«E so che domani mattina mi sveglierò tremante di freddo.»
Lullaby, The Cure
È notte e una tigre attraversa le strade di Roma, silenziosa e paga. Intorno a lei non c’è più niente, o quasi, ha divorato tutto, o quasi, e non ha più fame. Intanto, quattro amici, giovanissimi e scalcinati, salgono sull’auto di uno sconosciuto e lo spaventano. Lo fissano dritto negli occhi e gli raccontano incubi e favolacce. Sono tigri anche loro, bestie che hanno reciso la gabbia, animali affamati, ragazzacci tutti istinto e muscoli magri. Intorno a loro non c’è più niente, o quasi, hanno divorato tutto, o quasi, ma hanno ancora fame. Nella carne c’è la fame: più mangi e più ti viene. Per la strada c’è la fame: la percorri e ne vuoi ancora, vuoi mangiarla per non essere mangiato.
«Ho paura di essere divorato da mille milioni di voragini pelose e tremolanti», canta Robert Smith in Lullaby, il capolavoro noir dei The Cure. Non è un caso che sia proprio questo brano del 1989 a trascinare i nostri occhi, e insieme tutti i nostri corpi, in quel buco peloso e tremolante che è Rossosperanza, il lungometraggio di Annarita Zambrano recentemente presentato al Festival di Locarno. Un film che è una ninnananna oscura e disturbante, una filastrocca della notte che gioca con gli incubi e le paure, un sogno lucido di onice nera, che non si sa quando inizia né quando finisce, non si sa – a dire il vero – se mai davvero inizia e se mai davvero finisce. Rossosperanza è una fiaba acid rock, che esplode tra le mani. Racconta di Zena e di tutta la generazione a cui appartiene: la lost generation figlia dell’alta borghesia romana degli anni Novanta, una schiatta di ragazzi, ragazze, ragazzə che hanno tutto ma non la cura. Ricchi, ricchissimi e dimenticati. Bambini merlettati nelle fauci delle bestie, fanciulli di perla in case di petrolio. Zena, dicevamo, e insieme a lei Marzia, Alfonso, Adriano e Tommaso. Tutti colpevoli di aver compiuto un gesto estremo, un personalissimo atto di sovversione totale. Bruciano, divorano, comandano la vita oppure la morte, silenziosamente scappano e si vendono, rubano e poi tornano, forse. C’è chi gioca con il veleno e chi gioca con il sesso, chi con il fuoco e chi con il mare, chi con il sangue e chi con le parole. Sono adolescenti unici e invisibili – queer o affamati, balbuzienti e imperfetti, fragili o sfacciati – che rispondono all’indifferenza con le urla e le rosse verniciate. Più li censurano, più loro rispondono. Più li ostacolano, più esplodono. Ed è per questo – per questa ostinata ribellione, per questo definitivo rifiuto del mondo e del proprio cognome – che vengono ricoverati a Villa Bianca, una clinica d’élite che simboleggia l’espiazione e il perbenismo, la morale e il passato. Qui si incontrano e insieme, senza dirselo, sognano un nuovo mondo, una vita partorita dal niente, slegata da tutto. Insieme, bestemmiano il mondo e lo abortiscono. Insieme rifanno il mondo, ci provano. Imparano a occupare con il corpo e la voce un posto che gli è stato sempre negato.
Colpisce soprattutto questo di Rossosperanza, l’uso massiccio dei corpi sullo schermo, che sono a volte significanti vuoti e altre volte significati in costruzione. Come si diceva, sono corpi sempre sghembi: famelici, senz’altro, e feriti poi cauterizzati. Corpi magri, tremanti di una fame che non sazia. Corpi di rabbia, corpi rossi di vendetta, corpi sporchi di sangue. Corpi pacchiani e coloratissimi, smaccatamente pop, squillanti e chiassosi, corpi scandalosi di maschi-non maschi e femmine-troppo femmine, occhi inverecondi sopra bocche immonde, mani colpevoli che sono margini di carni esagerate, immodeste e impertinenti. Corpi tartaglianti e sbrindellati, segnati sul petto e sulle labbra, corpi kamikaze, che esplodono e poi muoiono. Corpi di bestie colpevoli e impenitenti, ragazzini eretici e senza dio, atei di famiglia e di certezze, figli condannati di padri corrotti e di madri conniventi. Tommaso, Zena, Alfonso, Adriano e Marzia, poi tutti gli altri, i rampolli di Roma. Gli eredi di famiglie claustrofobiche e depravate, che copulano con il potere dei papi e della politica e che quello stesso potere lo introiettano e lo replicano nel prisma domestico, che è sempre la cellula primigenia, il nucleo minimo degli assetti societari e delle istanze del mondo. Quel sistema abominevole – per dirlo con Woolf – che spesso non fa che replicare dentro il fascismo che c’è fuori. Rossosperanza è una pellicola di denuncia, una critica efferata contro gli abusi di potere e contro il vecchio mondo dei padri e dei nonni. I padri, appunto. Da un lato, i giovanissimi – cigni e pavoni – dall’altro i volti dei padri, qui interpretati da uno stesso attore, il bravo Andrea Sartoretti, incarnazione del maschio, di tutti i maschi figli di un certo mondo avvizzito e naftalinico. Richiamando alla memoria i romanzi di Teresa Ciabatti e le pellicole dei D’Innocenzo, Zambrano dà corpo a una fiaba detonante che massacra il potere e i suoi sentinelli, a una leggenda popolare ancestrale e modernissima dove i più giovani – stanchi e colmi di rabbia – liberano le bestie e diventano bestie.
Immagine copertina: The Wom