È la stagione della nostalgia e del rimpianto. Una stagione lunga almeno una generazione e messa insieme dai frammenti di quel che è stato o sarebbe potuto essere, ma che era comunque meglio di quel che abbiamo raggiunto. In mancanza di un presente tangibile e un futuro certo, l’esercito dei millennials si è trovato tra le mani, come chiunque altro nel passato, un foglio sul quale era tratteggiata la propria identità. Ma se nei decenni precedenti il tratteggio affondava nella carta permettendo di strappare lungo i bordi agevolmente, da un po’ di tempo i trattini che delineano i nostri contorni sono solo disegnati a matita, e seguire le linee guida che dovrebbero definirci si trasforma in un’operazione impossibile. Così, per quanta attenzione si dedichi al ritaglio, il foglio si strappa e si lacera, a meno che si decida di non toccarlo, congelandosi in un limbo senza uscita, per accorgersi che in fondo, quel foglio ripiegato in una tasca sarà comunque destinato a logorarsi.
Sfiorata da vaghi echi di una “modernità solida” ormai lontana e mai vissuta, immersa nella liquidità del nuovo millennio, la Generazione Y ha sbracciato fino a oggi tenendosi a galla come poteva nel profondo mare dell’interregno, per accorgersi che i cambiamenti sociali da cui è stata travolta sono in una costante e incontrollata trasformazione. In una condizione di precarietà perenne, i trentenni seguitano così ad attraversare il campo minato della realtà accorgendosi che anche questa sta perdendo consistenza, allontanandosi sempre più da qualsiasi stato della materia, compreso quello gassoso. Quel che resta di una generazione ricoperta di cicatrici sono allora quei fogli strappati male, sagome monche o dai contorni irregolari pronte a ricordarci ogni giorno le nostre imperfezioni. Ma nonostante tutto «se campa pure con ste forme frastagliate, accettando che non ce faranno mai giocà nella squadra di quelli ordinari e pacificati. Però se potemo comunque strigne attorno ar foco e ricordasse che tanto alla fine tutti i pezzi de carta sono boni per scaddasse. E certe volte quel foco te basta. E artre volte no».
Questo e molto altro è il racconto che Zerocalcare riesce a fare di una generazione: la sua. Infischiandosene delle regole dello storytelling e del sempre più pressante politically correct, tra un “porcoddue” e un “cristoddio” che suonano come invocazioni, momenti di ilarità irresistibili e pugnalate al cuore, Strappare lungo i bordi (Netflix) è una digressione costante tenuta insieme da un sottilissimo filo orizzontale. Questa linea è un viaggio nello spazio (da Roma a Biella), un tragitto che si fa contenitore di ricordi trasformandosi in un viaggio nel tempo e, inevitabilmente, nei propri fallimenti, dalla scuola elementare al primo amore, in un percorso esistenziale in cui tutto cambia, tranne il soverchiante senso di inadeguatezza. Una sensazione che è al tempo stesso solitudine e dalla quale non è scontato uscirne vivi.
Se è difficile conoscere se stessi, risulta impossibile, malgrado ogni sforzo, conoscere l’altro. Dare voce a ogni personaggio, fatto salvo della propria coscienza a forma di armadillo, pare allora il modo migliore per sottolineare che ciò che stiamo guardando non è visto da fuori, ma da dentro, e che le digressioni, le parentesi, le divagazioni, sono solo uno stratagemma della mente per fuggire dal dolore. Un dolore nutrito dai ricordi, da un senso di responsabilità per qualcosa che non si è commesso. O forse sì. Perché per quanto si possa essere bravi a “schivare la vita”, prima o poi questa ti travolge come un treno. Allora si torna a quei fogli di carta irregolari, nei quali cercare aiuto o ai quali offrirne, ma che non sempre, nella loro imperfezione, possono davvero servire a qualcosa.
Forse mai così tanto, prima d’ora, i media hanno giocato sulla nostalgia, sul ripescare il sapore agrodolce della malinconia per fare breccia in un pubblico che, incapace di elaborare e dare un senso al presente, preferisce scaldarsi nei ben più rassicuranti ricordi. Ricordi che, quando non abbastanza accoglienti, possono essere rielaborati, anche inconsciamente, a nostro favore. Capita a tutti, anche a Zero e alla sua coscienza. Insieme a loro lo schermo si trasforma in uno specchio in cui riconoscersi per ciò che si era, con delle amare riemersioni in un tragico presente, occasione non per forza gradita per provare a fare i conti con se stessi, accettarsi per quel che si è.
Viene da immaginarsi la Generazione Y come un filtro sudicio attraverso il quale far passare alcuni elementi di un futuro da ricostruire completamente. Ma se il filtro è costituito da nevrotici incapaci di scegliere tra due pizze e convinti che ogni male del mondo sia frutto della propria incompetenza, difficile credere che questo futuro possa essere degno di nota. Ed ecco che, forse, l’era della post verità, della menzogna e del complotto a tutti i costi non sono che l’unico castello edificabile col materiale filtrato. Non che queste ultime siano tematiche trattate nella serie, ma è inevitabile riflettere a cosa abbia condotto questa generazione di mezzo, travolta da un cambiamento di paradigma culturale devastante.
Strappare lungo i bordi non è una serie perfetta come non lo è la generazione che rappresenta. Il suo interminabile e frenetico voice over la fa assomigliare a una stand up comedy animata che potrebbe essere semplicemente ascoltata, le continue digressioni sono parentesi talvolta eccessive, il suo formato solo una versione allungata di quanto già offerto dalla precedente Rebibbia quarantine, ma non importa, perché in ogni episodio Zerocalcare riesce a darci qualcosa in cui riconoscerci, dimostrando che, al netto di ogni logica editoriale o regola “grammaticale”, certi racconti, carichi delle emozioni che trasportano, possono arrivare dritti a spaccarti il cuore. Per quanto i broadcaster siano sempre più alla ricerca di elementi glocal, è difficile immaginare che una serie così radicata nel territorio possa trionfare all’estero. Altrettanto complesso è pensare che possa realmente colpire un pubblico lontano da quello dei millennials. Oppure no, perché il senso di inadeguatezza è una condizione universale e per apprezzare questa serie basta sentirsi inadeguati.
Credits fotografici: Netflix Italia