Mi piace molto leggere nei bar, non mi disturba il chiasso, non mi distraggono le chiacchiere dei vicini di tavolo o di chi indugia al bancone aspettando il caffè. Non mi sono mai interrogata sul perché fino a qualche giorno fa, quando mentre giravo l’ultima pagina di Lo sterro di Andrej Platonov (minimum fax, 2022) ho sollevato gli occhi e davanti a me non ho visto i kulaki con le pance che scoppiavano di carne ingurgitata a forza e nemmeno l’orso martellatore che instancabile lavora per il socialismo: ho visto invece il mio amico Claudio che raccoglieva piatti e tazzine sul vassoio e una donna con una bambina che si alzava per pagare, frugando nella borsetta alla ricerca del portafogli. Ho trattenuto il respiro per un istante, come a ricucire uno strappo, come a contemplare il portale che divideva quei due universi da me abitati contemporaneamente e quindi esistenti e tangibili solo attraverso quella che Gianni Celati sosteneva essere l’unica cosa che abbiamo al mondo: la disponibilità all’esperienza.
Quello stesso giorno ho proposto a Stefano Malosso un pezzo su Lo sterro di Platanov. Dopodiché ho cominciato a farmi alcune domande, a partire da quella più scomoda in assoluto: interessa davvero a qualcuno? Interessa a qualcuno se Lo sterro mi sia piaciuto o meno? Interessa la mia opinione su un romanzo russo scritto quasi cent’anni fa, purgato dalla censura stalinista, che è sostanzialmente una specie di resoconto allucinato della costruzione del socialismo nelle campagne sovietiche del 1929 e non potrebbe essere più distante dal mio amico Claudio che pulisce i tavoli del suo bar e da me che lo fisso imbambolata? Ci ho riflettuto a lungo, riagguantando la coda di un pensiero più tortuoso che da un po’ di tempo interroga il mondo della letteratura (ma non solo) in Italia: esiste ancora un discorso critico oppure ci siamo ridotti alla dicotomia del bello e del brutto, portati ai rispettivi, isterici ismi, e quindi il capitalismo cognitivo ha vinto pure qui, trasformandoci, quando parliamo di libri, in meri comunicatori pubblicitari? Di fatto, mi sembra, è quello che succede più spesso nella bolla: il merito del discorso non sono più le argomentazioni, le connessioni, gli approfondimenti, non è più la comprensione di quel che leggiamo, il merito del discorso è diventato lo schieramento, la posizione. Vogliamo stare tra gli applausi sperticati degli incensatori entusiastici o al cospetto del banchetto sanguinoso degli stroncatori con la bava alla bocca? Bello, bellissimo, o brutto da fare impressione? Una richiesta che del ragionamento fa tabula rasa e che in certi casi risponde a precise spinte del mercato editoriale, ma io credo che più di frequente abbia a che fare con un bias cognitivo, un atteggiamento a cui faticavo a trovare un nome, ma poi Tommaso Pincio l’ha fatto per me e quindi rubo da lui: l’atteggiamento che porta le persone a considerare i libri non per quello che contengono ma per quello che, secondo loro, dovrebbero contenere.
Questa è un’osservazione molto acuta, a parer mio, soprattutto se invece teniamo ancora per buono l’insegnamento, di nuovo, celatiano: quando leggiamo romanzi dovremmo sospendere immediatamente l’attenzione al mondo in cui viviamo e sospendere l’attenzione al nostro dialogo interiore, altrimenti rischiamo di non capire niente. Capire, ecco: capire, comprendere, prima ancora che esprimere un valore di giudizio. L’esercizio di analisi di un testo passa per forza di cose attraverso la conoscenza e la consapevolezza dei meccanismi narrativi, solitamente con un obiettivo fondamentale: distinguere in un’opera un contenuto di verità, quel tassello abbagliante che si differenzia dall’opacità di altri elementi di valutazione. Questo approccio, lo vediamo, è una postura intellettuale molto diversa dalle dicotomie a cui siamo sempre più abituati: presuppone il possesso e la messa a disposizione di strumenti di indagine e approfondimento. Questa messa a disposizione presuppone a sua volta un altro elemento importantissimo: esiste un’interlocuzione, un ricevente del discorso critico, e così mi verrebbe da dire che è questo il vero banco di prova, cioè quando la critica diventa un momento pubblico e didattico. Insomma, se si vuole parlare di un libro forse si dovrebbe ambire a un’operazione un po’ più articolata, al riparo dalle sciatterie che le polarizzazioni, per loro natura, sono destinate a produrre: in primis termini prescrittivi e tassonomie, difficilmente compatibili con quel meraviglioso esercizio umano che è tenere insieme due pensieri contrastanti e riuscire, in forza di esso, a generare una sintesi di pensiero. Pensiamo a come Nabokov raccontava i grandi romanzi nelle sue Lezioni di letteratura, o come lo ha fatto Italo Calvino parlando dei classici, ma l’elenco sarebbe lunghissimo, da Virginia Woolf a Javier Cercas, da Umberto Eco a Flannery O’Connor. Pensiamo a una considerazione che fece Walter Siti nel suo pamphlet Contro l’impegno (Rizzoli, 2021), riflettendo proprio sulle strade prese dalle analisi critiche più aggiornate: «al centro (…) non c’è tanto la ricerca di senso quanto lo studio sull’efficacia; non quel che un testo significa ma come il nostro cervello si modifica quando leggiamo quel testo». Quindi visione o funzione? Una volta Roland Barthes provò a rispondere e disse che un’opera è eterna non perché impone un senso unico a uomini differenti, ma perché suggerisce sensi differenti a un uomo unico. Di significato, forse, si dovrebbe quindi tornare a discutere.
Ma a questo punto capisco che la domanda sorga spontanea: va bene tutto, e allora Lo sterro di Platonov e tu che dici a Malosso che vuoi scriverci un pezzo? C’entra qualcosa, con tutta questa premessa, e in che modo? Intanto alcune coordinate: Lo sterro (Kotlovan il titolo in lingua originale), ambientato nel 1929, è un romanzo che ha quasi cent’anni. Fu pubblicato per la prima volta all’estero nel 1969 e in Unione Sovietica nel 1987. Al centro della vicenda narrata c’è la costruzione di un edificio pubblico, che del socialismo è l’evidente metafora, attorno alla quale si muovono una serie di personaggi diversamente sventurati. Il primo personaggio che incontriamo è Voščev, un uomo ingenuo, alieno e confuso rispetto ai principi del Partito, che si interroga costantemente sul senso della vita. Compaiono poi gli altri: Safronov, Kozlov, Pruševskij, Čiklin, tutti gravitanti intorno in qualche modo attorno a Voščev, ognuno con peculiari caratteristiche che si riflettono nelle loro personalità e nei loro rapporti con il regime. Li accomuna un obiettivo pratico: la costruzione di una grande casa comune e il romanzo, nella prima metà, racconta soprattutto la fase preparatoria dello sterro. La seconda metà sarà invece incentrata sulle vicende delle campagne coinvolte nei processi di collettivizzazione di quegli anni, che videro la nascita delle cosiddette fattorie collettive (kolchoz). Eccola qui, la Russia di Platonov: che la retorica del Partito stilizza nei rappresentanti della nuova società, come il proletario, il contadino e l’attivista. Ma la vita (e la morte) straripano dagli argini delle propagande umane e così nonostante il soffocamento della lingua dell’ideologia che vorrebbe ragionare solo di lavoro, entusiasmo, fatica, fede nella causa, Voščev e gli altri non possono che raccontare una versione ammaccata di sé stessi, la più autentica, e cioè una versione che non collima affatto con quei dettami. Molto amato da Iosif Brodskij, Platonov nella Russia sovietica non fu mai pubblicato e per ragioni che si possono facilmente dedurre: della sua lingua letteraria Brodskij disse che possedeva una spietata, implacabile assurdità e che a leggerlo ci si sentiva in gabbia, sperduti e abbagliati; l’edizione italiana di minimum fax è curata da Ivan Verc, docente di Lingua e Letteratura russa presso l’Università di Trieste e Verc è anche autore del saggio iniziale Il riscatto della memoria, ottima guida alla lettura del romanzo. Nel periodo della collettivizzazione forzata delle campagne Platonov scrive Kotlovan e racconti e romanzi critici verso la violenza delle modalità di esproprio, nonché della tragicomica baraonda che investe la vita rurale, assai lontana dagli obiettivi del regime. Durante il secondo conflitto mondiale lavorerà come corrispondente di guerra e morirà nel 1951, in assoluta miseria e completamente obliato dal panorama letterario nazionale. In Lo sterro ci sono alcuni elementi di notevole ambizione narrativa: intanto il romanzo sfrutta un impianto linguistico e storico così curato e preciso – come dice Verc nel suo saggio, «può essere considerato come una vera e propria enciclopedia di un segmento particolare della vita russa della fine degli anni Venti e un’eccellente fonte storica per la comprensione di quell’epoca che in Urss fu conosciuta come realizzazione del primo piano quinquennale» – da aderire, anche lessicalmente, ai contenuti di propaganda del tempo (le note in fondo al testo garantiscono una comprensione chiara di tutti i riferimenti). Ma il protagonista, Voščev, si staglia su questo sfondo come un letale rogue object narrativo: licenziato dalla fabbrica perché nel bel mezzo del lavoro si mette a meditare, alla ricerca del senso della vita, Voščev rompe l’aderenza alla Storia e introduce una spiritualità tanto naïf quanto speculativa. Cerca le sue risposte dove il Partito gli suggerisce, guarda ai proletari impegnati nella costruzione della casa sullo sterro, e quindi nella costruzione del socialismo, ma s’imbatte soltanto in disillusione e fatica. Si rivolge all’ingegnere Prusevskij, che con le sue competenze dovrebbe sapere come è stato edificato il mondo, ma lui stesso è confuso e sta anzi pensando di suicidarsi. Voščev comprende il fallimento del socialismo e questa è un’idea, prima che una storia: il fatto che stia dentro una narrazione, dentro un romanzo, ne protegge gli stati crepuscolari, le zone grigie che se trattate nella prosa saggistica o nell’informazione, attraverso le necessarie generalizzazioni della prima e la naturale pervasività della seconda, rischierebbero di andare perse. Insomma, è un sentire che va al di là dei concetti, legandosi a un’ambientazione che funziona da apparato conoscitivo, da strumento. Alla fine Voščev abbandona le operazioni di costruzione della casa comune e si avvia verso le campagne. Qui il racconto assume i tratti di un realismo disturbante, ma l’elemento paradossale che Platonov inserisce in questa parte, l’orso-fabbro piegato al lavoro dell’uomo e all’ideologia, sembra tornare sulla questione dell’impossibilità di contenere umanità e narrazioni dentro limiti brutalmente prescrittivi. La natura subisce la violenza del Partito: lo sterro ma anche l’orso, l’animale alienato dalla propria condizione, così come le vacche e le pecore ammazzate e mangiate dai kulaki che non vogliono lasciarle al Partito. Il mondo appare senza speranza, si può solo provare a opporsi con quel che resta dentro di noi, sembra dire Platonov. A Voščev l’impulso dice che forse vale la pena guardarsi indietro, salvare il passato per vendicarsi di un presente desertificato e di un futuro che non è nemmeno più immaginabile: così si mette a fare una cosa che possiede un lirismo sommesso e una concretezza clamorosa, e cioè inizia a raccogliere in giro vecchi oggetti appartenuti ai contadini. Il realismo di Platonov, qui, coglie impreparata la realtà, perché Voščev è capace di averne una visione anagogica:
«In nome della vendetta socialista aveva raccolto nel villaggio tutti gli oggetti miserabili, reietti, ogni inezia d’una vita anonima e tutto ciò che s’era perso nella memoria. Quelle vecchie cose logore e pazienti un tempo erano state a contatto con la carne della razza dei braccianti, in quelle cose s’era impresso per l’eternità il peso d’una vita a testa china, sperperata senza averne trovato il senso consapevole e finita senza gloria da qualche parte sotto la paglia di segala della terra».
E proprio qui, a questo punto del romanzo, mi è accaduto di pensare che per tornare a parlare di libri in maniera profonda e complessa potemmo fare come Voščev, ribellarci alle rigidità del dibattito odierno che forse ambisce a costruire per tutti e tutte una grande casa comune dove potremo certamente vivere in pace, ma abitati da pensieri stilizzati, bene versus male e bello versus brutto, il conflitto non inteso più come il concetto fulcro dello scambio quanto come una mortale minaccia per lo stesso. Come Voščev potremmo concentrarci sul senso della vita, e quindi sulla bellezza, rifiutando la sciatteria di opinioni tagliate con l’accetta, rigettando posizioni e analisi che semplicemente ci rafforzano in ciò che crediamo di sapere. Ho pensato alla differenza tra informarsi e formarsi, faccenda tanto cara a Luciano Bianciardi, e che vale anche per come pensiamo alla letteratura. Ho pensato che i grandi romanzi riescono a gettare la buccia del giorno oltre la siepe, a vivere in presenza di un realtà coagulata. Virginia Woolf diceva che a mano a mano che si legge, ogni frase, ogni scena si illumina e il mondo allora sembra denudato dai suoi veli, consegnato a una vita più intensa: così, chiuso il romanzo di Platanov, nel mio bar c’erano tavoli da sparecchiare e orsi martellatori, questioni di comprensione e valori di giudizio, e un grande sterro dove accapigliarci sui grandi enigmi e sui paradossi irriducibili della letteratura mentre i contadini mangiano le proprie bestie per non cederle al potere, tutto insieme in quel preciso momento e davanti ai miei occhi, il mistero delle storie raccontate. Come un’imminenza di rivelazione per la quale tuttora non possiedo parole adatte, come aver acceso, con questo articolo, un cerino nel mezzo dell’impenetrabilità che ci circonda: ma Faulkner mi consolerebbe, perché non è vero che un cerino non permette di vedere nulla, un cerino permette di vedere l’oscurità.
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Mika Baumeister su Unsplash