«Si sentono delle storie a proposito di cose che accadono su Mulholland Drive. È una strada piena di mistero e di pericoli. Ed è come guidare sul tetto del mondo, guardando giù la Valley e Los Angeles. Si vedono questi panorami incredibili, quindi è alquanto onirica oltre che misteriosa.»
David Lynch
Strada celeberrima, non solo per un film (che molti considerano il capolavoro di Lynch e, fino a oggi, il film più emblematico e rilevante del XXI secolo), ma per la straordinaria quantità di visioni panoramiche della “città degli angeli” che offre dall’alto del suo percorso lungo le colline di Hollywood, le Santa Monica Mountains, i canyon. Dall’inizio di gennaio Mulholland Drive brucia insieme a Hollywood e a Los Angeles, i suoi abitanti vengono evacuati, le loro residenze vanno in fumo. David Lynch, già confinato in casa a causa di un grave enfisema, deve abbandonare la propria casa nell’area tra Mulholland e l’Hollywood Boulevard per quella della figlia, dove muore il 15 gennaio, cinque giorni prima di compiere 79 anni.
Scompare gran parte della Los Angeles che abbiamo conosciuto, non solo attraverso i film ma anche dal vero. E scompare l’autore che, non tanto l’ha meglio o più spesso rappresentata (sono pochi i film di Lynch ambientati in città, lui preferisce la provincia, cinquantamila abitanti o giù di lì), quanto quello che ha meglio rappresentato la sconcertante enunciazione del patto tra spettatore e film, la sospensione dell’incredulità: tu sai che io so, sai che so che devo credere, perciò non si gioca più sulla presunta ingenuità, sull’istintivo abbandono della razionalità, ma sulla volontaria, reiterata complicità. La mise en abyme diventa una funzione fondante nel suo cinema, non più solo un amplificatore, uno specchio, ma il nucleo stesso della rappresentazione, della storia.
Entrando in un film, o in una serie TV, o in un’installazione, in una delle tante case e stanze inventate e allestite da David Lynch, sappiamo che stiamo entrando in un sogno. Di un sogno, di un sogno, di un sogno. Che poi magari parte da presupposti molto semplici, da quotidiane visioni: la storia, in periodi e contesti distanti, di due “diversi”, più o meno “mostruosi”, o quella di due ragazzi che si amano e fuggono attraverso l’America dalla madre di lei che vuole impedire la loro unione, o quella di un’attrice che vuole a tutti i costi una parte, o quelle, intrecciate, complicatissime e banali, degli abitanti di una tipica cittadina americana, tra amori, tradimenti, inganni. Possiamo entrare nel territorio del thriller, del mélo, della soap, del road movie, del noir soprattutto (dimentichiamo la fantascienza e Dune che, ammettiamolo, per motivi diversi, probabilmente produttivi, non gli è venuto bene), ma ogni volta il genere, per quanto formalmente rispettato quando non addirittura ”esibito”, devia, s’incarta, si rilegge (si osserva), si rispecchia in una grottesca (o paurosa, o comica) deformazione di se stesso.

Il road movie selvaggio dei due innamorati in fuga diventa l’eterna fiaba di Oz (che pure era un on-the-road) con una strega bionda e cattiva dell’Ovest, così come l’infinita soap-thriller della provincia americana diventa uno degli studi più complessi e inquietanti sull’orrore (e sulla comicità) della loro/nostra vita quotidiana. David Lynch non ha mai fatto un horror, ma se mai versioni individuali e “casalinghe” dell’horror (come quella di Isabella Rossellini, non sul palcoscenico mentre canta, sexy, Blue Velvet, ma in casa, tristissima, con la vestaglia un po’ sciattona di velluto blu). E Lynch ha un grande senso dell’umorismo, palese, esplicito quasi ovunque, persino in certi momenti di disarmante autocompiacimento di John Merrick nell’irresistibile interpretazione di John Hurt, ed esibito e ricercato spesso in mezzo ai bad guys, da Velluto blu in avanti e lungo tutto il ciclo Twin Peaks, che in fondo non è che un’estensione senza limiti, di tempo, personaggi, situazioni, generi, del capolavoro del 1986.
Con tutto l’amore e l’identificazione (più o meno viscerale, più o meno intellettuale) che si può avere per Mulholland Drive (o per Lost Highway, che a me pare qualitativamente identico a Mulholland, e altrettanto inquietante), mi sembra indubbio che il punto massimo dell’opera di Lynch sia proprio quel lungo, reiterato ritratto della provincia americana, oggi (nel 1986, negli anni 90 e 91 e poi nel 2017) uguale a quella “fondante” degli anni Cinquanta, un ritratto dipinto e ridipinto, sognato e risognato, ogni volta ritoccato e lievemente riaggiustato in prospettiva, soprattutto attraverso Velluto blu, Cuore selvaggio, e le serie Twin Peaks con annessi e connessi. Attraversati tutti da immagini di sereno splendore, colori, bambini, cagnolini, giardini, fiori, pace suburbana, ogni volta inquinate da quello che ribolle sotto, neppure tanto in profondità. Non è necessario scavare per trovare un orecchio mozzato o un mezzo cuoricino d’oro attaccato a una catenina o la fiche spezzata di un locale equivoco. Non ci sarebbe nemmeno bisogno di andare fino al confine del Canada per entrare nel casinò/bordello; basterebbero i sogni dell’agente Cooper. Che, come tutti i sogni (non solo quelli dei film di Lynch), sono lucidamente realistici, senza tremolii, senza dissolvenze, sono concreti e colorati, hanno volti veri, musiche e parole vere, stanze vere. Stanze uguali a quelle nelle quali abbiamo visto vivere personaggi “veri” di altri film, stanze rosse spesso, senza finestre; stanze di sogni sulle quali si apre un’infinita sequenza di altri sogni. È il “dentro” che si apre sullo schermo, in una proliferazione che, se non fosse hopperiana e baconiana (ma sarebbe Lynch a doverci spiegare bene questo, perché era prima di tutto pittore), avrebbe concentriche scansioni escheriane.

Ma cosa succede quando invece è il fuori che si srotola in un’apparente e inaudita semplicità per raccontarci quanto ci sia di irrisolto, duplice, misterioso, doloroso, “sognato” più che onirico, sotto la volta del cielo cosparsa di stelle? Succede che nasce un altro capolavoro, ma tanto diverso (all’apparenza) e insolito che non viene immediatamente riconosciuto (almeno non da tutti) in quanto tale che il 15 e 16 gennaio, quando vennero pubblicati i primi articoli sulla morte improvvisa di David Lynch venne per lo più dimenticato. Non citato, un grande film: Una storia vera. Anzi The Straight Story, dove Straight è il vero cognome del vero protagonista della storia, e dove comunque in inglese “straight” non significa “vero” ma “diritto”. Perciò: Una storia diritta. Un viaggio diritto (anche, e forse soprattutto, in senso morale) e lentissimo di un ultrasettantenne su un tosaerba attraverso gli States, dallo Iowa al Wisconsin (più di 500 chilometri a meno di dieci chilometri all’ora), per andare a trovare il fratello che non vede da anni e che ha avuto un infarto. Si sa: il film fu preso bene da chi non amava Lynch e così così da una parte dei suoi ammiratori; alcuni sospettarono addirittura che con la nuova presunta “semplicità” tentasse di rifarsi del disastro al botteghino di Strade perdute. Ma ci fu anche chi sottolineò l’affinità con l’altra commossa storia vera di Lynch (The Elephant Man, veri nomi e cognomi: John Merrick e Alvin Straight), nonostante il film del 1980 avesse più ovvie sfumature orrifiche; e chi si accorse che in fondo Una storia vera non raccontava altro che il “sopra” del “sotto”, quel sotto brulicante, quel dentro in fondo all’orecchio dal quale David Lynch era partito per descrivere l’America (e, in gran parte, il mondo di tutti noi), quel sotto che riemerge nella tristezza di racconti fatti a degli sconosciuti, nella solitudine della notte, nelle vicinanze della morte, nei viaggi lenti, nei sogni sempre presenti.
Film quasi classico che sa bene dove piazzare i tocchi surreali, dove l’autore per una volta ricrea l’aura della sospesa incredulità, ma senza mai perdere il controllo della materia “malata” sottostante. È troppo facile, ma non si può non dirlo: film fordiano, del Ford migliore, che sapeva essere commosso e cattivo e che, come gli fa dire Steven Spielberg nei Fabelmans, sapeva dove doveva stare la linea dell’orizzonte, in alto o in basso, mai al centro, “boring”.
Mai stato “boring”, David Lynch, che piazzava il suo orizzonte in alto o in basso nelle sue stanze senza finestre, nelle sue vite banali, nei nostri sogni, oltre gli steccati con i pettirossi, nei buchi neri a Lumberton come a Mulholland Drive.
In copertina: David Lynch ©Kurt Iswarienko