Le vicende di tre nuclei familiari di una palazzina signorile nel quartiere Prati di Roma. Al primo piano vivono Lucio e Sara, che affidano sovente la figlia Francesca a Renato, il vicino di pianerottolo anziano con segni di una demenza senile. Al secondo piano vive Monica, che partorisce la prima figlia – Beatrice – in perfetta solitudine, dato che il marito Giorgio lavora lontano, in una piattaforma petrolifera. Al terzo piano dimora una coppia di giudici, Vittorio e Dora, il cui figlio Andrea, alla guida in stato di ebbrezza, ha investito e ucciso una donna. Da questo tragico incidente prende avvio il film diretto da Nanni Moretti che si ritaglia anche il ruolo del giudice Vittorio. Il suo personaggio è una figura rigida, che porterà all’allontanamento del figlio, raggelando l’esistenza di Dora, a cui Margherita Buy restituisce un ritratto di luminosa intensità. Le vite dei condomini viaggiano in parallelo, ma rispetto al libro di Eshkol Nevo nel film di Moretti si creano più contatti tra le esistenze, anche attraverso l’inserimento della scansione temporale con cui, a intervalli di cinque anni, si ritrova la quotidianità di queste persone segnate dalla sofferenza e dall’isolamento profondo. Un film che parte da un testo complesso, che racconta le vite in successione, mentre attraverso le immagini di Moretti saliamo con intermittenze dentro i piani in cui ritroviamo il sospetto e il girare a vuoto dei personaggi, a definire un’assenza, una mancanza nelle relazioni di coppia.
Della cultura del sospetto, tra gli argomenti delle pagine dello scrittore ebreo, rimane ad esempio nel film il lascito ravvisabile nel comportamento di Lucio, un Riccardo Scamarcio calato nell’ossessione che la figlia abbia potuto subire un abuso sessuale. Così come calato nelle ossessioni è il pensiero di Monica, cui Alba Rohrwacher rende le sfumature della fragilità e del disorientamento, con un personaggio che trascorre le giornate in solitudine, tra l’invadenza di presenze e voci come spettri della malattia mentale che fu già di sua madre. Nella sua vita si presenta il cognato, con cui il marito assente è in grave conflitto, e in queste pagine di un cinema che si porta dentro i dubbi e la sofferenza mentale si coglie tutta l’intenzione di un regista che con Tre piani affronta la condizione attuale di persone che soffrono per errori non elaborati, mentre il disagio rimane irrimediabilmente inascoltato.
Le controproducenti polemiche che hanno accolto l’uscita di un film ambizioso sul rapporto tra genitori e figli, ovvero sulle responsabilità che non sempre sappiamo assumerci, hanno seguito l’effetto fotocopia del rimarcare soprattutto un presunto stile televisivo del film, o lo “straniamento” degli attori, o la presenza di sequenze “imbarazzanti”. Il discorso andrebbe impostato con serietà, lontano da questi luoghi comuni del condizionamento che persino la critica subisce. Il film sembra darsi come il luogo di un’assenza di relazione tra i condomini, ma questa situazione di conflitti e drammi non elaborati obbedisce a scelte registiche poco alla moda, destinate a disorientare perché lasciano aperto il dubbio, come per quanto riguarda il personaggio di Monica, la quale arriva a immaginare di vedere persone per avere qualcuno con cui dialogare. Una visione della quotidianità sul liminare della psicopatologia, che è quanto di più profondamente morettiano. E il regista asseconda la sua visione stratificata lavorando per sottrazione, prosciugando anziché accentuando le punte di drammaticità, dando voce alle pulsioni che non si governano (il comportamento di Lucio), per portare in dissolvenza il suo stesso personaggio di giudice, lasciandolo in un passato che riaffiora attraverso la voce di una segreteria telefonica da cui la moglie Dora, divenuta vedova, accende il filo del ricordo aprendosi a uno futuro in cui le relazioni possano trovare una dimensione di senso. Moretti lascia a Dora il compito di rivedere il passato e di raccogliere in una cesta le scarpe che appartenevano al marito, ora pronte per essere destinate in beneficienza. Le scarpe sono un lascito del personaggio morettiano più noto, mentre il futuro è in Tre piani qualcosa che si lascia scorgere nella speranza di nuove relazioni, cui offre spunto la danza accolta come una Milonga fuori dalla palazzina, tra le strade della socialità che invitano a una sintonia possibile. Con la musica di Franco Piersanti disposta a calibrare sapienti spunti emotivi, Tre piani spiazza perché non è il Moretti dell’ironia ma invece un film che invita ad attraversare ossessioni e ferite conducendo verso una dimensione aperta e sospesa, evocando la necessità di perdonare, di inseguire e dare voce all’accettazione di sé attraverso gli altri. Il cinema della crisi esistenziale dei personaggi di Moretti trova qui, attraverso l’adattamento delle pagine di uno scrittore in cui il cineasta di Brunico si identifica, quell’intelaiatura drammatica complessa destinata ad allargarne gli orizzonti evocativi. Dopo la crisi d’identità e di comunicazione della chiesa sotto necrosi in Habemus papam, dopo il bisogno di rompere qualche schema mentale per lasciare spazio al lutto per la protagonista di Mia madre, Tre piani sembra ripartire memore della lezione di Caos calmo (per la regia di Antonello Grimaldi), nello sguardo sui fatti dell’esistenza, che possono essere irreversibili e segnare definitivamente le vite, oppure rivelarsi reversibili, anche attraverso il lavoro del tempo. Il cinema di Moretti è infatti, specie nella sua fase ultima e riflessiva, un laboratorio di meditazioni, dove i ruoli che egli interpreta nei film di altri possono tessere una continuità anche con i film in cui si mette dietro la macchina da presa. Un percorso che trova espressione in capitoli probabilmente imperfetti, parti di un racconto esistenziale destinati a dividere ma che non lascia indifferenti e continua a interrogare lo spettatore invitato, anche con Tre piani, a specchiarsi e a seguire un lavoro di autoanalisi.