Si chiude la donna in una cucina o in un boudoir
e ci si meraviglia che il suo orizzonte sia limitato;
le si tagliano le ali e si deplora che non sappia volare.
Simone de Beauvoir, Il secondo sesso
Si sente quando nei libri o nei film c’è una verità.
Chantal Akerman, Mia madre ride
Immaginando di raccogliere le suggestioni di Gaston Bachelard e di riscrivere Una poetica dello spazio femminile, la cucina rappresenterebbe per eccellenza il luogo della costrizione e insieme della ribellione delle donne, il luogo dell’esilio dal mondo ma anche della condivisione. Lo scrive bene Vivian Gornick in Legami feroci (1987) parlando della propria madre: «Questa era la sua condizione: lì in cucina lei sapeva chi era, lì in cucina era irrequieta e annoiata, lì in cucina funzionava mirabilmente, lì in cucina disprezzava quel che faceva».
Dentro le mura domestiche, e soprattutto dentro una cucina, si svolge la maggior parte delle scene del film Jeanne Dielman, 23, quai du Commerce, 1080 Bruxelles della regista belga Chantal Akerman, che proprio quest’anno ha guadagnato il titolo di “miglior film di tutti i tempi” nella classifica della rivista inglese Sight and Sound. Se poi lo sia davvero non è importante; di certo, si tratta di un film fondamentale, che ai tempi, era il 1975, ebbe una grande risonanza. Film coraggioso, in linea con quegli anni di lotte femministe, che inscena tre giorni della vita di una casalinga vedova, con un figlio adolescente a carico, mentre svolge i lavori di casa. Una vita così ordinaria da passare inosservata.
E nel 2023? Il restauro della pellicola a cura della Cineteca di Bologna ha consentito a molte persone di rivedere il film in sala; tra gli spettatori c’erano molti giovani che per più di tre ore hanno seguito la protagonista alle prese con la casa e i suoi fantasmi. Che cosa avranno pensato? In che modo Jeanne Dielman può ancora parlarci del femminile, aprire un varco nello spazio delle donne?
Facendo vedere qualcosa che tutti hanno generalmente già visto, il film Jeanne Dielman può considerarsi un film politico: crea infatti uno scarto tra ciò che lo spettatore guarda e l’oggetto guardato: «Tutti hanno visto una donna in cucina» afferma Akerman «e a forza di vederla la si dimentica, ci si dimentica di guardarla. Quando si fa vedere qualcosa che tutti hanno già visto, forse è in quel momento che la si vede per la prima volta». Insomma, l’alienazione domestica è anche alienazione dello sguardo, non solo di chi svolge quotidianamente quei compiti ma pure di chi, non avendoli mai svolti, non è capace di riconoscerli.
La lentezza con cui viene ripresa la protagonista in tutti i suoi minimi spostamenti, e con cui la regista si sofferma su piccoli gesti quotidiani elementari, spesso insignificanti – la preparazione del polpettone, per fare un esempio – è una scelta deliberata che lascia allo spettatore lo spazio per interrogarsi su quello che sta vedendo. Attraverso l’occhio fisso della macchina da presa (la frontalità delle riprese è implacabile) Akerman conduce il nostro sguardo e il nostro orecchio su ogni dettaglio, indugiando – una porta che si chiude e una che si apre, i tacchi delle scarpe che percorrono su e giù il corridoio, il fiammifero che sfrega, il lavandino che sgocciola, la fiamma del gas che si accende. Così, già a metà della seconda giornata, siamo in grado di anticipare tutti i movimenti della protagonista; e forte è il senso di assuefazione e claustrofobia che si prova (le riprese avvengono principalmente dentro alla casa), tanto che viene da domandarsi quante giornate manchino ancora alla fine del film. In quella cucina, in quei gesti ripetuti e talvolta ossessivamente mortiferi, rivivono le donne di Simone de Beauvoir, Paola Masino, Sylvia Plath, Anna Maria Ortese, Vivian Gornick, Annie Ernaux, per citarne solo alcune. È addirittura in una cucina che Anna Maria Ortese scrive l’Iguana – romanzo che ha come protagonista una serva per metà donna e per metà bestia – ed è in uno stipetto sotto l’acquaio che conserva tutte le sue carte. Questo per dire che, guardando Jeanne Dielman, lo sguardo si moltiplica in un gioco di echi e di specchi letterari, ma si allarga fino a includere la vita di tutti i giorni, quella delle nostre madri e delle nostre antenate, che hanno trascorso la maggior parte del loro tempo dentro le mura domestiche.
C’è una scena del film che colpisce per la capacità di descrivere la noia e l’irrequietezza, a cui accenna il passo di Gornick citato all’inizio; è una scena emblematica che si svolge simbolicamente sulla soglia di casa: la vicina ha suonato il campanello per ritirare il figlio neonato che ogni giorno lascia a Jeanne giusto il tempo necessario per svolgere una commissione (almeno così supponiamo, dal momento che la culla viene appoggiata sul tavolo come un pacco e poco dopo restituita). La vicina, di cui sentiamo solo la voce (che è poi quella di Akerman), domanda a Jeanne che cosa cucinerà per cena: annoiata da questa incombenza, confessa di avere l’impressione di preparare sempre le stesse cose, di non avere più fantasia; di più, vorrebbe mangiare un panino in santa pace – che è poi ciò che Jeanne fa all’ora di pranzo mentre il figlio è a scuola. Eppure la vicina ha ordinato non so quanti chili di carne dal macellaio, ed è solo a posteriori che si rende conto che di quella carne che non piace a nessuno, non sa più che farsene. «Mangiare» scrive Masino in Nascita e morte di una massaia (Bompiani, 1945) «è sapere un giorno prima quanto masticherai il giorno dopo, sapere quanto costa, sapere come fu fatto, paventare lo spreco, dubitare il furto; […] Voi volate, noi stiamo a terra. Ci portate appena, dei vostri voli, i paracadute rovinati, perché vi si rammendino, smacchino, pieghino, ripongano. Tuttavia sorridiamo».
Jeanne Dielman però non sorride. Pur ossessionata come la massaia di Masino dai compiti domestici, Jeanne non sembrerebbe subirli, quanto meno nell’immediato. Anzi, cerca di esercitare attraverso di essi un controllo maniacale sulla realtà e la propria nevrosi: quello che Amelia Rosselli avrebbe definito “sterilizzazioni della realtà”.
Il rapporto conflittuale tra una donna e la vita domestica Akerman lo aveva già affrontato nel suo primo film, Saute ma ville – uscito non a caso nel 1968 – in cui la protagonista, da lei stessa interpretata, si rivolta contro la routine della vita domestica e, dopo una serie di detonazioni ed esplosioni in cucina, si suicida, inscenando tragicamente quarantasette anni prima il suicidio della regista. A differenza della protagonista di Saute ma ville, Jeanne sembrerebbe dominare perfettamente la scena domestica e a allo stesso modo in cui apparecchia la tavola per il figlio apparecchia il letto per i suoi clienti: un piccolo asciugamano bianco sopra l’imbottita diventa lo spazio in cui si inscrive l’atto sessuale, immediatamente cancellato dai gesti meccanici e rituali con cui Jeanne, alla fine del rapporto, liscia il copriletto con un colpo rapido e secco della mano, getta l’asciugamano nel cesto dei panni sporchi, s’insapona meticolosamente il corpo dentro la vasca, come a volersi purificare, ma anche riassettare. Dell’attività di prostituzione di Jeanne il figlio è all’oscuro, sebbene lui stesso prelievi soldi dalla zuppiera in cui Jeanne racchiude i suoi guadagni. La sessualità nascosta della madre, tuttavia, affiora nella conversazione che il figlio intrattiene con lei, evidentemente interessato all’argomento ma anche particolarmente turbato. Dopo averle domandato in che modo avesse incontrato il padre e se avrebbe mai fatto l’amore con lui fosse stato brutto, il figlio parla del sesso come di un’attività malvagia fino a confessarle di avere spesso desiderato proteggerla dal padre, temendo per la sua salute. «Se io fossi una donna non potrei fare l’amore con uno di cui non sono innamorata» le dice provocandola. Ma Jeanne, senza esitare, gli fa notare che lui però non è donna, e che fare l’amore “è solo un dettaglio”.
È chiaro ormai che, come ha rilevato Ilaria Gatti (Chantal Akerman, Uno schermo nel deserto, Fefé Editore 2018), il personaggio di Jeanne è ben più controverso e indecifrabile di una normale massaia. Jeanne Dielman, infatti, non è solo la rappresentazione della vita della casalinga bensì la narrazione del rapporto irrisolto di una donna (e di una madre) con la propria casa e i propri desideri, il proprio piacere. Non a caso la regista dichiara di aver scelto appositamente come protagonista una donna bellissima, l’attrice Delphine Seyrig, per interpretare una massaia mai sciatta, sempre impeccabile in ogni dettaglio, dagli abiti al trucco e alla capigliatura.
Già a metà della seconda giornata la sicurezza con cui Jeanne ci sembrava governare la propria casa inizia a vacillare: piccoli segnali (un caffè venuto male, un bottone sfilato dalla giacca, una sedia fuori posto, un ufficio postale chiuso) stanno a indicare una silenziosa rivolta degli spazi e degli oggetti. Sembra di sentire l’eco dei versi di Rosselli in Documento (1966/1973): «Delirai, imperfetta, su scale/ di bastoni/ cose di cucina, casa e /impellenti misure che/ ti riconoscono l’abilità delle manovre». L’identificazione totale di Jeanne con la casa, che ha indotto la regista a inserire nel titolo del film oltre al nome e cognome anche l’indirizzo completo («Lo faccio per fare riferimento alla realtà, a quella vera, altrimenti scompare tutto!») è un’arma a doppio taglio, come ha ben evidenziato Ilaria Gatti: perché non è più Jeanne a possedere la casa, bensì la casa a possedere lei. Ostinatamente attaccata al suo nome e indirizzo, come direbbe Plath, Jeanne Dielman, 23, quai du Commerce, 1080 Bruxelles mostra una donna che lotta per non scomparire.
Ecco allora che sul finale, per la fretta e la curiosità di aprire il pacco che la sorella le ha inviato dal Canada dove vive, Jeanne lascia le forbici appena usate accanto alla toletta della camera da letto, anziché rimetterle a posto. Saranno le forbici a suggerire a Jeanne di essere usate come arma contro lo sfortunato cliente? Oppure la delusione di aver ricevuto in regalo una di quelle sciatte camicie da notte che la relegano definitivamente nello spazio della casa? O, ancora, il piacere provato durante il rapporto sessuale con il cliente, nonostante avesse già avvertito il peso, come di un cadavere, sopra il suo corpo? «Nel profondo, nascosto come qualcosa di disdicevole, il desiderio di un piacere», avrebbe scritto qualche anno dopo Ernaux nella Donna gelata (1981), fa esplodere in Jeanne Dielman lo spazio domestico.
L’immagine finale di Jeanne, seduta, con le mani e la camicia ancora insanguinate, che si riflette sulla superficie del tavolo da pranzo con accanto la zuppiera che troneggia sopra un centrino bianco, mentre la luce bluastra dei fari delle automobili e il rumore della strada trafiggono l’intimità della casa, è il ritratto spettrale di una donna gelata. Per almeno cinque minuti la camera fissa cerca di catturarne il respiro, intuirne il pensiero (come sta? che farà? si sentirà più libera ora?), ma è tutto inutile. Jeanne stessa apre e chiude gli occhi, accenna allora a un sorriso, forse più simile a un ghigno, sospira, e china infine la testa verso il suo doppio, alla ricerca di sé stessa.
La casa, la madre, il corpo (che desidera e che si ammala) sono temi che, insieme all’identità e alla memoria, attraversano tutta la filmografia di Akerman, da Saute ma ville fino a No Home Movie (2015), struggente ritratto di una madre che non c’è più. Del rapporto simbiotico con la madre, della propria incapacità di separarsi da lei, la regista aveva già parlato nel 2013 in Mia madre ride, il diario-memoir che la Tartaruga ha finalmente pubblicato nell’attenta traduzione di Giorgia Tolfo. Leggere questo libro e insieme (ri)vedere No home Movie è particolarmente interessante: non solo perché si ritrovano già scritte scene che compaiono nell’ultimo film, a partire dall’immagine desolante della sdraio ribaltata in giardino, ma anche per constatare come sia nella scrittura sia nella regia lo sguardo di Akerman ai dettagli possa considerarsi fondamentale:
Mi piace scrivere quel che accade anche se non accade nulla. Sì, anche così mi sento una persona che ha qualcosa da fare nonostante non succeda nulla. Eppure qualcosa succede sempre, delle piccole nullità.
Il telefono che suona. Parole dette o scambiate. Il silenzio. A volte i sospiri. Il rumore dei vicini. L’ascensore che si blocca. La spazzatura da portare giù e di nuovo le parole dette e scambiate a malapena.
In Mia madre ride tornano il tema della casa come luogo del riparo e insieme della reclusione, e quello della cucina come stanza per eccellenza, in cui tutto accade, in cui una madre e una figlia tentano un dialogo il più delle volte impossibile:
Mi dice vieni, parliamo un po’, non parli mai.
Sì, parliamo un po’. Di cosa? Di tutto.
Facciamo la lista della spesa.
Sospiro, ma mi siedo lo stesso di fronte a lei in cucina. Succede sempre tutto in cucina.
Per la madre, sopravvissuta ai campi di concentramento, «la cucina respinge l’incubo della fame» (cfr. Ilaria Gatti). Ma l’ossessione per il cibo, già affrontato in Jeanne Dielman, mette l’attenzione anche sul tema dell’accudimento materno e, più in generale, sulla relazione madre-figlia. Chantal rifiutava spesso il cibo da piccola e questo creava molta frustrazione nella madre, così come al contrario si riempiva di gioia se la vedeva mangiare: non è un caso che Akerman scelga di inserire tra le immagini che accompagnano il testo di Mia madre ride, una fotografia privata che ritrae madre e figlia sorridenti a tavola; e tra i fotogrammi dei suoi film (che costituiscono la maggior parte delle immagini presenti nel libro), una doppia pagina a colori in cui Jeanne si guarda allo specchio, così come in No home movie la scena in cui si pelano le patate è un’esplicita citazione da Jeanne Dielman. D’altra parte tra la madre di Akerman e Jeanne si possono rinvenire numerose corrispondenze; entrambe sono due “donne sospese” che hanno trasformato la propria casa in una prigione.
Anche per Akerman stessa il rapporto con la casa è problematico: non esiste un luogo in cui sentirsi a casa, l’unica casa possibile è la madre:
“La bambina vecchia si ripeteva che se sua madre se ne fosse andata non avrebbe più avuto un posto dove tornare” […] “Dopo la morte del padre quel posto era la madre”
“Che cosa mi terrà legata alla vita dopo la sua morte?”
La risposta è “niente”: non a caso, poco dopo la scomparsa della madre, Chantal si sentirà libera di scomparire.
Un giorno ho persino desiderato suicidarmi, ma sorridendo, non dimenticando soprattutto di sorridere come se fosse un gesto privo di conseguenze. Per fortuna lo è stato è perché sono sopravvissuta. Sono sopravvissuta a tutto fino a oggi, eppure ho desiderato spesso suicidarmi. Ma mi dicevo non posso fare una cosa del genere a mia madre. In futuro, quando non ci sarà.
L’insistenza con cui Akerman ricorre al verbo “sopravvivere” è una chiave di lettura preziosa di Mia madre ride: innanzitutto la sopravvivenza si collega alla biografia della madre, a cui Akerman si riferisce di continuo senza però mai citare direttamente l’esperienza dei campi: «Una donna sospesa. Che è sopravvissuta. Lo sa, sa di essere sopravvissuta e che continuerà a sopravvivere. Non è ancora arrivato il suo momento, così dice». La madre è una sopravvissuta che desidera vivere, che è attaccata alla vita; al contrario la figlia, sopravvissuta alla vita, desidera morire. Alla propria malattia mentale Akerman dedica alcune pagine scottanti e necessarie, in cui addirittura la prigionia della madre si connette alla prigionia della figlia in clinica psichiatrica e viceversa: «Non sono venuta qui perché mi rinchiudano, ma per stare meglio, e siccome l’imprigionamento è una delle ragioni del mio star male, allora non potrà che andare peggio». La figlia ha assunto su di sé l’insostenibile peso della vita della madre; incapace di separarsi, rimane per sempre figlia.
Mia madre ride è un libro toccante, autentico, in cui il ridere e il sorridere rappresentano l’unico atto di resistenza nei confronti della vita: «E quando la vita è accettabile non si pensa che ogni giorno si stia morendo un po’, anzi. Pensiamo che la vita sia accettabile e che sia una cosa bella, ne approfittiamo e non dormiamo troppo. Ne approfittiamo e viviamo. Viviamo appieno e ridiamo per un nonnulla». O come ha scritto Masino: «Tuttavia sorridiamo».