C’è la casa Suono e Amore, quattro inquilini (i vicini parleranno di «setta») che credono di potersi alimentare solo di luce e che mangiare e bere siano attività controproducenti al raggiungimento di un intimo legame con l’universo. Sono Melodie, Elisabeth, Muriël e Petrus. I rapporti in casa non sono alla pari: forse dovrebbero, forse alcuni di loro credono anche che sia così, ma non lo sono.
Un giorno, Elisabeth muore per denutrizione e nessuno fa niente per impedirlo. Elisabeth muore «in maniera naturale», come qualcuno di loro proverà a spiegare durante gli interrogatori. Ma come si fa a morire naturalmente per denutrizione? Perché nessuno ha agito quando si poteva ancora salvarla?
È così che prende avvio Noi siamo luce (Iperborea, 2022), primo romanzo della scrittrice e poetessa olandese Gerda Blees, vincitore del Premio dell’Unione Europea per la letteratura 2021.
Ogni capitolo è narrato da una prima persona diversa, spesso e volentieri appartenente a oggetti o ad astratti antropomorfizzati: prendono parola, tra gli altri, la notte, il pane quotidiano, la scena del crimine, l’odore di arancio, il dubbio, due sigarette, una penna. Il fatto che ci siano continuamente punti di vista così differenti tra di loro non compromette la linearità del narrato. L’impostazione generale del discorso, quindi, non ha apparentemente un approccio così rivoluzionario – spesso e volentieri questi oggetti sembrano avere personalità assolutamente indistinguibili tra di loro. Quella che però potrebbe essere una criticità si può capovolgere di segno e considerare come uno dei principali punti di forza del romanzo: si evita così innanzitutto un’eccessiva frammentazione del discorso, ma c’è anche una motivazione ideologica più profonda che si comprende solo a libro chiuso.
Ciò che emerge per la maggiore tra tutte queste prime persone è una profonda comprensione dell’accaduto e una volontà di svelarne i retroscena, in particolari che altrimenti sarebbero inconoscibili con qualsiasi tipo di narratore che non sia onniscente. E tra di esse ci sono anche alcuni esseri umani: quando saranno i genitori e i fratelli della vittima a prendere parola, vedremo messo in scena un continuo meccanismo di deresponsabilizzazione – che certamente ha poco di neutro – mentre nei discorsi dei vicini il tratto distintivo sarà quello del giudizio:
«non possono mica impedirci di dire ciò che pensiamo, perciò diciamo che non mangiavano, o perlomeno, non abbastanza, nessuno dei quattro. Anche se in realtà viene da chiedersi il motivo di tutta questa polizia, perché mangiare poco a quanto ne sappiamo non è un reato. Viviamo in un paese libero. Non che noi non abbiamo un’opinione al riguardo, ma ognuno fa la sua vita. Certo, mangiare così poco da morire è un po’ estremo, questo sì.»
Ma in tutta questa storia, c’è un cattivo?
Gerda Blees, attraverso tutti questi vari punti di vista che raccontano la vicenda, fa crescere i dubbi in chi legge. È comodo stare lì, esterni alla storia, a indignarsi, a puntare il dito, credendo di aver capito tutto. Ma noi siamo poi così sicuri che ci saremmo comportati diversamente rispetto a Petrus, a Muriël? L’essere umano è profondamente incoerente e il suo equilibrio psichico può essere più fragile di quanto non si immagini. Pensiamo a Liesbeth, l’investigatrice che giudica continuamente i presunti colpevoli – va detto, anche e soprattutto per sue questioni personali che si scoprono leggendo – mentre si scrive di lei che «ancora ribollendo di rabbia per quanti si privano deliberatamente della vita, incoraggiati da bugiardi e ciarlatani, prende l’ascensore per la terrazza dell’ultimo piano, dove fuma due sigarette di fila». Ma non è solo questo.
Abbiamo bisogno di un capro espiatorio, di dare la colpa a qualcuno.
Dapprima, allora, la colpa viene assegnata dai lettori alla stessa vittima e a tutti gli inquilini che non l’hanno aiutata quando avrebbero potuto; successivamente, comprendendo sempre più i rapporti di potere che caratterizzano i quattro, si tende a dare tutta la colpa a Melodie, manipolatrice e apparentemente priva di provare empatia, per poi scoprire però che anche Melodie è reduce da alcuni traumi della sua vita passata, che l’hanno irrimediabilmente segnata, quindi non ci si sente più di dare la colpa neanche a lei perché, insomma, avere dei traumi e dei conseguenti disturbi psichici non è una colpa. Però la responsabilità è comunque sua, quindi forse si potrebbe dargliela, un po’ di colpa. E poi lei è una persona così snervante: è una prevaricatrice, si prende gioco delle anime più fragili.
E rimane il fatto incontestabile che Elisabeth sia morta. È «una persona che aveva bisogno di aiuto e a cui invece è stata prescritta una dieta mortale». E sì, certo, non ci sono «segni di costrizione» sul suo corpo, ma la costrizione non è solo fisica. Elisabeth «negli ultimi anni non poteva più dire niente senza essere contraddetta o corretta», al punto che dei muscoli connessi alle sue corde vocali era rimasto ben poco.
E così, capitolo dopo capitolo, si segue il corso degli eventi senza più alcuna certezza. Lo scavo psicologico di tutti i personaggi rende impossibile riuscire davvero a vedere qualcuno come il villain. Che essi siano volenti o nolenti, Blees costringe i lettori a un continuo ritorno indietro, a una messa in discussione delle proprie convinzioni.
Questo diviene ancora più chiaro quando ci si imbatte in un capitolo metanarrativo, dove a prendere parola è la narrazione stessa. Qui si riflette sulle scelte di chi scrive e si anticipa la conclusione, «una conclusione che forse non vi soddisferà in pieno. Ve lo diciamo fin da ora, per evitare delusioni: non ci scoprirete molto diverse da come vi aspettavate» – forse una frase un po’ alla venticinque lettori manzoniani, ma che dà anche un segnale forte sul motivo per cui valga la pena leggere Noi siamo luce.
Non è importante che sia effettivamente tratto da una storia vera – e lo è – perché all’autrice non interessa certamente portare avanti un’inchiesta, e non è neanche tanto rilevante quale sia il finale. Ciò che è davvero rilevante è piuttosto l’altalena emotiva che si prova durante la lettura, che l’autrice è molto capace a innescare riportando in continuazione le ragioni di tutti i personaggi, inevitabilmente opposte tra di loro. Come si fa a parteggiare davvero per qualcuno?
«Accade che le persone […] siano misteri insolubili», che tutte le scelte di tutti non siano casuali, che anche gli esiti più tragici, come la morte di qualcuno per denutrizione, non sia per forza frutto di cattiveria o sadismo. E che non sia possibile pensare che si possa guardare una storia da un unico punto di vista.
«Noi siamo la dissonanza cognitiva. La sensazione spiacevole che vi assale quando la realtà non sembra conciliarsi con le vostre convinzioni. Quando in base al vostro comportamento siete costretti a constatare che in effetti siete più meschini, mediocri e permalosi di quanto non abbiate mai pensato. Siamo la smorfia che per un attimo vi contrae il volto, solo pochi secondi, giusto per darvi il tempo di inventare una versione che capovolga i fatti, o il vostro coinvolgimento nei fatti, così da far di nuovo quadrare tutto. Noi siamo il padre e la madre del vostro autoinganno».
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