Si comincia dalle sorelle Kardashian, si arriva a Sissi, l’imperatrice. Liv Strömquist, fumettista e dj svedese, ci ha abituati così, a essere pronti per cogliere risonanze e rimandi attraverso i secoli e gli spazi geografici. Nei suoi fumetti parla spesso di amore, di relazioni e del significato che assumono all’interno dei diversi contesti che prende in considerazione, ma l’attenzione ritorna sempre al presente, a come i rapporti si configurano in un sistema capitalista dove anche il privato finisce per essere visto in ottica di ottimizzazione.
Dentro la sala degli specchi è il suo ultimo lavoro, pubblicato da Fandango nella traduzione di Samanta K. Milton Knowles. La sua esplorazione questa volta ci porta al confronto con la nostra stessa immagine: dopo I am every woman e Il frutto della conoscenza, Strömquist torna infatti a concentrarsi sullo specifico ruolo che assume chi si identifica come donna all’interno della società in relazione al concetto più sfuggente e allo stesso tempo pressante di tutti, la bellezza.
Se come diceva Keats una cosa bella è una gioia per sempre, non si può dire che questo valga per gli esseri umani: ci è difficile godere genuinamente della bellezza di un’altra donna – Strömquist prende a esempio rapporti essenzialmente eterosessuali, dove si concentrano tutti gli automatismi che vuole andare a smontare – perché il confronto scatena la competizione. L’altra persona non è un intero a sé, di cui possiamo apprezzare le sfaccettature, ma uno specchio impietoso che ci rimanda indietro i nostri stessi difetti. Partendo dagli studi di René Girard, Strömquist ricostruisce il meccanismo: se da una parte per sfuggire al conflitto si è portate a denigrare chi ci ha messo in una condizione di inferiorità, dall’altra la spinta è quella di assomigliare al modello ideale, comprando sempre di più.
I social hanno fornito una cassa di risonanza impagabile: non sono più solo le star dello spettacolo a essere ammirate e copiate, ma una quantità esponenziale di “persone comuni” che mostrano quanto sia accessibile la loro bellezza. Poco importa che i social siano un’illusione quanto lo è la pellicola cinematografica: è necessario arrivare a quel livello di bellezza perché solo la bellezza ci può assicurare un posto nel consesso sociale. Strömquist recupera Zygmunt Bauman, e Eva Illouz: dove i sentimenti sono liquidi, e ancora l’essere in una relazione ha un impatto sullo status, la bellezza è lo strumento che può garantire, almeno in termini astratti, l’amore.
È evidente come in un sistema tardo-capitalista queste siano leve preziose: non solo perché, per l’appunto, tutto diviene consumo, ma per la visione stessa della persona come un prodotto che si può costantemente migliorare, immettere sul mercato e impiegare al suo massimo. La bellezza di per sé sarebbe gratuita, e trova la sua forza nella transitorietà: ora ci viene chiesto di lottare contro il tempo per non diventare irrilevanti. Non è un fatto solo di oggi: per questo Strömquist attraversa il tempo, ricorda la rigida routine dell’imperatrice Sissi, tra palestra, camminate estenuanti e digiuni, e risale fino ai versetti della Bibbia su Lia, la moglie dagli occhi “smorti” di Giacobbe.
Lo sguardo maschile ha sempre scelto cosa porre in risalto, nelle narrazioni che sono arrivate fino a noi. Il servizio fotografico di Bert Stern a Marilyn Monroe racconta la storia dello sfruttamento ossessivo di un’immagine. A settembre è uscito su Netflix Blonde di Andrew Dominik, presentato anche a Venezia, che questa immagine la rifrange per tutto il film: le foto di Monroe schiacciano la persona che c’è sotto, imprigionata dai vincoli dell’inquadratura. La pellicola – ispirata all’omonimo romanzo di Joyce Carol Oates, non a una biografia – lascia lo spettatore a disagio: la sua protagonista è in balia di una regia che per prima le toglie tridimensionalità, e si lancia sulla sua figura con un luccichìo sinistro negli occhi.
Il fatto che ora molte immagini ci arrivino dalle dirette interessate, come Kim Kardashian – che oltretutto proprio quest’anno al Met Gala ha voluto indossare lo storico abito di Monroe – apre comunque delle altre domande: abbiamo interiorizzato quello sguardo? Per Sontag l’accesso a una macchina fotografica ci ha reso tutti dei voyeur: l’essere adesso fotografi di noi stessi ci trasforma quindi in voyeur di noi stessi, ribalta l’esterno e riporta il gioco pericoloso di specchi tutto all’interno.
Non ci sono soluzioni facili, nei fumetti brillanti e densi di Liv Strömquist. L’ironia è uno strumento affilato per dissezionare la società: chissà che non sia anche la via per liberarsi del giogo di questa bellezza regolamentata, che ha perso la sua gratuità. La nostra immagine si è impadronita di noi: ma possiamo superarla in furbizia.
Immagine di copertina di Liv Strömquist/Fandango