Come si diventa autori nel cinema contemporaneo? Sperimentando, contorcendosi, spingendosi oltre se stessi, provando ogni strada possibile. Dal minimalismo quasi avanguardista di Kinetta (2005), ai successi festivalieri di Kynodontas (2009) e Alps (2011), fino alla corsa agli Oscar con La favorita (2018). Questo il percorso che ha portato Yorgos Lanthimos a diventare il maggior esponente del cinema greco, oltre che uno dei registi più complessi e ricercati dei nostri tempi.
Dedicargli una monografia era d’obbligo. Anestesia di solitudini, saggio scritto con Roberto Lasagna ed edito da Mimesis Edizioni, da pochi giorni in libreria, è un tentativo di analisi di un cinema complesso e stratificato, che va ben oltre le apparenze. Estraniante, cinico, difficile, crudele ed estremo, potente a tal punto da saper smuovere il più incallito cinefilo, Lanthimos è la nuova frontiera dello sconvolgimento cinematografico, sia dal punto di vista visivo, sia da quello linguistico.
L’ultimo grande successo del regista greco, La favorita, è stato un salto nel mainstream di qualità, l’abbandono del sadismo esplicitato, per mettere in scena una complessità psicologica disturbata e fortemente autodistruttiva. Riconoscibile tra le pieghe di un film barocco e strutturato, Lanthimos sembra essere nel pieno di un progetto di metamorfosi radicale. Vero, ma non del tutto, prova ne è il cortometraggio Nimic, selezionato prima al Locarno Film Festival e poi alle Giornate degli Autori 2019. Un ritorno alle origini, all’asetticità, all’apatia dei corpi e delle menti, oltre che agli straordinari e acuti collaboratori di sempre – lo sceneggiatore Efthymis Filippou, del cui tocco si sente la mancanza ne La favorita.
Dodici minuti per essere affilati e taglienti, per costruire e decostruire i rapporti, annullando la specificità del singolo. Quello della sostituzione è un tema caro a Lanthimos sin dai tempi di Alps, dove un gruppo di “supporto psicologico” si impegna a prendere il posto di un defunto nel suo nucleo famigliare. In Nimic la sostituzione è un rituale comune all’uomo, quasi una regola da seguire per vivere nella propria epoca. Il protagonista, interpretato da Matt Dillon, è un padre di famiglia con una routine molto precisa: sveglia, colazione – un uovo che deve bollire esattamente 4 minuti e 15 secondi – e un ingaggio in un’orchestra d’archi. Sulla metropolitana entra in contatto con una ragazza seduta davanti a lui attraverso un codice che recita: «Excuse me, do you have the time?» . La ragazza seguirà l’uomo fino a casa, ed insieme porranno la famiglia – moglie e figli di Dillon – davanti ad un’ardua decisione: decretare chi dei due è il vero genitore/capofamiglia.
Chiunque può essere chi vuole, nel senso più letterale possibile, vestire i panni e prendere il posto della persona desiderata. La conseguenza di questa arbitraria sostituzione è che viene annullata ogni individualità. L’uomo diventa un fantoccio governato da una qualche forza superiore che lo vuole sospeso, costretto a recitare una parte che non è mai la stessa. La sostituzione è un ciclo ripetitivo in questo immaginario sempre al limite tra incubo e distopia, da cui nessuno si può esentare. L’azione sembra quasi dover essere un passo da compiere per maturare o più semplicemente per sopravvivere. L’uso di una frase sconnessa ed estranea a qualunque contesto è un’evoluzione di quella perdita di significato del linguaggio che Lanthimos e Filippou portano avanti, imperterriti, da una decina di anni per sottolineare come l’uomo, privato di un canone espressivo che lo rispecchi, non sia altro che un corpo inerte mosso per inerzia. La ragazza pronta a sostituire il protagonista, infatti, non fa altro che ripetere meccanicamente, con pochi secondi di scarto, ciò che viene detto, ribadisce il concetto, ma non lo rafforza. Non c’è nulla di incalzante o di sentito, ogni forma di percezione emotiva è anestetizzata. La domanda richiede una risposta, come arrivarci non importa. I figli e la moglie devono compiere una scelta – inerente alla figura che vogliono avere quotidianamente attorno – senza troppe esitazioni.
Come sempre accade ai personaggi messi in scena da Lanthimos, la scelta provoca una paralisi. Per paura, spaesamento o più frequentemente per inettitudine, l’uomo non è in grado di sopportare il peso di una decisione. Se costretto da cause di forza maggiore, punzecchiato dal tempo o dal perentorio ordine di chi esercita potere, sfida la sorte e lascia che il caso decida per lui. La moglie bendata – esattamente come il protagonista de Il sacrificio del cervo sacro – compie un gesto insolito e totalmente involontario. Quel che ne consegue viene accettato con assoluta noncuranza. Tra le righe è facile intuire che i personaggi di Nimic non conoscano alcuna normalità, anzi che questo concetto sia completamente estraneo al loro stile di vita e alla loro mentalità.
L’impassibilità e l’apatia, classiche caratteristiche degli uomini che popolano il cinema del regista greco, vengono estremizzati, e riportano alla luce la tesi già teorizzata in Alps: la possibilità che l’umanità contemporanea non sia altro che una banda di replicanti ammaestrati, e poi imprigionati in una bella casa borghese, sterile teatro dell’incomunicabilità dilagante.
Lanthimos abbandona i fisheye e torna a dar peso ai dettagli, unici indizi per un’interpretazione che non può in alcun modo far affidamento sulla parola. La colonna sonora continua a dettare la scansione temporale e a colorare le scene conferendo loro pathos e austerità. La sceneggiatura ridotta all’osso esalta l’espressività di sguardi vitrei e di emissioni vocali stroncate sul nascere, punta alla scomodità e al disagio.
Lo spettatore è intimidito, ma anche attratto dalla perversione di un cinema conturbante, all’apparenza vuoto, che si fa veicolo di una filosofia intrisa di verità. Il tumulto interiore che film così brutalmente magnetici sono in grado di generare, diventa la nuova soglia dell’esplorazione interiore, della riflessione, della condivisione. Yorgos Lanthimos, timido, silenzioso, con le sue idiosincrasie sa stupire, senza effetti speciali, solo con la forza della sua inquietudine.