La parola che Giordano Meacci usa più spesso è tentativo, talora nella variante di azzardo. Come lo sono i protagonisti più poetici del suo affascinante Acchiappafantasmi (minimumfax), i senza carta. Frammenti incompiuti, perduti, nascosti, che trovano dignità poetica e prendono vita nel mondo che abitiamo. Tracce di grande letteratura o di parole possibili. Così, in Acchiappafantasmi, Meacci – con la sua prosa luminosa e coraggiosa – ripercorre tutta la propria esistenza in frammenti: racconti, ritratti, esperimenti per dar forma a un abbecedario degli affetti e delle declinazioni possibili della parola. Un viaggio multiforme e cangiante (lui direbbe «stellante») nel potere senza confini della letteratura, in un dialogo personale abbacinante con il Meacci autore che si trasforma in voce collettiva. Squaderna mondi, come accade di fare parlandone con lui. Parole, suoni e immagini, e tutta la sua intelligenza, che ne fanno l’interlocutore ideale per rispondere ai grandi interrogativi sul senso della parola, della lingua e del loro farsi.
Pasolini, parlando del passaggio dalla letteratura al cinema dice: «Io pensavo di avere cambiato mezzo, in realtà, mi sono accorto che ho cambiato lingua, Il cinema è un altro sistema di segni. Invece di raccontare attraverso la trasformazione della realtà mi permette di raccontare attraverso la realtà». Il cinema è l’altro linguaggio della tua vita, e uno degli altri linguaggi e dei cardini anche del lavoro che hai fatto su Acchiappafantasmi. Quello che vivi tu e che racconti è un cinema fatto di parole di parole scritte: qual è per te il passaggio? È fondamentale anche per il racconto che Pasolini stesso ha fatto del suo cinema attraverso la visione della realtà. Acchiappafantasmi è un tentativo, attraverso la forma, di imbrigliare. Acchiappare, incatenare i fantasmi degli anni trascorsi. Cinquantuno pezzi (mi piace chiamarli come farebbe Hemingway) più lo zero, il senso infinito degli che mi restano e un’introduzione fluttuante. Non sono posti in ordine cronologico, ma messi in sintassi l’uno nell’altro. Io penso per iscritto, in varie forme, Tra queste, la forma cinema è un modo per raccontare le visioni che mi hanno folgorato nel tempo, mi hanno incatenato alla bellezza che mi proponevano. In Acchiappafantasmi c’è una commistione di vita, di letteratura, di cinema, di ricordi di intuizioni, di meraviglie trascorse, di dolori. Nella sezione dedicata al cinema la volontà era quella di far trasmigrare le impressioni di parole in impressioni di immagini. Nel testo che dedico a Ettore Scola, evoco Bunuel, quando dice «girare mi annoia perché per me una volta scritto il film esiste già», Scola conferma, il film scritto esiste già. Questo mi rimanda anche a Pasolini quando diceva che non conta arrivare a completare, comporre le opere, quanto immaginarle: è il suo pensiero cinematografico finale. Il mio tentativo è stato quello di fondere i due universi e restituire poi le immagini attraverso le parole. Anche costruendo una poesia dalle battute delle sceneggiature di Ettore Scola, perché la nuova forma aveva bisogno di una resa poetica delle impressioni visive. Acchiappafantasmi è un libro di parole in sintassi, come è giusto che sia in qualsiasi azzardo di letteratura, ma è anche un costante tentativo di far rilucere barbagli, barlumi, sfolgorii di universi che mi hanno accecato di bellezza. Volevo azzardare la realtà attraverso la riscrittura della mia personale, soggettiva, gelosa e segreta finzione. È sempre un gioco di parole, soprattutto quando cerco di raccontare la prima volta, come quando gli esseri umani si sono trovati a vedere i loro sogni dipinti in movimento, o quando tento di raccontare mio padre attraverso il ricordo dei cinema di prima visione che a Monteverde negli anni ’70 frequentavamo.
Con Acchiappafantasmi tu riesci a fare letteratura certo inventando, narrando e aggiungendo, come scrivi, però è un libro fatto di realtà concretissima, di descrizione. Come ti rapporti al tema della necessità dell’invenzione in letteratura come punto di partenza?
Hai identificato un’anomalia in Acchiappafantasmi. Spesso mi viene rimproverato un eccesso di invenzione significante. (Cinghiali che parlano, koala che fanno migrazioni di massa). Ora capisco che in Acchiappafantasmi, in apparenza l’esperimento più onirico e formalmente autobiografico, dove gli Ulisse di Joyce che parlano con l’Ulisse di Dante, l’ancoraggio a quello che noi chiameremo per comodità realtà mi dà una chiave nuova di lettura. La zavorra del reale viene lasciata levitare come un ascensione aerostatica dall’uso. Qui il come, la scelta delle tecniche, delle forme in cui raccontare anche un concerto di Paolo Conte con la donna della mia vita, nello sguardo sghembo e diffratto c’è invenzione tipica degli esseri umani quando ricordano la loro vita e la completano di dettagli: questo è un approccio poetico. I versi non sono mai una descrizione puntuale. È il particolare, direbbe Vincenzo Cerami, che invera tutto. Credo che la sfida di chi scrive sia far credere che sia tutto vero laddove è inventato, artificiale perché fittizi sono sempre i nostri ricordi. Un particolare è già una scelta, in cui c’è la verità letteraria. Quel che resta è il come hai raccontato quel telefono a gettoni che non esiste più e che metteva in comunicazione una casa di Monteverde nuovo con un paese umbro. Non è nostalgia, ma emmenalgia, una sorta di desiderio di futuro. Pensare «Mi illumino di immenso» come il retaggio finale di una poesia di milioni di versi è cercare un riflesso di bellezza.
Abbiamo in comune l’amore per le citazioni: mi viene in mente quando Lucia Calamaro in Smarrimento fa dire alla scrittrice incarnata da Lucia Mascino che la spicciolaggine del quotidiano è anti narrativa. Questa bella frase è un’invenzione, quindi l’anti narrativo ha una premessa di narratività. L’aggettivo quotidiano mi è caro, lo usò Bertolucci in un’intervista per il mio primo libro. Rendendosi conto del mio felice disagio di essere di fronte a uno dei Grandi Maestri del Novecento disse: «Prenda questo non come un momento normale, ma quotidiano. Non esiste una normalità figurarsi per un poeta. È un accessorio che usiamo per identificare un momento tra gli altri, perennemente cangiante». Le norme cui ci atteniamo variano, sono condivise o non sono. Mentre il giornaliero è l’effimero che condiziona La nostra percezione della realtà. La narratività invece per me è una narrazione assoluta, dieci pagine di Proust su un solo oggetto, il dialogo-monologo del vecchio Santiago con il pesce, la prima pagina di Amatissima in cui si fonda una nuova visione dei fantasmi. Continuiamo a giocare con le parole: un conto è racconto, un conto il resoconto. Anche nel resoconto c’è sempre una possibilità di incanto. ma mi incanta il racconto meno il resoconto. Anche la quotidianità dipende dal come.
La forma è un cardine del tuo lavoro, ma mai un sistema chiuso autoreferenziale. Risolviamo questa opposizione tra gli scrittori di narrazione e di forma?
Solo scrittori e scrittrici che sanno usare la forma lo sono. A chi non ha consapevolezza della forma può capitare una buona frase una buona pagina. Il genio è preterintenzionale. Non è necessario un teorico, però deve conoscere la regola da applicare in un dato contesto. Non esiste, secondo me, divario tra scrittori di forma e di contenuto, perché il secondo è necessariamente trasfigurato dalla forma. Luca Serianni diceva che la forma non è tutto, ma il 98, 99%! La declinazione dei temi attraverso la forma è quello che permette all’arte di manifestarsi nella ricerca di verità e bellezza. Posso commuoverti se so usare bene le parole per descriverlo, ma senza la tecnica e l’arte di Picasso Guernica non esisterebbe. Non esiste arte senza forma, ma le forme sono tante. Il duello apparente viene inteso nelle sue forme estreme, ma gli autori e le autrici riescono spesso, attraverso una rastremazione della loro lingua a scovare nuovi gerghi finora inesplorati. Cerami, per esempio, si fa carico di una lingua nuova, quella della piccola borghesia, manipolandola affinchè diventi una traccia testimoniale universale, variandola a seconda delle opere. Tony Morrison, invece, inventa una lingua che prima di lei non esisteva per raccontare un’epopea, una tragedia, un vulnus dell’umanità che aveva bisogno di quelle tracce linguistiche.
Siamo fatti della stessa sostanza di cui sono fatti i nostri maestri. Tu metti insieme una serie di debiti di riconoscenza e non solo: come si fa fare propri i maestri, emancipandosene? Come si trova la propria voce? Sono i maestri stessi a indicarla. Pasolini ha trovato la sintesi citando il filologo Giorgio Pasquali in Uccellacci e uccellini: «I maestri vanno mangiati in salsa piccante». O anche, detto con Brecht: «Se vuoi avere rispetto dei classici saltaci sopra con gli scarponi e non averne paura». I maestri quando lo sono concedono libertà operativa e sanno che te la devi conquistare da te. Altrimenti rischi il fallimento dell’epigonia. Perché i grandi maestri rischiano di essere dei vicoli ciechi, se tu assecondi le loro ossessioni. Il grande maestro è chi ti dice: «Scegliti la tua ossessione e perseguila fino in fondo». Io sono grato ai maestri per l’insegnamento di un metodo che ti permette una scelta, anche sbagliando. I miei, le mie cinque dita della sinistra sono Claudio Caligari, Vincenzo Cerami, Fabrizio De Andrè, Fernando Pivano e Luca Serianni. Ma le responsabilità di quello che faccio mie. Loro sono le dita del cuore, con una metafora trita che mi va di brandire – perché l’effetto di una metafora dipende sempre da come le muovi. C’è una prepotenza della mia voce a cui non vogliono rinunciare, ma è un’arroganza la cui bellezza eventuale dipende dalla forma che io uso per raccontarla. Alle loro voci, dunque io devo aggiungere in senso oggettivante il mio azzardo di voce e tutte le ossessioni che mi hanno consegnato e storie della mia vita. Le stesse persone che ho citato erano perennemente in lotta con le loro ossessioni e alla ricerca di una risposta che non esiste alla domanda giusta. Ecco i maestri ti dicono: «Ricordati che devi fatti le domande, poi le domande da farti e le risposte provvisorie da darti in arte quelle le devi scegliere da te», quella è la tua voce non esiste possibilità di sovrapposizione Quando c’è un eccesso di contiguità tra maestri e allievi c’è il paradosso, c’è un errore da parte di entrambi. Io sono stato fortunato, sono certo che almeno da parte dei maestri l’errore non c’è stato, quindi mi arrogo il diritto di dire che la vera bellezza della gratitudine sta nel domandarsi qual è la propria voce e darsi le risposte che ci sembrano in direzione ostinata e contraria rispetto alla lezione radiosa dei maestri, sennò vanificheremmo il senso della ricerca, della sperimentazione della gioiosa volontà di capire che cos’è la vita attraverso la scrittura.
Nel libro parli di quadridimensionalità, considerando il tempo. Questa scrittura è una lotta contro il tempo, fatta per restare, per durare trovi che sia quello il grande compito della letteratura?
Credo sia l’unico motivo per cui scriviamo. Rendere eterno il nostro effimero presente. Lasciare una traccia di bellezza che possa essere raccolta da chi verrà dopo di noi. All’inizio di qualsiasi scrittura c’è l’incanto di voler raccontare una cosa che ci ha colpiti e il terrore che questa cosa venga dimenticata da chi verrà. In questo equilibrio giochiamo il più grande azzardo arrogante che esista, sfidiamo la morte, vogliamo deriderla e irriderla. Il dovere estetico è la luce di qualsiasi artista, un’eternità fittizia rispetto all’universo, ma con l’arroganza di chi vuole sfidare l’eternità, con un’ansia battesimale che riguarda il linguaggio, la nostra invenzione più cara e la volontà di ovviare all’impossibilità. Sfidiamo la morte raccontandoci quotidianamente non esiste. L’invenzione è al tempo stesso un esorcismo e una presuntuosa volontà di affermazione attraverso la bellezza.
Quando penso a Nanda Pivano a una frase celebre: «Io i miei scrittori non li ho mai giudicati, mi sono limitata ad amarli». Lei aveva bisogno che tutto quello che voleva trasportare in Italia diventasse legame umano, amicizia, conoscenza di una storia che produce un’opera letteraria o artistica. Tu invece scrivi: «Con i roghi il potere di Cancella o distrae da quello che gli autori, ai Pasolini, ai Bruno, importa di più cioè la loro opera». Come si tiene insieme la famigerata questione sulla primogenitura dell’opera e necessità di conoscere la biografia degli autori?
Usa due chiavi: giudicare e amare. Partiamo dal presupposto che i personaggi non puoi giudicarli, non devi. Li racconti nella loro ineludibile fragilità di esseri umani. Pivano dice: «I miei saggi sono sempre stati solo lettere d’amore» perché lei si appassionava delle opere e delle vite di uomini che tuttavia, nel momento in cui li scriveva, diventavano personaggi. I racconti di Pivano di Hemingway di Kerouac, di Gregory Corso li trasformano. Quando leggiamo del suo incontro a Cortina con Hemingway, non ci interessa più sapere se l’aneddoto è vero inventato. Così Kerouàc, come diceva lei. – «Insomma, avrò saputo come si chiamava, quando mi telefonava disfatto e disperato alle tre del mattino!» – La telefonata c’è stata, evidentemente, ma è talmente bello il modo in cui la racconta la fantasia creativa di Pivano, una grande scrittrice.
Essere amati per non essere giudicati è un paradosso del potere che, attuato nella vita civile, diventa gravissimo. Bisogna essere sempre consapevoli di separare i piani e non confonderli
Io ritengo sia necessario essere di parte nelle questioni civili e essere possibilisti delle infinite sfaccettature dell’animo umano quando si scrive per l’arte del romanzo. Quindi il giudizio che ci impone la vita civile e una sorta di Amore se per amore vogliamo usare la radice etimologica di studio dell’animo umano. Tutto questo si trasformava nel racconto – e uso una parola che mi arriva da lei – stellante dei suoi personaggi. Esiste un Kerouac e un Hemingway di Fernanda, come fossero opere d’arte che ci ha veicolato. Tutti siamo la somma screziata e variegata delle percezioni che gli altri hanno di noi.
Nel tempo è diventato abbastanza evidente come lei voglia identificare quello che nel tempo segna un cambiamento…
La sua parola era rivolta a quelli che cercavano in qualche modo di non accontentarsi delle regole vigenti. Si rivolgeva all’America perché era l’incanto della nudità di forme, di temi. Hemingway ritirando il Nobel parla di «tempi di spavalderia e purezza di cuore. Ma che io però mi ricordo come le scalmane giovanili». Ma anche periodi di responsabilità, vitalismo anche narrativo. Lei lo rincorreva anche mutuando le istanze civili di cui lei era portavoce.
Questo pone la questione di qual è, se c’è, il compito di chi si prende l’onere, magari di non scrivere ma di scrivere della scrittura di altri. Della critica non esiste una forma sola, però io penso sempre che quando si raggiunge un apice di profondità, di intelligenza critica, di capacità di comprendere il testo c’è bellezza. Penso alle lezioni di Serianni, che erano un metodo. Lo storico della lingua, per metodo, non dà giudizi di valore, ma racconta quello che vede. Pasolini diceva: «Un linguista non deve dire se un congiuntivo è bello o brutto, ma se è un congiuntivo» è il racconto di un modo in cui attraverso la forma usata dagli autori, in una lingua che si muove, scoprivo un modo per appropriarsi della realtà. Capisco molte più cose attraverso la semplice individuazione di forme particolari di un autore. Credo che ci siano percezioni universali fatte magari da uno scrittore che si fonda su un particolare aspetto. Se il metodo di partenza si basa sulla ricerca della bellezza e su un rigore di fondo, gli sviluppi diventano un atto creativo in sé, un tentativo eterno di ricavare una verità dalle parole. Un gioco per passare da un universo all’altro. Quello che fa un grande critico è offrirti una strada, delle domande. Lo fa anche il grande romanziere, che come il saggista mi entusiasma o deprime a seconda delle domande che nasconde o rivela.
Il tuo è un libro scritto sulla musica…
Io amo molto la musica delle parole messe insieme, mi travalica spesso. Mi piace gestirle, perché a volte l’ineffabile che non so da dove arrivi mi colpisce e poi mi permette di scolpire all’interno di quella musica che vado cercando. Io mi rivedo nei corsivi, nelle forme grafiche apparentemente accessorie, nel virgolettato. Mi rivedo nel tono che mi sembra di poter trasmettere attraverso una folgorazione visiva, Quello che mi sta realmente a cuore è che la mia voce possa essere resa attraverso una partitura il più vicina possibile al mio tono in cui mi nascondo. L’eccesso apparente di sottolineature è un modo per fare della pagina una partitura in cui un esecutore può ricreare la voce che sto cercando di rappresentare. Spero che il lettore, anche quando non è d’accordo col contenuto oppure rimane spiazzato da certe torsioni sintattiche, comunque ci trovi una musica. È anche questa la volontà battesimale delle parole: che il lettore possa dire: «magari il testo non me lo ricordo bene, però la musica volendo te la posso provare ad accennare perché me la ricordo».
In Acchiappafantasmi c’è Giordano Meacci con la sua vita, la sua storia, i sui percorsi, però a colpire è la possibilità che tu dai di sentire proprio un io singolare. Come gestisci l’io dentro a uno scrivere per diventare universali? Tengo molto all’idea della singolarità esposta di chi narra in un caso come Acchiappafantasmi, se partiamo dal presupposto che io stesso mentre mi racconto fingo. Il Giordano che viene raccontato, anche quando si espone è fittizio, filtrato dal narratore. Viene prima il personaggio della persona, altrimenti sarei costretto a giudicarmi e non verrebbe un bell’esercizio di stile. Mi muovo nella rappresentazione del debordante apparente. Se c’è un io si nasconde nelle forme grafiche che uso per raccontare la mia voce. Nei corsivi e la punteggiatura c’è il me più autentico. Anche in un libro autobiografico, c’è sempre una diffrazione della forma. La ricezione, poi, dipende dall’eventuale anomalia felice o infelice del libro stesso.
In questo libro c’è anche il teatro: si può intendere come una sintesi tra la parola scritta e quella per voce? Lella Costa parla del teatro come dell’incontro tra uno spettacolo vivente un pubblico altrettanto vivente. Nel tuo libro c’è spazio per la lettura per voce in scena. Può essere la sintesi tra la scrittura e il cinema? La lettura teatrale per me un modo per fissare in quel momento un testo che mi vortica nella testa a lungo e poi assume una forma di effemeride, la resa momentanea di una particolare esecuzione. Le didascalie che nel libro segnano le letture teatrali non esistevano nella stesura originale. Lo slang giocato di Dylan, i toni del Bruno o la lectio teatrale sui sogni del cinema, possono essere letti perché hanno la forza delle didascalie. Con Francesca Serafini lavoriamo così anche al cinema, a rendere le sceneggiature una lettura altra possibile, di qua dalla resa visiva. Le mie letture teatrali valgono per iscritto. Le didascalie poi possono essere trascese, perché sono digressioni sull’effetto delle musiche proposte, o sugli aspetti letterari. Nel testo c’è una fissità, su cui poi, come ci ha spiegato Luca Marinelli, bisogna teatralmente danzare. Gli attori devono avere la possibilità, col regista, di danzare sulla sceneggiatura. Io non sono un attore, sono un lettore. Perché l’attore ha una padronanza del corpo, della mimica che non mi riguarda. La mia resa teatrale di solito prevede che i fogli vengano gettati via alla fine, restano nella memoria e nella forma delle didascalie che li sottolineano, li confermano, li esaltano, li smentiscono ogni volta.
Dentro Acchiappafantasmi ci sono persone raccontate attraverso frammenti che diventano scaglie di una vita. Tra queste figure, ce ne sono alcune che mancano, nell’indice. Non c’è Claudio Caligari, non c’è Fabrizio De André. In questi cinquantuno frammenti più uno, chi manca? Quale frammento avresti scelto per raccontarlo? Ci sono due ritratti espliciti, Cerami e Pivano, ma tutti ritornano, mascherati riscritti. De André è l’unico esergo aperto, come fosse una pausa di silenzio per rendere l’universalità di che cosa accade quando alla fine delle dita debba deve cominciare qualcosa, la chitarra o i sogni che perseguiamo. Poi c’è Scola, maestro vissuto da lontano, come Pasolini o Bertolucci.
Non tutto doveva essere rispecchiato in una forma esplicita, come ce la si aspetta. Sarebbe stata una mancanza grave nei confronti dell’azzardo artistico che io volevo fare. Tutti ci sono, ma vissuti in maniera diversa da come si sarebbe potuto credere che venissero raccontati. Una continua dispercezione di me. In questa volontà di disattendere c’è la cifra stilistica più vera che comprende l’intero libro. Nella curvatura dello spazio tempo che fa Acchiappafantasmi vorticano altri testi: nelle ellissi studiate c’è una conferma della presenza. Come fantasmi di racconti passati o, per citare Dickens, spettri di racconti futuri. C’è sempre una presenza testuale vorticante ineludibile, che trasforma le disattese eventuali in una sintassi con tutto quello che ho scritto o scriverò.
Per chiudere: di Nanda scrivi che ha consegnato un universo linguistico, e forse non solo linguistico, che abbiamo potuto usare anche grazie a lei. A proposito dell’arroganza di cui sopra: quale universo linguistico e non solo linguistico vorresti che consegnasse ai suoi lettori il Giordano Meacci di Acchiappafantasmi? È una domanda per cui è improponibile essere intelligente, etimologicamente. Capire esattamente quale universo linguistico mi piacerebbe consegnare significherebbe limitarlo. È proprio la non intelligenza di quello che può essere consegnato o non consegnato che si gioca l’azzardo della letteratura. Sarebbe appannaggio del me lettore, mentre l’università della scrittura è nella possibilità di creare domande diverse per lettrici e lettori diversi. La grande speranza è che regali tanti universi linguistici, quanti sono quelli reinventabili da lettrici e lettori spero commossi o divertiti dall’azzardo di musica che ho provato a suonare giocando, nel doppio senso linguistico to play. C’è una identificazione con il presente, il punto di vista dell’universo, quel momento fragile e friabile dell’esistenza umana.
Immagine di copertina: The False Mirror, Magritte