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Visioni di una città. William Blake tra innocenza e esperienza

Vivere in città può sembrare scomodo, scontato, catastrofico per alcuni.
La città è dove incontri masse di persone ogni giorno, eppure puoi percepire la solitudine altrettanto quanto in una desolata campagna. La città è dove nuvole e fumo si accalcano nel cielo, e non per via di un qualche fenomeno naturale. Essere in una città significa abituarsi alla luce, anche di notte, e alla mancanza di stelle nel cielo. Vivere in città significa correre, stare al passo con il dinamismo, con il mutare degli eventi, dove spazio e tempo sono continuamente in conflitto. Significa essere una gazzella che fugge da un leone, ma senza avere una radura in cui allontanarsi. La giungla della città può essere davvero opprimente.
Tuttavia la città è anche il luogo degli incontri fortuiti, delle possibilità, delle probabilità, dove tutto può succedere. Pertanto, tra incontri fugaci e paesaggi urbani, ho deciso di ambientare qui questo racconto. E ho deciso di fare due passi indietro, quando la parola città non era ancora sinonimo di grattacieli e schermi pubblicitari luminosi.

Non posso non parlare di metropoli senza chiamare in causa due dei primi autori che hanno fatto dell’urbanscape un fenomeno poetico e letterario, molto prima che questo hashtag spopolasse su Instagram e sull’intero web: William Blake (1757-1827) e Charles Baudelaire (1821-1867). Blake, attraverso illustrazioni, dipinti e poesie, ci parla della società e della Londra a lui contemporanea, pur servendosi fortemente di simboli e metafore. Analogamente Baudelaire ci racconta la Parigi del suo tempo, cruda e viva, in cui amava vagare e osservare senza darsi una meta definita.
Se è vero che la natura rappresenta idillicamente la giovinezza, la purezza e l’innocenza, la città si fa simbolo della corruzione; è sofferenza, e soprattutto esperienza. Da qui Songs of Innocence (1789) e Songs of Experience (1794), i due indiscussi capolavori del poeta inglese, da lui stesso illustrati e stampati attraverso la tecnica dell’incisione. Le due opere mostrano una struttura simmetrica al loro interno, per cui ad ogni poesia dell’innocenza corrisponde un componimento ribaltato nell’esperienza.
Quella stessa struttura che ho potuto ritrovare nella mostra William Blake: The Artist, la spettacolare retrospettiva su Blake inaugurata a Londra lo scorso settembre alla Tate Britain e appena terminata. In questa sede, tra i cosiddetti “libri illuminati”, a spiccare sono proprio le due raccolte di poesie, pubblicate dal 1794 sotto il titolo unico Songs of Innocence and Experience. Un’opera illustrata che rappresenta una delle principali attrazioni della mostra, nonché un componimento unico nel suo genere. Non mancano arcaismi, metafore e simboli di provenienza sia biblica che mistica e massonica.

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Songs of Innocence and Experience ‘The Tyger’
Cincinnati Art Museum, Gift of Mr. and Mrs John J. Emery, 1959

La nota istituzione londinese aveva già presentato una mostra sull’autore nel 2000, mostrandone le sue caratteristiche come artista poliedrico e artigiano. Con la recente esposizione la Tate, servendosi di numerose opere provenienti dalle collezioni private di tutto il mondo, ha voluto non solo enfatizzare l’importanza che la figura di Blake ha avuto per le successive generazioni di scrittori, poeti e pittori, ma anche offrirne una visione più umana, in carne e ossa, vulnerabile nelle sue ambiziose pretese e nei suoi fallimenti come artista.
Deluso dai rifiuti della Royal Academy of Arts, che considerava le opere di Blake eccessivamente anticonformiste rispetto allo stile e ai dettami dell’epoca, nel 1809 l’artista presentò una mostra personale nell’appartamento di famiglia, a Soho, in un edificio ormai demolito. Si presume che il pubblico potesse accedere all’esposizione tramite la bottega al piano terra gestita dal fratello. Si trattò tuttavia di un vero fallimento critico e questo spinse Blake a ritirarsi dalla scena pubblica. Dovette passare un secolo perché le sue opere venissero nuovamente esposte, riabilitandolo come autore fondamentale nella storia dell’arte e della letteratura europea.

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William Blake: the Artist

Come si evince dal titolo, il percorso allestito si concentra sulla figura di Blake come artista visivo, privilegiando le sue doti pittoriche, spesso considerate accessorie alla pubblicazione dei suoi testi. Particolare è stata anche la scelta di riprodurre, attraverso l’espediente della mise-en-scène, la cupa sala espositiva che Blake aveva allestito nel 1809.
Nel seguire il percorso curato da Martin Myrone ed Amy Concannon, rispettivamente Senior Curator e Curator della Tate Britain, specializzati in arte inglese del Settecento e Ottocento, si percepisce la figura di Blake come artista visionario, mistico, grande interprete della sua contemporaneità, ma se ne intravede anche la sua dimensione tragica: un artista incompreso e costretto a lottare contro un sistema che era solito privilegiare le mode dell’epoca, piuttosto che prendersi dei rischi, una tematica che rimane molto contemporanea e attuale.

I wander through each chartered street,
Near where the chartered Thames does flow,
A mark in every face I meet,
Marks of weakness, marks of woe.


Vago attraverso le strade monopolizzate,
Vicino a dove scorre il Tamigi monopolizzato,
E noto in ogni faccia che incontro
I Segni della debolezza, i segni del dolore.

Così si apre London, poesia racchiusa all’interno di Songs of Experience, in cui troviamo una Londra corrotta dal male, dalla povertà e dalla sofferenza. Una realistica interpretazione della capitale inglese all’apice della rivoluzione industriale, dove il vagare di Blake si discosta dal vagare romantico del poeta William Wordsworth (1770-1850) nel suo celebre componimento I wandered lonely as a cloud dove l’innocenza, la pura immaginazione e la simbiosi con la natura sono elementi essenziali.

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‘Europe’ Plate i: Frontispiece, ‘The Ancient of Days’ 1827
The Whitworth, The University of Manchester

Analogamente possiamo prendere come riferimento le passeggiate intese dal poeta bohémien per le strade di una Parigi ottocentesca: Baudelaire definisce flâneur colui che passeggia, vaga senza una meta attraverso un paesaggio urbano, osservando situazioni, persone, strade e tutto ciò che alimenta il traffico cittadino. Grazie alla sua stessa flânerie Baudelaire incontra le figure che fanno eco nelle sue poesie, insieme alle scene urbane che dipingono la società e i cambiamenti di allora.
Così scrive nei Fleus du Mal, dopo uno degli incontri fortuiti nella capitale francese: 

Un éclair… puis la nuit! — Fugitive beauté 
Dont le regard m’a fait soudainement renaître,
Ne te verrai-je plus que dans l’éternité.

Un lampo… e poi il buio! – Bellezza fuggitiva
che con un solo sguardo m’hai chiamato da morte,
non ti vedrò più dunque che al di là della vita.

William Blake e Charles Baudelaire rappresentano due eroi tragici, che nel loro essere incompresi e maledetti hanno saputo resistere facendo sopravvivere un patrimonio artistico unico. Un patrimonio che, attraverso allegorie e simboli, ancora oggi viene preso come riferimento e fonte di ispirazione. Soprattutto, mi piace attribuire a loro per primi uno dei temi più cari al mondo della letteratura e delle arti visive, ossia l’elemento ricorrente per cui personaggio e ambiente circostante vivono un rapporto quasi simbiotico.
Quante volte siamo soliti associare un autore alla sua città? Quante volte in una storia, che si tratti di un romanzo o di una pellicola cinematografica, il protagonista si evolve, dialoga e si specchia con il proprio contesto? E se è vero che Londra corrisponde a Blake, così come Parigi è associata a Baudelaire o Dublino a Joyce, allora è esatto definire il contesto della metropoli carico di dinamismo, introspezione, evoluzione, così come lo sono i personaggi delle storie che amiamo, gli eroi tragici dell’epoca contemporanea e gli stessi autori che hanno saputo creare un legame così forte con le loro città. Tanto da far sopravvivere all’interno di quel perimetro un po’ della loro eterna presenza.

In copertina: William Blake, Newton 1795-c. 1805, Tate

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