saremo Leggeri, traduzione di Camilla Diez e Yasmina Melaouah. Il compendio finale, la testimonianza estrema di quello che la loro relazione insegna a tutti; che l’amore non accade ma si fa accadere.
C’è, in questo epistolario, l’inizio del sentimento accompagnato dalla sua contestuale sublimazione, quella rarefazione, perfetta immortalità che abbiamo conosciuto tutti, almeno una volta. «Sono così felice, Maria. È possibile?» chiede lui, già rapito, e lei risponde «vorrei conoscere una lingua mai usata prima per parlarti».
Si scrivono frasi che non fingono il capolavoro ma lo sfiorano, più o meno volontariamente, sempre. Se oggi possiamo leggere, e così quasi capire, come si può amare «in modo irrimediabile» è perché la figlia di Albert Camus, Catherine, ha trovato le lettere dopo la morte del padre. Pubblicare il carteggio è stato il modo di articolare un ringraziamento, la gratitudine di una lettrice, più che di una figlia.
«Grazie a tutti e due. Le loro lettere fanno la terra più vasta, lo spazio più luminoso, l’aria più leggera, semplicemente perché loro sono esistiti» si legge nella prefazione. Insieme, l’attrice e lo scrittore hanno vissuto «una verità che pochi esseri umani avrebbero la forza di sopportare».
Questo non vuol dire che il loro amore sia facile.
C’è lei, Maria, che si impone di non tracimare per non finire esangue in nome di una fedeltà che la sopravanza. Costruisce «un’esistenza metodica» per vivere nella separazione. Casarès fa appello a tutte le sue anime; l’attrice bellissima e disinvolta, la donna colta dall’ironia raffinata, l’eterna abbandonata, l’amante che non verrà mai sposata e si dice «teniamoci occupate e interessiamoci». Per non soccombere, esagera. Si riempie le giornate dalla mattina presto fino a sera: la radio, le prove, gli spettacoli, le cene e le feste. Comincia le lettere indirizzate a Camus e le lascia aperte, sul tavolo, per compilarle a fine giornata come un rendiconto, per dirsi che ci sta riuscendo, in qualche modo, a vivere senza l’amore della sua vita accanto, per mano. Ma a volte, cade nella fatica e confida subito la sconfitta. «Sono stanca ed è l’una e trenta del mattino, la vita è estenuante».
Non va meglio nelle stanze dei coniugi Camus; il silenzio è pesante con Francine. Albert convive con i sotterfugi e non riesce mai a essere spontaneo, rilassato, presente davvero. Ci sono volte che vorrebbe esplodere, smettere di tacere quello che prova ma non lo fa, anche se «al prezzo di un dolore immenso». Una sofferenza feroce per lo scrittore che crede alla vita solo quando è verità, passione, capacità di ardere. A Maria, la sua «unica», non nasconde niente, riferisce anche queste ribellioni, tutte le rivolte del suo cuore.
Quello che lascia noi destabilizzati, quasi vinti, nella lettura dell’epistolario è la loro urgenza di dirsi. C’è spazio per tutto nel carteggio; una forma di aderenza più che di comunicazione. E così gli elenchi di quello che si è mangiato a pranzo «un piatto di prosciutto crudo. Due uova con il bacon, formaggio e pane a volontà» duettano naturalmente con le dichiarazioni più radicali, senza cedimenti. Lei: «Sì, sono fatta per te» e lui: «Ho una stupidissima voglia di piangere, ma è solo per la troppa vita».
Si raccontano le letture, la poetica della natura nelle passeggiate, le rotture di scatole, i denti cariati e i pettegolezzi, «Certo che Proust era omosessuale!», «la signora Brùlé è divorata dall’orticaria, il che non sorprende sapendo quanto schizzi bile da tutti i pori, e quanto veleno abbia nel sangue» e via così. Anche le banali annotazioni meteorologiche sono profondamente loro. Maria patisce le temperature invernali nella Parigi freddissima e si descrive come «perduta in un letto immenso, sparisco sotto il peso dei cappotti e delle coperte, senza potermi spostare di un millimetro per paura di tramutarmi in pupazzo di neve». Albert risponde divertito da quella donna, attrice infatti, che riesce a incarnare nella stessa pagina fascino tragico e grande ironia «Come dev’essere fredda la tua camera! Non rannicchiarti troppo. Non sparire del tutto. Fermati al puntino. Quando sarai solo un puntino ti amerò ancora lo stesso e ti metterò in tasca. […] Ti stringo a me, ti scaldo le mani sul mio petto, ti copro tutta».
Hanno paura, sempre, quando si incontrano dopo lunghe lontananze. Si scrivono «è assolutamente impossibile che dopo un po’ di tempo riusciamo ancora a parlarci sullo stesso tono» ma nessuna interruzione li travolge mai. In questa intermittenza cambiano e invecchiano insieme, consumando relazioni fugaci e discontinue con altri.
Non manca il lavoro, di lei e quello di lui. Il loro amore è diverso da tutti anche per come vivono il significato dell’altro: sono reciproco sostegno nella battaglia della creazione, nella prostante lotta per la definizione di sé. Lei lo riconcilia con la scrittura, lo salva dalla sterilità, lo invita a lavorare bene perché «ho una gran voglia di leggere il tuo libro; un po’ mi manca Albert Camus». Lo scrittore le dà consigli sulle interpretazioni, manda biglietti prima degli spettacoli, «diecimila in bocca al lupo alla regina del sogno», e le dice che la ama perché non riesce a smettere di ammirarla come persona «in questo mondo tumultuoso e insensato […] diventi piano piano uno dei rari esseri umani che io conosca perfettamente compiuti, testimoni di una felicità superiore, autori del loro stesso equilibrio».
Galiziana, oceanica nei sentimenti come nell’ortografia, Casarès usa la lingua in maniera corporea, le sue parole sono intimissimi amplessi. Vive in quello che dice. E Camus esiste in lei perché «so riconoscere la vita dov’è». Solo l’attrice lo riesce a sottrarre dallo stato di sconforto che segue la produzione di un’opera letteraria, quella fase esitante che lui chiama la «sbronza dell’intelligenza». È in grado di farlo ridere a distanza con le descrizioni grottesche del mondo del palcoscenico «ma ora smetto di fare la scema e ti racconto la mia giornata». Gli permette di essere fragile e fa l’amore con lui «di testa» ovunque, anche quando è in tournée a New York e lui a Parigi.
L’ultima lettera è del 30 dicembre 1959, cinque giorni dopo Albert muore in un incidente d’auto mentre torna a Parigi da Maria. Dovevano cenare insieme il martedì di quella settimana.
Si interrompe la corrispondenza. Ma rimane, tra quelle 856 carte, la promessa di lui a lei, sottovoce, come una preghiera in occasione della loro ultima e più grande lontananza.«Adesso vai, non ti staccherò gli occhi di dosso».
Illustrazione copertina di Francesca Paola Turco, @frappati