Non esistono vie di fuga. Durante il periodo più complicato della tua vita sei incastrata in una cerimonia funebre ebraica con la tua ex ragazza, il tuo sugar daddy, una marea di curiosi parenti, un ricco buffet e quell’incredibile senso di oppressione adolescenziale.
Ecco, Shiva Baby (2020) di Emma Seligman – disponibile sulla piattaforma di film d’autore MUBI – è proprio questo: un macrocosmo di emozioni racchiuso in poche stanze e pronte a esplodere.
La pellicola, opera prima scritta e diretta da Emma Seligman, narra le vicende di Danielle (Rachel Sennott), una giovane ragazza che sta cercando la propria strada nel mondo e che viene catapultata bruscamente nella realtà durante uno Shiva: una cerimonia funebre collettiva della tradizione ebraica. Costretta dai propri genitori a presenziare alla cerimonia, la protagonista deve affrontare una miriade di problematiche legate alla propria situazione sentimentale, studentesca e professionale. I parenti che la assalgono di domande, la presenza insospettabile di Max (Dani Deferrari) – sugar daddy – e della sua ex ragazza Maya (Molly Gordon) complicano radicalmente la sua giornata fino a farle toccare l’esasperazione in un vortice di sentimenti e riflessioni.
La giovane regista canadese ha preso spunto per questa pellicola da un suo precedente cortometraggio, ampliando le tematiche e cercando di mantenere sempre viva la tensione dello spettatore per mezzo dei primi piani, della colonna sonora e dell’abile utilizzo della scenografia: uno spazio ridotto – le vicende si svolgono in gran parte all’interno di una casa – dove far muovere sguardi, mettere a fuoco i vezzi e sottolineare i dettagli con delle soggettive e dei particolari.
Una delle scelte stilistiche più interessanti ruota proprio intorno a questo tema, lo spazio. Il senso claustrofobico che Seligman restituisce è profondo e immersivo. La musica extradiegetica, costituita principalmente da strumenti ad arco come violini e viole, scandisce la narrazione e lo stato d’animo della protagonista come il pendolo di un orologio. Tale approccio, unito alla profondità di campo, al pianto di un bambino e agli stacchi frenetici dell’inquadratura sui volti dei protagonisti, conduce lo spettatore a immedesimarsi psicologicamente nella protagonista e provare quel senso di fastidio, oppressione, inadeguatezza e disagio causato sia dalle domande che le vengono poste – sulla sua perdita di peso e sulla sua carriera scolastica – sia da tutto ciò che la circonda. In questo contesto, Rachel Sennott sembra interpretare un ruolo cucito su misura per lei. Le smorfie, i momenti di silenzio, gli sguardi e il disagio interiore danno vita a una dimensione filmica estremamente reale.
Uscito proprio durante l’esplosione della pandemia Covid-19 e quindi in un clima di restrizioni, clausura e quarantena, questo continuo senso claustrofobico dettato dalle immagini in movimento è stato sicuramente percepito in maniera amplificata dallo spettatore, aumentando così l’efficacia e il messaggio della scelta stilistica della regista. Ma non è solo una questione di inquadrature o di colonna sonora. Il disorientamento di Danielle è dettato anche dalla sua bisessualità, dalle dinamiche di potere, dalla legittimazione sessuale e dal raggiungimento della maggiore età, aspetti sottolineati anche in un’intervista a Seligman:
«Penso che l’aspetto più personale è che Danielle sta attraversando questa fase, come un sacco di altre ragazze penso, in cui ti rendi conto che la tua emancipazione o il tuo potere sessuale non sono così forti come pensavi e per le altre cose ti senti impotente. Come quando stai per laurearti e il futuro ti guarda dritto negli occhi. E un sacco delle cose che ti fanno sentire sicura di te cominciano a crollare e ti senti mancare il terreno sotto ai piedi. Penso che tante persone che si avvicinano alla laurea abbiano un momento di panico, tipo “Ma cosa sto facendo della mia vita?”. È sempre successo. Non è una novità, ma nella mia esperienza la cosa era legata al sesso e alle dinamiche di potere e di genere. Quindi anche quell’ansia che ho trasmesso a Danielle è personale».
Tradizioni ebraiche, adolescenza e scoperta di se stessi. Proprio nel 2020 è uscita su Netflix una serie tv che sembra avvicinarsi, solo per alcuni spunti, a Shiva Baby. La miniserie in questione è Unorthodox. Tratta dall’autobiografia di Deborah Feldman – Unorthodox: The Scandalous Rejection of My Hasidic Roots (2012) – racconta le vicende della diciannovenne Esty (Shira Haas), che vive in una comunità ultraortodossa chassidica a Williamsburg (Brooklyn) ed è costretta a seguirne le rigide regole. Nei quattro episodi della serie la protagonista percorrerà un lungo viaggio, letterale e interiore, per scoprire le sue radici e il nuovo mondo precluso.
Il parallelo tra questa serie e il lungometraggio firmato da Seligman racchiude diverse chiavi di lettura, dove le tradizioni ebraiche e la consapevolezza interiore trovano terreno fertile. Però, l’aspetto su cui è necessario soffermarsi e che avvicina le due protagoniste è il fatto di sentirsi rinchiuse in qualcosa: se da una parte si tratta della comunità chassidica, dall’altra invece sono l’incertezza e le speranze a chiudere le porte. Una, Esty, decide di scappare perché si trova oppressa in una realtà che non sembra essere sua. L’altra, Danielle, vorrebbe scappare dallo Shiva ma rimane rinchiusa in quella casa. Uno spazio avvolgente e assillante in cui si trova costretta ad affrontare tutto e tutti: dall’ombra imbarazzante dei genitori fino alla presenza ossessiva di sugar daddy – un uomo di cui sembra essere innamorata e che paga le sue prestazioni sessuali. Due macrocosmi differenti, Shiva Baby e Unorthodox, che sembrano trovare tematiche generazionali e sociali comuni che dipingono un quadro, astratto e stilisticamente differente, sull’emancipazione femminile.
Il contrasto tra tradizioni, contemporaneità e generazioni, l’efficacia della sceneggiatura e i movimenti intimi della macchina da presa amplificano quella che sembra essere una sorta di pièce drammatica, e allo stesso tempo ironica, della realtà. Un pungente palcoscenico, dove i personaggi ruotano intorno alla protagonista e la disorientano – elemento che viene rappresentato visivamente anche in una scena della pellicola.
Shiva Baby, in circa ottanta minuti, racconta un universo complesso e variegato racchiuso tra le mura domestiche. Un continuo flusso di ansia e tensione che trova la sua rappresentazione nei primi piani e nei dialoghi vivi e realistici, in perfetto equilibrio tra l’inquietudine adolescenziale e l’ironia dei folti, e stereotipati, nuclei familiari. Dove la regista, Emma Seligman, gioca con lo spettatore e lo invita a partecipare a quella che si rivelerà una grottesca, ansiogena e rocambolesca cerimonia.